Le Torri Nere - La Porta Nera
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Info su questo ebook
Ethan si è sacrificato per consentire la loro fuga e Farah non è affatto intenzionata a lasciare che il suo sacrificio sia vano. Prende Erika con sé e fugge verso Corin. Sa bene che i venti di guerra spirano violenti su quelle terre, e che è tutta colpa di Miles. Le due donne dovranno presto affrontare re Jal Rorke, figlio del defunto Howard, consapevoli che da tutti viene considerato un pazzo e un guerrafondaio. Il conflitto sembra imminente e loro non sono affatto pronte.
Nel frattempo, Ethan viene condotto a nord da Konrad Smith. A quanto pare aveva ragione: lo scopo di costui non era ucciderlo, ma catturarlo vivo insieme ai suoi compagni di viaggio. Si domanda ancora una volta perché, ma quella domanda sembra non avere una risposta, così come tutte le altre che affollano la sua testa.
Liam Evans, infine, capisce che suo padre ha sempre avuto ragione: il tempo sta per scadere. Il continente è ora minacciato su due fronti: da una parte c’è Miles Loh, sovrano di Samor, i cui piani sembrano sfuggire alla concezione di molti; mentre dall’altra vi sono i Protettori, i quali hanno fatto scoppiare la rivolta di Lancia senza alcuno scrupolo e scoperto come abbattere le Torri Nere.
La storia giunge al termine in questo ultimo volume della trilogia.
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Anteprima del libro
Le Torri Nere - La Porta Nera - Cristiano Cantelli
Cristiano Cantelli
Le Torri Nere - La Porta Nera
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Indice dei contenuti
Diritti
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Prologo
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Epilogo
Diritti
ISBN 9791222006925
Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/.
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Mappa
immagine 1Prologo
Il sole splendeva alto nel cielo sereno; solamente poche nuvole bianche come il latte erano state tanto temerarie da avvicinarsi al disco splendente. Avevano tutte delle forme arrotondate, quasi ovoidali, e sembravano dei cuscini stropicciati. Era una bella giornata, l’ultima di una lunga serie, come spesso accade in estate. Il caldo era afoso e sembrava inseguirti anche all’ombra o all’interno degli edifici. Le taverne ormai presentavano tutte il medesimo odore a coloro che avevano l’ardire di entrarvici: sudore misto a spezie e alcol. C’era chi amava il caldo e odiava l’inverno, anzi, da quelle parti erano in molti a pensarla così, ma non lui. Detestava sentire le ascelle umide e le gocce di sudore scendergli giù lungo la schiena, senza permesso, come insetti a invadergli il corpo. Lui amava il freddo pungente dell’inverno, la neve e l’essere costretto a tirare le coperte su fino al mento per dormire. Il freddo sembrava purificarlo e renderlo lucido e proattivo.
Marciò con passo controllato tra la folla, proseguendo lungo la via a zig-zag, nonostante fosse completamente dritta. Doveva evitare a qualsiasi costo di scontrarsi con la gente. L’idea del contatto con la loro pelle viscida a causa del sudore gli metteva i brividi.
Eccola. Una di quelle gocce infernali aveva appena deciso scivolargli dalle scapole fino al sedere. Digrignò i denti e cercò di non imprecare ad alta voce.
Continuò a camminare per quasi un altro minuto, prima di raggiungere il vicolo che stava cercando. Si soffermò e controllò che non vi fosse nessuno. Quindi lo imboccò e proseguì il cammino per quasi cinquecento metri. Si fermò. Si trovava esattamente a metà della viuzza, affiancato in modo opprimente da due bassi edifici che sembravano sul punto di cadere a pezzi. Il puzzo di orina e vomito gli assalì le narici. Cercò di non farci caso ma non ci riuscì.
Il vicolo proseguiva ora in discesa, fino a raggiungere una piccola piazza circolare non molto affollata. Vedeva di tanto in tanto passare qualche persona, ma nessuno si avventurava per quella stradina così tetra e viscida sotto i piedi. Era proprio per questo motivo che l’aveva scelta.
Si sedette a terra, sentendo il mantello sprofondare nella terra umida. Si grattò la testa nascosta dall’ampio cappuccio e poi infilò una mano nella tasca dei pantaloni, tirandone fuori una pipa piuttosto antica. Se la tramandava la sua famiglia da qualche generazione, quasi fosse un oggetto sacro. L’ha creata il mio bisnonno e ora è giunta nelle tue mani
gli aveva detto suo padre prima che lasciasse per sempre quel mondo. Un buon modo per spingere un figlio piccolo a fumare
pensò con un sorriso sarcastico.
L’accese e inspirò a pieni polmoni una boccata di fumo. Trattenne ed espirò, sentendo i muscoli di tutto il corpo rilassarsi e la mente schiarirsi. Aveva sempre amato fumare, ma non lo aveva mai fatto di fronte ad altre persone. Era sempre stato un segreto, e forse lo sarebbe rimasto per molto altro tempo ancora. Però sperava vivamente di sbagliarsi e che presto avrebbe potuto togliersi la maschera, mostrarsi a tutti per colui che era davvero. Aveva vissuto all’ombra di se stesso per anni e anni ormai, nascosto dall’imponente figura che era cresciuta sulle sue spalle larghe. Era sempre stato ben consapevole delle conseguenze delle proprie scelte, fin dal principio, ma ciò non implicava che amasse in tutto e per tutto la situazione in cui si era andato a cacciare. Essa aveva infatti molti lati positivi, ma anche altrettanti negativi. Solitamente cercava di non pensarci, fare buon viso a cattivo gioco, ma non era sempre così semplice.
Continuò a fumare, immerso nei propri pensieri, per quasi dieci minuti. Era giunto in quel luogo largamente in anticipo di proposito, così da poter stare da solo per un po’, lontano da tutto e tutti, e rilassarsi in compagnia della sua adorata pipa.
Espirò l’ultima boccata di fumo in una piccola nuvoletta bianca che si disperse lentamente nell’aria immobile. Svuotò la pipa e la ripose con cura nella tasca dei calzoni da dove l’aveva prelevata poco prima. Quindi piegò le ginocchia e vi appoggiò sopra i gomiti, congiungendo le mani di fronte a sé. E in quella posizione attese.
L’uomo che stava aspettando, Gaiko, si fece vivo dopo altri dieci minuti e si fermò poco distante da lui, come se avesse paura di avvicinarsi oltre. Non si voltò a guardarlo, lo riconobbe dal rumore dei suoi passi. Gaiko, infatti, aveva la gamba sinistra più corta della destra e si muoveva con un’andatura claudicante.
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Ogni volta cambiavano le frasi da scambiarsi, così che non vi fossero equivoci. Non tanto per lui, quanto per Gaiko, il quale non lo aveva mai visto in volto. In pochi avevano avuto quel privilegio, solamente coloro che militavano nei ranghi più alti dell’ordine. I suoi sottoposti giuravano lealtà a lui senza averlo mai visto, si dichiaravano fedeli all’ordine e, di conseguenza, al Maestro in persona. Non conoscere il proprio signore significava essere realmente convinti della propria scelta e lui era sicuro che, così facendo, i ranghi del suo ordine non si sarebbero mai disgregati. Tutti erano fedeli, tutti erano sacrificabili.
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Lui rimase in silenzio. Sentì un brivido percorrergli la schiena, un fremito dovuto alla rabbia, ma non solo. Forse c’era altro. Quella persona, il prigioniero fuggito, lo aveva colto impreparato. Il tatuaggio sul palmo della sua mano non poteva essere un caso.
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Gli scappò un breve sorriso. Avrebbe voluto incontrarlo, fare due parole con lui, magari combatterci in un duello, se possibile.
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Sghignazzò sottovoce. <
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Si alzò in piedi di scatto, sicuro di sorprendere il suo interlocutore. <
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Udì un fruscio, segno che Gaiko si era appena inginocchiato, poi il rumore prodotto dai suoi passi incerti. Finalmente si ritrovò solo in quel piccolo, lurido vicolo di Corin. Era soddisfatto, tutto stava andando secondo i piani e presto sarebbe finalmente uscito allo scoperto. Si sarebbe strappato la maschera e avrebbe rivelato ai tre regni la sua vera identità. Era stanco del travestimento che indossava da quando il suo maestro gli aveva imposto quell’incarico. Quella maschera era opprimente, lo soffocava.
Mise una mano in tasca e afferrò saldamente l’oggetto che portava sempre con sé. Lo estrasse e lo guardò soddisfatto. Un ghigno malvagio e compiaciuto gli solcò il viso, ma lui non se ne accorse neppure. Ogni volta che guardava quell’oggetto, il suo volto veniva tagliato da quel sorriso che molti avrebbero trovato raccapricciante.
Erano passati anni da quando, in missione col suo vecchio maestro, lo aveva preso con sé. Era un ricordo di un’epoca passata, ma anche un monito: non doveva perdere la via. Le fiamme dell’incendio di quella notte di molti anni fa gli si ripresentarono di fronte e lui si sentì pervadere da una strana eccitazione.
Lo sollevò e aprì la mano. Esso se ne stette immobile sul suo palmo come un trofeo, attirando su di sé la luce del sole e l’attenzione dell’unica persona presente in quel vicolo. Non era altro che un pezzo di roccia, un frammento vecchio di anni, con su inciso un simbolo: un occhio con al centro una torre stilizzata.
1
La terrà finì di tremare e il mondo parve tornare alla normalità. Poteva udire solamente il crepitio delle fiamme alle sue spalle. La casa di Reina ancora ardeva e illuminava la spianata di terra che la circondava come un piccolo sole desideroso di far vedere alla luna e alle stelle quanto fosse luminoso e caldo. La luce rossastra delle fiamme danzava attorno a lei e le ombre che la circondavano si allungavano e si ritraevano al ritmo di quel ballo.
Reina giaceva di fronte alla propria dimora, immobile, un ammasso nero come la pece, ancora fumante. Quella povera donna si era proposta di aiutarli a fare luce sul fitto mistero che avvolge Mirko Runn e le Torri Nere, e invece adesso aveva raggiunto il Maestro nell’alto dei cieli.
Farah toccò la parete rocciosa che aveva di fronte, con cautela, come se potesse morderla. Il muro si sollevava di molti metri, correva verso il cielo quasi a volerlo toccare, e curvava su entrambi i lati fino a formare un cerchio perfetto. Bussò sulla roccia e capì immediatamente quanto spessa fosse quella parete.
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Ethan adesso si trovava all’interno di quel recinto roccioso insieme a una belva feroce. Konrad Smith era pericoloso, un pazzo squilibrato assetato di sangue. Ma è stanco, allo stremo. Ethan non ha agito di semplice istinto, ha ponderato bene il piano da intraprendere. Non è uno stolto e devo avere fiducia in lui
si disse.
Si voltò e osservò Erika, distesa a terra con le vesti e il viso graffiati. Una macchia scura di sangue rappreso le colorava dalla tempia esposta al cielo notturno. Doveva portarla via da lì, ma non se la sentiva di lasciare Ethan in balia di Konrad Smith. Che cosa avrebbe potuto fare per il ragazzo? Non sarebbe mai riuscita a creare un varco nella roccia, né a scalare la parete verticale che aveva di fronte. E poi…
Ethan ha creato questo recinto per salvarci, rimanendo qui non farei altro che rendere vano il suo sacrificio.
Fu allora che udì il nitrire furioso dei cavalli che avevano legato di fronte alla casa. Li avevano utilizzati per giungere fin lì e adesso se ne stavano nascosti dietro un albero, spaventati dall’incendio e dal caos che si era generato durante la battaglia. Uno di essi era però disteso a terra, immobile. Era stato colpito da un frammento di legno scagliato dall’esplosione dell’edificio.
Farah sollevò Erika con delicatezza, come farebbe una madre con la propria figlia ancora addormentata per portarla a dormire nella propria cameretta. S’incamminò verso i cavalli con passo incerto; la stanchezza ormai aveva trovato un varco anche nel suo animo tenace e incrollabile. I suoi movimenti si erano fatti lenti, il sudore le imperlava la fronte e le palpebre pesavano una tonnellata.
Adagiò nuovamente Erika a terra e cercò di calmare l’animale più vicino. Ci riuscì dopo molti minuti. Quindi depose la ragazza priva di sensi sulla sua sella e slegò l’altro cavallo impazzito, lasciandolo libero di fuggire chissà dove. Montò sul primo animale, quello su cui giaceva la ragazza, e lo spronò a galoppare via da lì. La bestia non se lo fece ripetere due volte e corse lontano da quelle fiamme demoniache e da quella struttura rocciosa che sembrava la fortezza di un mostro.
Farah si guardò alle spalle più di una volta, sperando di vedere la parete crollare ed Ethan emergere vittorioso dalle macerie. Ma non accadde e dovette combattere contro la voglia di tornare indietro. Avrebbe voluto salvarlo, ma non sapeva come, e, soprattutto, non era sicura che Smith fosse venuto da solo da quelle parti. Era possibile che alcuni soldati o Conquistatori Illuminati lo avessero accompagnato e che presto sarebbero arrivati. Non poteva farsi trovare lì con Erika svenuta tra le braccia, non aveva le forze per combattere ancora.
Come se il Maestro stesse ascoltando i suoi pensieri, udì dei rumori in lontananza.
Cavalli
pensò con un tuffo al cuore.
Impiegò qualche secondo per capire da che parte provenissero quei suoni. Vide una dozzina di uomini a cavallo sopraggiungere da nord. Alcune urla annunciarono che la compagine l’aveva avvistata e ora si precipitava nella sua direzione.
Imprecò e spronò il cavallo ad aumentare l’andatura. Poi, dopo un attimo di indecisione, iniziò a emettere delle dense volute di candido fumo, simili a zampilli di vapore acqueo. Pregò di avere abbastanza energie da riuscire a celarsi alla vista dei nemici. Digrignò i denti e si guardò alle spalle, osservando la foschia che si andava allargando dietro di lei. Non avrebbe retto per molto, ne era certa.
Comandò al cavallo di cambiare direzione e lui eseguì con uno scatto a sinistra. Lasciarono la stretta via dissestata per proseguire la fuga su un campo incolto, su cui l’erba cresceva alta e rigogliosa, punteggiato qua e là da piccoli cespugli che sembravano pozzi neri diretti verso le profondità della terra. La luce della casa in fiamme ormai li aveva abbandonati e Farah riusciva a scorgere il paesaggio di fronte a sé solamente grazie al chiarore della luna e delle stelle. Pregò il Maestro che il cavallo non si spezzasse una zampa durante quella fuga rocambolesca. Continuava a udire le urla alle sue spalle, ma la foschia che stava ancora generando sarebbe bastata a nasconderli alla vista dei nemici. Si allungava in ogni direzione come una spettrale marea.
Dopo alcuni minuti decise di arrendersi. La stanchezza ebbe il sopravvento e lei si abbandonò sulla sella del cavallo e osservò con la coda dell’occhio gli ultimi sbuffi di vapore fuoriuscire da sotto la sua maglia lacerata. Con una mano stringeva le redini, con l’altra teneva saldamente Erika, evitando che cadesse dal cavallo in corsa. Le urla si fecero sempre più distanti, il mondo sempre più buio. Le stelle nel cielo iniziarono a spegnersi ai margini del suo campo visivo. Sentiva le palpebre pesare sempre di più e il trotto della cavalcatura l’accompagnò lentamente in un mondo più tranquillo, un mondo in cui non era braccata e in cui tutto poteva accadere.
Il sole sferzò le sue palpebre e la costrinse a svegliarsi di soprassalto. Il suo corpo l’accolse con mille dolori e un forte mal di testa. Si mise seduta con un gemito e si schermò la vista con una mano. Si trovava in mezzo a un campo lasciato a maggese e non vi erano costruzioni nei paraggi. Udì il nitrire di un cavallo e si voltò. Vide l’animale pascolare come se nulla fosse, nessuno sedeva sulla sella che portava sul dorso. Continuò a guardarsi attorno con circospezione, ancora intontita dal brutto risveglio e incapace di capire dove si trovasse.
Poi, la sua memoria tornò a funzionare e ricordò gli ultimi avvenimenti. Vide Reina avvampare, divorata dalle fiamme di Konrad Smith, di fronte alla propria dimora, quest’ultima trasformata in una gigantesca torcia capace di allontanare le tenebre pressanti della notte. L’ultima cosa che ricordava era la parete eretta da Ethan per proteggerla dai poteri di Konrad e la violenta esplosione che l’aveva divelta, travolgendo persino lei.
Erika si portò una mano alla tempia e sentì del sangue raggrumato là dove la testa le pulsava al ritmo del cuore. Si chiese come fosse finita in quel campo abbandonato da tutti. Non riusciva a scorgere neppure i resti carbonizzati della casa di Reina.
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Si voltò, non senza difficoltà, in direzione della voce. Farah le stava venendo incontro con in mano una borraccia. Erika si alzò a fatica e la vista le si abbuiò una volta che fu in piedi. Quando riemerse dalle tenebre, Farah si trovava di fronte a lei e la stava guardando con espressione stanca.
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Lei acconsentì e bevve grandi sorsate d’acqua. S’interruppe solamente quando il suo stomaco minacciò di rigettarla tutta quanta.
Farah si sedette a terra e sospirò. Aveva delle occhiaie profonde e sembrava invecchiata di molti anni. <
Erika si sedette di fronte a lei e le restituì la borraccia. <
Farah bevve un sorso d’acqua e la guardò con apprensione. <
Erika si sentì vacillare. Si portò una mano alla bocca e respirò profondamente, cercando di scacciare le lacrime che minacciavano di sgorgare dai suoi occhi arrossati. Ethan era rimasto indietro per proteggerla e Marcoh si trovava chissà dove in balia dei poteri di una pazza defunta. Tutto era andato a rotoli. Per un attimo, il giorno prima, dopo l’annuncio di Reina di volersi unire a loro per fermare Miles e scoprire la verità che si cela dietro le Torri Nere, aveva sentito la propria fiducia crescere a dismisura, ma adesso si sentiva vuota, smarrita, come una casa senza mobilio e costruita nel bel mezzo di un deserto.
Tutto sembra perduto. Miles è sempre un passo avanti a noi.
Le tornò alla mente il bacio che si erano scambiati lei ed Ethan poco prima di partire e come lei lo avesse lasciato da solo, accasciato contro la parete del salotto di casa. Ebbe un tuffo al cuore e si sentì un verme. Avrebbe voluto tornare indietro e dirgli che era stata una stupida, stringerlo forte a sé e baciarlo ancora e ancora…
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Alzò lo sguardo sull’amica, l’unica compagna che le era rimasta, e per un attimo fu sollevata nel vederla di fronte a sé. Farah era forse l’unica persona con cui avrebbe voluto affrontare una situazione così disperata.
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Farah scosse la testa lentamente. <
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Farah sorrise divertita da quel suo cambio di umore. Si rilassò un attimo e guardò il cielo. <
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<<È il nostro sovrano, ormai. Il compito della Guardia Azzurra è proteggerlo e seguire i suoi ordini, qualunque essi siano. Lo sai bene>> le ricordò Farah.
Erika annuì brevemente, pensierosa.
Farah si batté le mani sulle cosce e si alzò in piedi. <
3
Impiegarono poco tempo a ritrovare la via per Corin. Il cavallo, durante la notte appena trascorsa, le aveva condotte in un campo che distava a malapena un’ora dalla strada che, se seguita in direzione sud, le avrebbe riportate in città. La via non era molto frequentata quella mattina e incrociarono pochi carri provenienti dal cuore del regno di Arkad. Sembrava che ormai le voci su una possibile guerra su vasta scala si fossero diffuse in ogni angolo del continente e la gente iniziava ad avere paura. I contadini abbandonavano le case fuori dalle città per cercare riparo dentro le mura, magari da qualche parente o nelle locande. La paura aleggiava pesante su quelle terre, soprattutto a Corin, che si trovava al confine con Samor e non molto distante da quello con Eana. Arkad si era ritrovato solo e avrebbe dovuto fronteggiare la forza congiunta degli altri due regni. Solamente il Maestro sapeva che cosa sarebbe accaduto nel prossimo futuro, e sembrava decisamente intenzionato a non lasciarsi sfuggire neppure una parola.
Giunsero finalmente a Corin dopo poche ore di viaggio a passo sostenuto. I portali nord della città erano attraversati di tanto in tanto da qualche persona o da qualche carro carico di vettovaglie, ma per lo più il traffico sembrava quasi assente. Varcarono la soglia in silenzio, guardandosi attorno e osservando la piazza dedicata al Maestro quasi deserta. L’obelisco dalla punta dorata se ne stava ritto nel bel mezzo dello spiazzo, simile a un guardiano solitario. Videro alcuni soldati armati di tutto punto uscire a dorso di alcuni cavalli, sembravano pronti a combattere una battaglia.
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Erika non rispose. S’immaginò in mezzo a un mare di soldati intenta a lottare contro migliaia di sconosciuti che si trovavano, insieme a lei, a combattere una guerra decisa da pochi altri. Strinse forte la maglia di Farah, a cui era aggrappata per non cadere da cavallo, senza preoccuparsi che la donna se ne potesse accorgere. La mano di Farah si appoggiò delicatamente sulla sua e per un attimo parvero madre e figlia, la prima intenta a instillare coraggio nella seconda. Erika percepì le lacrime salirle agli occhi e minacciare di uscire con prepotenza, ma le ricacciò indietro e appoggiò il viso sulla schiena dell’amica. Non dissero nulla per molti minuti e marciarono in silenzio per le vie della città, quest’ultime trafficate da centinaia e centinaia di persone. Sembrava che l’intero regno si fosse riversato all’interno delle mura.
Giunsero infine alla fortezza e consegnarono il cavallo a uno stalliere della guardia cittadina. Farah salutò l’animale con un bacio sul muso e si raccomandò con l’uomo di trattarlo con cura. <
Il cortile antecedente la fortezza era in fermento: capitani che urlavano ordini, soldati che correvano o si addestravano, servette e servi che sembravano impazziti e attraversavano lo spiazzo come formiche indaffarate. Quel caos preoccupò non poco Erika, consapevole che una tale eccitazione poteva solamente essere ricondotta a un possibile scontro bellico.
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Si fermarono e si voltarono in direzione della voce. Il comandante Merten Goran aveva abbandonato un gruppo di soldati intenti a discutere e si stava avvicinando con passo veloce.
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Erika abbassò lo sguardo sui propri stivali e attese che fosse l’amica a rispondere.
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Farah sospirò e poi prese a raccontare la loro disavventura. Iniziò con il loro arrivo alla casa di Ronald Fox e proseguì con lo scontro con il golem di pietra creato da una donna misteriosa. Continuò con la rivelazione che avevano ricevuto: non esisteva alcun Ronald Fox, esso era solamente uno pseudonimo utilizzato da quella donna, Reina, per non farsi trovare dai curiosi. Il racconto proseguì con la conversazione che avevano avuto con costei e terminò con lo scontro con Konrad Smith. Quest’ultimo, apparentemente, era venuto fin laggiù per portare via con sé Reina e non si era aspettato di trovarsi di fronte tutte quelle persone. Purtroppo per loro, però, Reina era caduta in battaglia ed Ethan si era sacrificato per consentire loro di fuggire.
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Merten annuì con espressione cupa. <
Farah ed Erika annuirono all’unisono.
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Merten le chiese di abbassare il tono della voce con un gesto della mano. <
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<<È grazie a Miles se lo abbiamo conosciuto>> ricordò a tutti Farah.
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Merten scosse lentamente la testa. <
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Erika rimase immobile qualche istante, fissando il grande portone chiuso che distava poche decine di metri, sembrava la bocca di un gigante di pietra pronta a divorarla. Ebbe timore, ma non seppe di preciso per quale motivo. Forse erano migliaia, i motivi, e si erano mescolati nella sua mente formando un unico conglomerato di paura capace di stringerle le viscere con decisione. Sentì il sudore imperlarle la fronte e la sua volontà vacillare. Avrebbe voluto voltarsi e correre via, attraversare il cortile e tornare tra le vie della città, in mezzo alla gente comune. Temeva la guerra, ma soprattutto temeva che il re non le avrebbe mai concesso di salvare Ethan e Marcoh. Anzi, Jal Rorke sembrava decisamente intenzionato a ottenere la propria vendetta, anche a costo di pagarla con la vita di migliaia di soldati. E Marcoh… suo fratello aveva una taglia sulla testa, la sua vita era in pericolo.
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Merten ordinò ai soldati posti a guardia dell’ingresso di aprire ed essi obbedirono. I portali si mossero lentamente e cigolando. L’interno della sala del trono era cupo, ammantato di ombre scure e impenetrabili. Non vi erano torce accese e la luce proveniva soltanto dalle alte finestre dai vetri variopinti. Alcune di esse erano state oscurate con dei tendaggi improvvisati. Le due file di colonne parevano ammassi scuri capaci di assorbire la luce, avevano abbandonato qualsiasi sentore di rosa quel giorno. La sala era tetra come non mai, la gola del mostro che li aveva divorati.
Erika fece qualche passo incerto e poi si fermò. La punta del suo piede destro si trovava a pochi centimetri da una voragine profonda quasi un braccio e lunga una mezza dozzina di metri. Le piastrelle a scacchi neri e bianchi s’interrompevano all’improvviso per formare quel basso cratere.
<<È stato Ethan>> le disse Farah, fissando il buco nel pavimento. <
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Erika non disse nulla e continuò ad avanzare, aggirando la fossa senza però mai distogliere lo sguardo da essa. Infine, si fermarono a pochi metri dal trono in fondo alla sala. Una figura in penombra sedeva sul piccolo scranno appartenente ad Albert Rens, signore della città. L’uomo, o il ragazzo, era seduto in modo scomposto, come se si trovasse in una banale taverna di città, e li guardava in silenzio. Alla sua destra, Erika riconobbe Albert Rens, seduto su una piccola sedia dall’aspetto poco regale. L’uomo, che non vedeva da tempo, era riconoscibile nonostante la poca luce presente: era basso, tarchiato e con una folta schiera di riccioli che dalla testa gli scendevano fino alla base del collo. Il suo naso a patata era messo in risalto da alcuni raggi di luce che lo illuminavano come se fosse il protagonista di una commedia. Costui non disse nulla, non li salutò cordialmente come aveva fatto in passato, e si limitò a fissarli in silenzio, le mani giunte in grembo. Pareva a disagio.
I tre s’inginocchiarono al cospetto del principe.
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Un silenzio opprimente calò tra loro e il peso dello sguardo del giovane sovrano iniziò a farsi pesante e insopportabile. Li stava studiando? O forse stava semplicemente giocando con loro? Perché un re dovrebbe fare una cosa del genere ai propri subordinati?
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Erika sentì la tensione crescere a dismisura dentro di sé. Il cuore accelerò i battiti e una goccia di sudore le percorse l’intera schiena come un brivido freddo. Già immaginava il re proclamare una terribile sentenza.
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