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L'argento Di Giuda
L'argento Di Giuda
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E-book514 pagine4 ore

L'argento Di Giuda

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Info su questo ebook

UNO DEGLI EBOOK PIÙ VENDUTO DEL 2011 – THE BOOKSELLER
OLTRE 75.000 COPIE VENDUTE PER TUTTO IL MONDO
“C’è una piaga in arrivo… Per quaranta giorni e quaranta notti la paura attraverserà le strade. Coloro che hanno peccato, bruceranno. La morte inizia ora.”
Con questo messaggio da brivido, un’onda di terrore mai vista prima si scatena per le strade dell’Europa. Tredici martiri si danno fuoco vivi simultaneamente nelle tredici maggiori città europee.
E questo è solo l’inizio.
Un culto religioso chiamato i Seguaci di Giuda è sorto nel Medio Oriente. Distorcono le parole di antiche profezie per portare il terrore. Tutto ciò in si crede verrà annullato. Tutto ciò che si crede vero, sarà falso.
Giorno dopo giorno l’Occidente si sveglia con atti di terrore in continuo aumento. Mentre la paura si diffonde nelle capitali europee, l’unica domanda è quale sarà la prossima a cadere? Londra? Roma? Berlino?
In una lotta contro il tempo (credendo che i terroristi vogliano uccidere il Papa) il singolare team Special Ops di Sir Charles Wyndham, nome in codice Ogmios, percorre un labirinto per arrivare alla verità, ombre di verità e bugie bell’e buone che li porterà dalle strade di Londra all’ombra del Checkpoint Charlie di Berlino e dritti verso il cuore della Santa Sede.
“Con L’Argento di Giuda, Steven Savile consegna un’incredibile racconto d’azione, intrigo e suspense riuniti in una trama ripiena di segreti antichi e terrore moderno.” - - Matt Hilton, autore dei thriller di Joe Hunter.
“L’Argento di Giuda è la migliore cosa da Il giorno dello sciacallo di Forsyth.” - - Robert W. Walker, autore delle serie RANSOM e INSTINCT.
“L’argento di Giuda è un thriller formidabile. Savile non ha paragoni.” - - Jeremy Duns, autore di FREE AGENT e FREE COUNTRY.
“Reminiscente di James Rollins e David Morrell.” - - Joseph Nassise, autore in
LinguaItaliano
EditoreBad Press
Data di uscita12 dic 2014
ISBN9781633390874
L'argento Di Giuda
Autore

Steven Savile

Steven Savile, highly respected media tie-in writer, was nominated for the International Media Tie-In Writer's SCRIBE Award in 2007 for Slaine: The Exile. He was runner-up in the British Fantasy Awards in 2000, and won the L. Ron Hubbard Writers of the Future Award in 2002. He has written extensively for Star Wars, Warhammer (Black Library), Doctor Who and Torchwood.

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    Anteprima del libro

    L'argento Di Giuda - Steven Savile

    dimenticato

    Le persone nella mia vita valgono molto di più di questo, ma questo è il meglio di me e lo dedico con amore a

    ––––––––

    Mamma, papà, David, Sonia, Sarah, Amy e Marie

    Ogni cosa che faccio è per voi o a causa vostra.

    Immagino significhi che siete responsabili di molte cose.

    1

    Frammenti di odio

    Passato – La testimonianza di Menahem Ben Jair

    In un giardino ci fu un serpente, nell’altro c’era lui.

    Era una bellezza scissa, una curiosa simmetria: il serpente aveva provocato il primo tradimento con parole smielate, il morso al frutto proibito e il peccato originale sulle labbra del primo, debole uomo. Anche il suo tradimento era stato messo in atto dietro una maschera d’amore, nuovamente attraverso le labbra, e sigillato con un bacio; entrambi i tradimenti furono resi ancor più brutti dalla bellezza che li circondava. Quella era l’agonia del giardino.

    Iscariota sentiva il peso dell’argento nella sua mano.

    Era molto più pesante di quanto alcune monete avrebbero dovuto essere; erano molto più di semplici monete: erano una vita comprata con l’argento, erano la sua colpa; chiuse in un pugno il sacchetto di pelle malconcio. Si chiese quanto valeva una vita veramente. Ci aveva pensato molto nelle ore successive al bacio; era forse il peso delle monete che lo avevano comprato? La manciata di chiodi di ferro impiantati nella croce di legno che avevano terminato il lavoro? O la carne lasciata come pasto agli uccelli spazzini? Tutti questi? Nessuno di questi? Voleva credere che c’era qualcosa di più spirituale, più onesto: l’impatto che ebbe sulle vite che gli stavano intorno, la somma del bene e del male, di atti e pensieri.

    Prendili, per favore, allungò il sacchetto al contadino perché lo prendesse. È cinque volte il valore della terra. Anche di più.

    Non voglio il tuo denaro sporco di sangue, traditore, l’uomo guardò in mezzo ai suoi piedi e ci sputò. Ora, vattene.

    Dove posso andare? Sono solo.

    Lontano da qui. Da qualche parte dove la gente non ti conosce. Se io fossi in te, tornerei al tempio e proverei a riprendermi la mia anima.

    L’uomo gli diede le spalle e se ne andò, lasciando Iscariota da solo nel campo. In caso non funzionasse, gli disse da lontano, mi abbandonerei alla misericordia di Dio.

    Iscariota seguì la direzione dello sguardo dell’uomo fino all’unico albero annerito del campo. Un fulmine l’aveva colpito tanti anni fa, spaccandolo a metà. Le sue interiora legnose erano marcite, ma un singolo ramo da impiccagione riusciva ancora a distendersi, chiamandolo verso il cielo del crepuscolo.

    Giuda lanciò il sacchetto contro quell’albero derisorio e una delle cuciture si ruppe quando colpì il terreno, sparpagliando le monete tutte intorno alla terra prosciugata. Un momento dopo era in ginocchio, cercando di riprenderle con delle lacrime di perdita che gli solcavano il volto. Perdita intesa non per l’uomo che aveva tradito ma per l’uomo che lui stesso era stato, e per l’uomo che avrebbe potuto essere. Stava lì disteso mentre il sole si avviava al tramonto, sperando che il sole bruciasse la sua pelle e annerisse le sue ossa, ma l’alba venne ed era ancora vivo.

    Sotto l’incudine del sole, si trascinò verso i cancelli di Gerusalemme e vagò per le strade per ore. Le urla provenienti dal suo corpo venivano eliminate attraverso il sudore, non c’era perdono nell’aria. Nessuno lo guardava, neanche lui riusciva a guardare la sua ombra che si estendeva innanzi, quindi perché la gente avrebbe dovuto farlo? Meritava il loro odio. Si riparò gli occhi dal sole con la mano e guardò verso il Calvario: pensava di poter vedere l’ombra della croce, nera sullo sfondo verde dell’erba ma i soldati avevano tirato giù i corpi ore prima e le uniche ombre rimaste lassù erano quelle dei fantasmi.

    Al tempio si presero gioco di lui mentre implorava i Farisei di riprendersi l’argento in cambio della sua confessione e della sua assoluzione.

    Vivi con ciò che hai fatto, Giuda, figlio di Kariot. Con quest’atto hai assicurato la tua eredità e il tuo nome vivrà nei secoli: Giuda il Traditore, Giuda il Codardo. Il denaro è tuo, Iscariota, è il tuo fardello. Non puoi ricomprare l’innocenza della tua anima, e non è come se non avessi già ucciso prima. Ora vattene, la tua vista ci disgusta, disse il Fariseo, allargando il braccio per includere l’intera congregazione riunita in preghiera.

    Colpì la mano di Iscariota, sparpagliando l’argento sul pavimento in pietra. Giuda cadde in ginocchio, come se volesse strisciare ai piedi del sant’uomo, e riunì le monete sparpagliate a testa bassa. Il sant’uomo lo cacciò via sprezzantemente con un calcio. Prendi il tuo denaro sporco di sangue e vattene, traditore.

    Iscariota fece uno sforzo per rimettersi in piedi e si trascinò verso la porta.

    Sulla strada per Gerusalemme vide la familiare figura di Maria, seduta lungo la strada. Voleva correrle incontro, caderle ai piedi e implorare perdono poiché lei aveva perso molto di più di tutti loro. Lei alzò lo sguardo, lo vide e sorrise tristemente; il suo sorriso lo fece bloccare di colpo. Sentiva il peso delle monete nella sua mano, improvvisamente erano pesanti come l’amore e due volte più fredde. Maria si alzò e gli si avvicinò; lui non l’aveva amata mai così tanto come in quel momento. Era andato contro moltissimi degli insegnamenti del suo amico, ma mai tanto quanto desiderare la donna che amava. Si gettò fra le sue braccia e si appoggiò a lei, dei forti singhiozzi liberatori lo scuotevano, non riusciva piangere: dopo tutte le lacrime che aveva versato, era vuoto. Mi dispiace. Mi dispiace tanto.

    Lei gli disse di non parlare, accarezzandogli i capelli con le dita. Ti stanno cercando. Matteo ha fomentato tutta la collera, ti odia: ti ha sempre odiato. Ora ha una scusa per farlo. Sono fuori di testa per il dolore e la perdita, Giuda. Non puoi stare qui o ti uccideranno per quello che hai fatto, te ne devi andare!

    Non mi rimane luogo dove andare, Maria, lo ha visto. Questa è la sua vendetta, disse ridendo amaramente. Non avrei mai dovuto... Mi dispiace. Non avrebbe dovuto finire così. Tutto questo perché, io folle, non riuscivo a non amarti.

    Il nostro è un Dio geloso, gli rispose e la sua voce suonava totalmente vuota. Questo vuoto feriva più a fondo di qualsiasi altra parola, stava piangendo e non c’era forza nelle sue lacrime. Per favore, vai.

    Non posso, disse, sapendo che era vero. Dovevano trovarlo, doveva sentire le loro pietre che lo colpivano, aveva bisogno che la loro rabbia gli rompesse le ossa: la sua vita era finita. Il contadino aveva ragione, gli rimaneva solo la misericordia di Dio. Ma che misericordia era mai? Che cosa aveva in comune il suicidio con i cancelli del Regno a lui chiusi?

    La mente di Giuda era tormentata dai dubbi, lo era stata per giorni. Il suo amico sapeva che non sarebbe riuscito a vivere con il sangue sulle mani ma nonostante ciò aveva implorato il suo tradimento. Quindi, forse, questa lapidazione era veramente un ultimo gesto di misericordia?

    Per favore.

    Lasciali venire. Li affronterò e morirò con quel poco di dignità che mi è rimasta.

    Maria si asciugò le lacrime. Per favore. Se non per me, fallo per nostro figlio, gli prese la mano e gliela mise sul piccolo rigonfiamento della sua pancia.

    Nostro figlio, egli ripeté, cadendo in ginocchio davanti a lei. Le baciò la mano e poi la pancia, schiacciando il suo volto contro il ruvido tessuto del suo vestito. Le parole del Fariseo gli risuonarono nella testa: Giuda il Traditore. Quale più grande tradimento poteva esserci? Mise il sacchetto di pelle rotto nelle mani di Maria. Per favore, prendi l’argento, per il bambino, per te.

    Negli occhi di Maria vide riflessa la vita che aveva perso: sapeva che lei lo amava e sapeva che l’amore non era abbastanza; non poteva dirle quanto si sentiva solo in quel momento.

    Gli diede le spalle.

    Giuda la lasciò per prendere la lunga strada verso la morte.

    Aveva tempo per pensare, tempo per ricordare la promessa che aveva fatto e tempo per pentirsi. Era un cammino pieno di ultime cose: vide il sole tramontare dietro gli alberi, sentì il vento sul suo volto, assaporò l’aria arida sulla lingua, si tolse i vestiti e camminò nudo nel giardino.

    Lo stavano aspettando.

    Non evitò il dolore e l’odio nei loro sguardi e non provò a giustificarsi. Era nudo davanti a loro.

    Tu l’hai ucciso, disse Matteo, maledicendolo. Furono le ultime parole che Giuda Iscariota udì. Matteo aveva in mano una corda con un nodo scorsoio.

    Egli accolse la prima pietra tirata da Giacomo che lo colpì alla tempia. Non diede segni di paura perché non lo sentiva. Come non sentì la seconda lanciata da Luca o la terza lanciata da Giovanni: le pietre lo colpirono, una dopo l’altra, ognuna lanciata più forte dell’ultima, fino a che non lo misero in ginocchio. Giuda sentiva che tutto ciò era l’agonia del giardino.

    Matteo venne avanti con la corda e gliela fece passare intorno al collo.

    Giuda pianse.

    2

    ––––––––

    Brucia con me

    Presente

    Mancavano due minuti alle tre quando la donna arrivò a Trafalgar Square.

    Indossava un paio di jeans e una maglietta gialla, larga, e assomigliava a una qualsiasi turista estiva che veniva a rendere omaggio ai leoni dall’aria austera di Landseer. C’era una faccia sorridente stampata sul suo petto, la forma del grande sorriso era allungata dal rigonfiamento a goccia dei suoi seni, solo che non era estate. La maglietta gialla si distingueva dalla folla esasperante perché ognuno era avvolto in sciarpe, guanti e cappelli di lana per combattere il freddo primaverile.

    Era in piedi, un unico punto di calma nel mezzo della vita frenetica londinese. Tolse il tappo dalla bottiglia di plastica che teneva in mano e se la svuotò sulla testa e sulle spalle, versando il liquido sciroppato sul suo scalpo. In meno di un minuto i suoi lunghi capelli biondi erano arruffati e gonfi di grasso come se non li avesse lavati per mesi, il suo odore ricordava le esalazioni del traffico e la nebbia d’inquinamento che soffocava la città.

    Dei piccioni atterrarono ai piedi dell’uomo accanto a lei mentre lanciava briciole di pane sul pavimento di pietra. Alzò lo sguardo e le sorrise; aveva un volto gentile, un sorriso dolce. Lei si chiese chi lo amasse. Qualcuno doveva: aveva la felicità di un uomo amato.

    Intorno a lei i turisti si dividevano in gruppi: quelli alla ricerca di cultura diretti verso la National Portait Gallery, quelli assetati, riuniti nel bar all’angolo; c’erano poi i monarchici che attraversavano la strada e sparivano sotto l’Admiralty Arch nella Whitehall, gli affamati erano invece diretti ai ristoranti trendy di Chandos Place e Convent Garden e quelli affamati d’intrattenimento passeggiavano per St Martin’s Lane verso Leicester Square o Soho, a seconda della loro definizione di intrattenimento. Gli uomini d’affari, nei loro abiti confezionati, marciavano a tempo come i pinguini, le punte di ombrelli e protezioni della Blackeys e della Segs (quelle singolari protezioni in metallo per le suole delle scarpe che solo gli inglesi hanno) battevano il ritmo della loro vita quotidiana. Gli autobus rossi avanzavano lentamente verso Cockspur Street e giravano l’angolo verso The Strand e Charing Cross. La città era viva.

    Una bambina con un cappotto di lana rosso correva nella sua direzione, ridacchiando e sbattendo le braccia per far volar via dallo spavento i piccioni che stavano mangiando e quando la bambina si ritrovò proprio in mezzo allo stormo, questo spiccò il volo di colpo creando un turbine di piume. La bambina rise ancor più forte, le sue risate erano urla di contentezza e seguivano i piccioni nel cielo. La sua felicità era contagiosa. L’uomo rovistò nella busta di plastica alla ricerca di un’altra fetta di pane da sbriciolare e la donna non riusciva a non sorridere. Aveva scelto la maglietta gialla perché la faceva sorridere: le sembrava importante che oggi, tra tutti i giorni, lei dovesse sorridere.

    Estrasse il telefono dalla tasca e fece la chiamata.

    BBC. Come posso aiutarla? La voce dall’altra parte del telefono era così vivace per dovere. Sarebbe cambiata in meno di un minuto non appena sarebbero iniziate le urla.

    C’è una piaga in arrivo, disse con voce calma. Per quaranta giorni e quaranta notti la paura attraverserà le strade. Coloro che hanno peccato, bruceranno. La morte inizia ora.

    Chi è? Con chi sto parlando?

    Non ho bisogno di dirti il mio nome. Prima che la giornata finisca saprai tutto ciò che c’è da sapere su di me, tranne un dettaglio importante.

    E quale sarebbe?

    Perché l’ho fatto.

    Scompigliò i capelli della bambina mentre questa disperdeva, sbellicandosi dalle risate, un altro stormo di piccioni. La bambina si fermò, si girò e guardò la donna. Hai uno strano odore.

    La donna mise la mano in tasca per prendere l’accendino. Fece girare la rotellina col pollice per farla sfregare contro la pietrina, e fece toccare i suoi capelli alla fiamma che ne era scaturita.

    Lasciò cadere il telefono e incespicò in avanti mentre il fuoco la divorava.

    Intorno a lei la città urlava.

    3

    ––––––––

    Tredici martiri

    ––––––––

    Noah Larkin era sdraiato sulla schiena mentre guardava l’economico ventilatore da soffitto di un altrettanto economico hotel: mentre giravano, le pale facevano rumore creando un doloroso e stridulo stridio ogni quattro giri. La stanza, nel piano interrato di una vecchia Victoria Town House, gli costava venti sterline a notte e come dice il proverbio, ottieni quello per cui paghi e quello per cui aveva pagato era un materasso bucherellato con macchie nere di cimici schiacciate, un lenzuolo fetido che non era stato lavato da quando la Regina Vittoria stessa sedeva sul trono e macchie d’acqua che avevano superato la prima metà del muro.

    La luce dalle finestre che davano sulla strada era quasi inesistente e la stanza puzzava di sogni creati da bottiglie di whiskey, sudore stantio e salsa di kebab vecchia di una settimana: non era un mix piacevole.

    Chiuse gli occhi.

    All’altro capo del letto la donna si rigirò, facendo piegare in modo allarmante l’intero materasso facendo conficcare una molla nella schiena di Noah. La donna accanto a lui non era una bellezza, ma questo a lui non importava, non perché Larkin fosse profondo e guardasse oltre le superficialità della bellezza: non lo era e non lo fece. Non c’erano profondità nascoste per lui: come la stanza, la donna era economica e, come la stanza, aveva ottenuto ciò per cui aveva pagato. Non si trattava di sesso, non l’aveva toccata: voleva solamente qualcuno che dormisse accanto a lui. Ovviamente, lui non riusciva dormire.

    Fortunatamente, gli squillò il telefono e lo prese dal comodino.

    Larkin. Disse, rispondendo.

    Dove diavolo sei stato? la cadenza irlandese della zona di Derry a cui Ronan Frost apparteneva era molto più marcata quando questo era arrabbiato: solo quella frase sarebbe bastata a un linguista per indovinare con precisione la strada in cui era nato.

    Noah guardò la prostituta distesa accanto a lui: il reggiseno di pizzo rosso si afflosciava sotto il peso degli anni; lei aprì gli occhi. Erano persi, come quelli del protagonista della poesia di T.S. Elliot Hollow Men. Gli sorrise. Assorbito dai pensieri, disse a Frost.

    Be’, smettila di fare l’idiota e porta qui il tuo culo, soldato. Siamo nella merda fino al collo.

    Arrivo, capo, rispose.

    Dall’altra parte della linea, Frost grugnì.

    Noah chiuse la linea e lanciò il telefono sul comodino, dove dietro la luce al neon dell’orologio provava a convincerlo che era quasi mezzanotte ma lui non ci credette neanche per un secondo.

    La prostituta si fece in avanti appoggiandosi sul gomito, studiando il corpo nudo di Noah. Lui le restituì il complimento; le avrebbe volentieri detto qualcosa ma non riusciva a ricordare il suo nome e invece prese il portafoglio dalla tasca, piegò una manciata di banconote e gliele diede.

    È troppo, disse lei, guardando il denaro e lo era davvero: valeva il lavoro di una settimana.

    Noah alzò le spalle. Chiamalo un bonus per aver evitato le scomode chiacchierate post-sesso mentre ci abbracciavamo.

    Lei arrotolò le banconote e le mise dentro il reggiseno.

    Ho pagato la stanza per tutta la notte, rimani e dormi. Fatti una buona colazione domani mattina.

    Andò dal lato del letto di lei, si chinò e le baciò gentilmente la fronte. Era un gesto sorprendentemente intimo e tenero e lei stese il braccio verso di lui, gli toccò la guancia con la sua unghia smaltata di rosso che si soffermò sulla cicatrice che tagliava l’ombra scura della barba. E solo per un momento avrebbero potuto essere amanti ma il rotolo di soldi nel suo reggiseno allontanò l’illusione piuttosto velocemente.

    Noah la lasciò a letto e mentre chiudeva la porta dietro di sé, ricordò il suo nome: Margot.

    Uscì per strada e vide che la stella del Nord risplendeva chiara nel cielo notturno. I lampioni bruciavano sodio giallo sul manto stradale, un ratto grasso uscì correndo da sotto una montagna di buste dell’immondizia di plastica accatastate sulla grondaia: non importava dove ti trovassi, a Londra non eri mai a più di tre metri di distanza da un ratto, o così si diceva.

    L’Austin Healey da corsa verde del 1966 di Noah era parcheggiata accanto al marciapiede, sembrava un relitto proveniente da un’epoca migliore e più nobile, circondata com’era dall’uniformità aziendale delle Volvo, delle Ford, delle BMW e delle Citroën allineate su ogni lato della strada. Le portiere dell’Austin erano beige, decorate con degli ornamenti dorati e neri, il tettino decappottabile in pelle nero era tirato giù. Si era innamorato della macchina quando era un rottame su dei mattoni di cemento in una rimessa di macchine a Clapham Common. C’era qualcosa in lei, era come il classico proiettile col suo nome inciso sopra: erano destinati a stare insieme fino alla fine.

    I documenti di registrazione segnavano la data originale di vendita risalente al 27 marzo 1966, gli piaceva l’idea della macchina nata nello stesso giorno in cui Pickles trovò il vecchio trofeo Jules Rimet sotto una siepe a South London. Noah aveva speso migliaia di sterline e centinaia di ore riparando la macchina e in verità questa era l’unica costante nella sua vita, l’unica cosa che amava: senza dubbio uno strizzacervelli avrebbe dato la colpa a un’infanzia senza amore e a una mancanza di abbracci quando da bambino si sbucciava il ginocchio; che fosse o no quello il problema, ogni volta che entrava in macchina, Noah pensava a sua madre in un qualche modo che riportava al complesso di Edipo. Comunque, alle volte, la macchina era semplicemente una macchina, quell’amore era semplicemente l’amore per i cerchioni a raggi e il cruscotto in legno di noce.

    Mise in moto il motore e si tolse dal marciapiede.

    La Londra notturna era una strana bestia: era viva con i ferormoni del pericolo, dell’adulterio e degli atti totalmente casuali di violenza senza senso, come la New York di Sinatra: era il suo tipo di città. All’angolo sorpassò un cane su tre zampe che cercando di non cadere provava a fare pipì su un muro, davanti a lui, sulla riga bianca in mezzo alla strada, camminavano due ragazze a braccetto. Gli suonò solo una volta, poi le sorpassò, passando da zero a sessanta in pochi secondi dovendo poi rifermarsi alla prima serie di semafori rossi. Noah amava la libertà illusoria che gli dava il vento tra i capelli, anche se era di breve durata.

    Questa parte di Londra era basata su tre livelli: quello clandestino; il livello della strada, con le sue gratificazioni istantanee fatte di fast food, negozi di vestiti scontati, di elettronica e di fiorai e il livello alto, con la sua incredibile architettura che tutti, ai livelli inferiori, erano troppo occupati per notarlo. Le finestre erano nascoste dietro saracinesche di ferro che a loro volta erano nascoste da graffiti fantasiosi e simboli di bande disegnate con le bombolette spray. Non avrebbe mai potuto abituarsi al vuoto totale della città durante la notte, non che poi la città fosse morta: era vampirica. Le uniche persone che uscivano a mezzanotte erano quelle che, per una ragione o per l’altra, avevano paura della luce del giorno.

    Tenendo il volante con le cosce, si allungò verso la pila di CD allineata vicino alla leva del cambio e prese quello che voleva. Ignorando le luci, girò a sinistra su Belgrave Road a settantacinque all’ora e continuò per Pimlico, passando Vauxhall Bridge Road superando appena i novanta chilometri orari.

    Non appena attraversò il Tamigi, la melanconica voce di James Grant domandava chi sano di mente voleva vivere in questa città piena di paura. Era una bella domanda. Noah amava Londra quasi quanto amava la voce di Grant: entrambe avevano quella sensazione di casa che le rendevano immediatamente rassicuranti, familiari ma non così tanto da produrre disprezzo. Entrambe erano così tanto di più di quanto apparivano, una volta che grattata via la superficie. La voce e le strade erano piene di sottigliezze nascoste, non riusciva a immaginare di vivere da qualche altra parte: era un ragazzo di Londra fino al midollo, viveva e respirava la città. Sorrise sapendo benissimo che nessuno avrebbe avuto premura di accusarlo d’essere fuori di testa.

    La lancetta del tachimetro era andata sotto i novanta due volte durante i cinquanta chilometri di strada verso Ashmoor e Nonesuch Manor, alzò il volume della musica al massimo quando la strada si fece più libera e vi si perse. Abbandonò la strada principale un chilometro prima della proprietà di Ashmoor, e prese un sentiero in salita, lungo il lato della zona di pascolo che faceva sobbalzare violentemente l’auto, verso la strada tracciata di alberi di limoni che segnava la via verso Nonesuch. Fuori dalla città la notte era pesta: non c’erano stelle e il vento soffiava attraverso i rami trascinati verso il basso dalla forza di gravità, sussurrando durante la veglia dell’Austin. Dinanzi a lui si elevavano gli imponenti cancelli di ferro di Nonesuch Manor House e due grotteschi gargoyle appollaiati sui pilastri del cancello lo osservavano mentre guidava: i loro occhi erano stati rimossi e sostituiti con delle telecamere di sorveglianza.

    Noah rallentò, gli pneumatici risputavano i ciottoli della ghiaia mentre continuava sul viale verso la casa. La via era illuminata dai lampioni e queste luci intorno a lui evocavano ombre demoniache che s’inchinavano e piegavano con il vento. Si fermò accanto alla Ducati Monster 969 di Ronan Frost, l’unica moto nel cortile, tutti gli altri veicoli erano macchine e ognuna di loro aveva qualcosa di speciale: c’era una Lamborghini Diable con macchie di fango sulle portiere, una Jaguar E-Type rosso fiammante, una Bugatti Veyron, una Lotus Elan giallo canarino, la Daimler di Sir Charles che era un classico senza tempo e la migliore di tutti: una Aston Martin Vanquish V12 argentata. Come spesso diceva Frost, se non si aveva una vita, il minimo che si poteva fare era guidare una bella macchina.

    Noah si alzò dal sedile anatomico lasciando le chiavi inserite.

    Nessuno avrebbe rubato l’Austin da fuori Nonesuch.

    Si avviò verso la casa, anche se chiamarla casa era sbagliato poiché in verità, sembrava più un castello. L’ala sinistra era persino merlata, con una parte che si era sgretolata là dove le piante rampicanti avevano danneggiato la muratura e si erano fatte strada tra le crepe dei mattoni. L’ala destra, invece, sembrava essere un’enorme gemma opalescente nella notte: era l’atrio del vecchio con le sue centinaia di piante rare, il vetro stesso creava la notte. Le luci erano accese in tre delle finestre al piano terra, le restanti erano coperte con persiane di legno.

    Max, il maggiordomo del vecchio, lo stava aspettando sotto il portico. Mi auguro che abbia fatto un buon viaggio, signore Noah annuì, non c’era amore tra i due. Sir Charles la sta aspettando con gli altri nel salotto. Posso prenderle il cappotto, signore? Noah si scrollò la giacca di pelle di dosso e gliela porse. Grazie, signore. Le serve qualcos’altro? disse e poi, come se ci avesse ripensato, aggiunse: Un dentifricio, forse? Il suo alito emana il fetore di chiunque abbia avuto la sfortuna di sedersi sulla sua faccia questa notte.

    Noah lo ignorò ed entrò.

    Nonesuch era un’immensa e irregolare casa antica con corridoi stretti, piani ammezzati e scale per la servitù. L’entrata era in legno di quercia pannellato e portava segni di danni causati dall’acqua. Lo stemma della famiglia del vecchio era appeso sopra un grande camino, non c’era alcun segno che indicasse che nel focolare ci fosse stato un fuoco nell’ultimo decennio.

    Su un tavolinetto davanti al camino spento c’era una squisita scacchiera incavata con i pezzi della posizione di Saavedra. Era una bellissima chiusura di gioco e un fantastico esempio di come una sola mossa poteva portare via la vita di qualcuno anche se importante: era una lezione salutare per ogni uomo che non capiva la natura della guerra, cioè che a volte la sottigliezza è più importante della potenza.

    Una scala in granito e in ferro si elevava in una serie di tre verso i piani superiori: il centro di ogni scala era irregolare per i migliaia di piedi che ci erano passati sopra nell’arco di trecento anni dalla costruzione dell’antico maniero. C’era un ascensore da scala per sedie a rotelle e segni di logoramento lungo il muro dove la sedia a rotelle del vecchio aveva urtato: Noah non riusciva a figurarsi Sir Charles che si sottoponeva all’umiliazione dell’ascensore da scala, non era quel tipo d’uomo, era più tipo da trascinarsi su per le scale solo con le mani e le ginocchia.

    Nonostante tutta la grandezza dell’entrata, c’era un’aria che sapeva quasi di vecchio, come le scale e le persiane di quercia che coprivano le finestre. Non c’era nessuna opera d’arte inestimabile in mostra, nessuna opera antica originale, nessun pezzo d’antiquariato prezioso: il visitatore sarebbe stato perdonato se avesse pensato che il vecchio fosse in bancarotta ma non lo era, aveva semplicemente investito il suo denaro in qualcos’altro.

    Noah oltrepassò l’entrata. Il salotto era la prima porta a destra, davanti alla biblioteca e quando vi arrivò non bussò: aprì la porta ed entrò.

    Il salotto era tutto tranne il classico rifugio dell’uomo inglese: il vecchio lo chiamava il crogiolo. Noah lo pensava invece in termini militari: era la stanza del resoconto. L’ampia stanza era essenzialmente la lucentezza del vetro e le linee definite dell’acciaio, contrapposte al fascino conservatore del vecchio mondo inglese. Tutto quello che vi si trovava era stato arredato tenendo a mente la disabilità di Sir Charles.

    Su di un’intera parete erano appesi dodici enormi schermi al plasma ad alta definizione capaci di mostrare o una singola immagine come se fosse un mosaico, oppure la stessa divisa in dodici copie uguali mentre sulla seconda parete c’erano due librerie: una piena di prime edizioni inestimabili - Bunyon, Marlowe, Fielding e Goethe sul primo scaffale, sul secondo edizioni in folio di Lavater, Glanvil, Maturin e Collin, ognuna di esse con annotate con le correzioni degli stessi autori - mentre l’altra piena di finti antichi libri in pelle. Se Noah non avesse saputo già da prima quali fossero quali, non sarebbe stato capace di indovinare.

    Dietro ai libri finti c’era un ascensore di servizio che portava verso il basso, in un’area che chiamavano il nido: il centro nevralgico di Nonesuch. Ospitava i server e i loro zettabyte d’informazioni raccolte e depositate, l’equipaggiamento di sorveglianza, i segnali dei satelliti monitorati e l’energia di mantenimento del maniero. Il nido era il cuore pulsante sotto il pavimento. Il trucco non avrebbe ingannato un intruso quantomeno attento (le tracce della sedie a rotelle nello spessore del tappeto sparivano sotto la seconda libreria), ma un intruso non attento non sarebbe andato oltre il crogiolo. I libri finti erano stati messi per il semplice fatto che a Sir Charles piaceva il gioco.

    C’erano delle luci a soffitto che emanavano una luce soffusa e gli schermi mostravano una singola, ma forte, immagine: una donna in fiamme con le braccia spalancate; l’ora segnata sullo schermo era 1500 Zulu. Quasi dieci ore prima.

    C’erano delle statuette di marmo su dei piedistalli, ognuna con una raffigurazione della Guerra personificata: c’era Babd, il corvo celta, e le sue sorelle, Macha e Morrigan, ovvero i fantasmi del campo di battaglia; Bast, la leonessa egiziana, alta e fiera, con una forte aria di sfida, mentre sia il dio greco Ares sia quello romano Marte indossavano una guida da cacciatori; Odino col suo occhio bendato, con i corvi Hugin e Munin su entrambe le spalle, raffiguranti la furia e la saggezza, l’ira e la bellezza, il dio nordico della dicotomia della guerra espressa a pieno e, ovviamente, al centro di tutti, Kali, la dea indù della morte.

    Le statuette davano alla stanza una strana aria d’occulto che il vecchio amava incoraggiare, erano il riflesso dei suoi gusti eclettici e un’altra parte del gioco: avrebbe potuto scegliere qualsiasi cosa per decorare il crogiolo, dato che i soldi non erano un problema. Non era neanche un problema di gusto, il vecchio aveva entrambi in abbondanza. No, le statuette erano una deliberata allusione al passato, alla morte e, piuttosto ironicamente, alla gloria.

    Oltre alle librerie, la principale concessione di gusto tradizionale era ciò che a primo sguardo sembrava essere un tavolo da pranzo in mogano georgiano al centro della stanza solo che, al posto dell’intarsiatura in pelle, l’intera parte superiore del tavolo era stata tolta e sostituita con un potente computer touchscreen.

    Il tavolo era circondato da cinque sedie in pelle verde dallo schienale alto e su quattro delle cinque sedie sedeva un membro del frutto dell’ingegno di Sir Charles Wyndham, nome in codice: Ogmios. Ogni membro era vincolato dal Mandato 7266 emanato dai Servizi Segreti, il loro lavoro era fare di tutto e il possibile necessario per preservare la sovranità dell’arcipelago britannico. Ciò che significava era più complicato da spiegare: non erano spie e ufficialmente non erano che dei fuorilegge, rimossi dalla sicurezza dello Stato; erano quelli che vengono chiamati deniable e se qualcosa andava male, erano da soli, se qualcosa andava bene, nessuno avrebbe mai detto grazie. Quando le cose si mettevano male, si presentavano loro.

    Il vecchio li avrebbe potuti chiamare anche la Forgia, Noah li chiamava la Causa Persa: era un’interpretazione leggermente differente. Noah non sapeva a chi facessero rapporto, chi avrebbe sorvegliato i sorveglianti, per così dire, ma immaginava fosse qualcuno nel MI6, qualcuno che respirava l’aria raffinata dei piani alti. Insomma. Il vecchio si riferiva a lui o a lei come Controllo.

    Noah non sapeva come il vecchio avesse scelto la sua squadra. A dire il vero non sapeva molto di loro, nonostante il fatto che ognuno di loro avrebbe messo la propria vita a rischio per lui. Lo sapeva perché lo facevano ogni giorno.

    S’inserivano in aree con dei disordini, spesso per mediare, altre volte per facilitare e, quando necessario, colpire col pugno di ferro.

    Le bugie migliori erano quelle semplici, quindi mantenevano le loro storie di copertura a un minimo essenziale: meno dettagli da ricordare significava meno dettagli che si potevano dimenticare. E ovviamente, essendo deniable, ogni controllo sul passato di qualsiasi membro della squadra non avrebbe mai portato a nessun collegamento con i Servizi Segreti.

    Quello più vicino a lui era Ronan Frost, il ragazzo dagli occhi azzurri, i capelli grigi e con un completo grigio ferro confezionato da Ted Baker. Frost non alzò lo sguardo. Aveva servito nel 1° reggimento Paracadutisti in Kossovo nel ’99 prima di unirsi, per il resto del mondo, alla squadra controterrorismo dei progetti speciali SAS. Accanto a lui c’era Orla Nyrén: ogni elemento dell’ideale mediterraneo risplendeva nella sua impeccabile carnagione olivastra, nei suoi occhi color cioccolato, nei capelli neri lunghi fino alle spalle, nelle ossa fini e nelle labbra a forma di cuore. In verità era un misto soddisfacente: suo padre era di una piccola città italiana giù nella costa amalfitana, mentre la madre veniva dal freddo nord della Svezia e Orla stessa era una curiosa miscela di entrambi i poli genetici. La sua eredità scandinava era ovviamente visibile nella sua corporatura: la sua bellezza (ed era bella, considerevolmente bella, pensava Noah), insieme all’altezza di poco meno di un metro e ottanta, le dava un'aria imponente. Il suo lato italiano si manifestava in altri modi, per la maggior parte superficialmente, insieme a un bel caratterino. Una volta, Noah ne aveva ricevuto un assaggio verso la fine di una discussione, e una volta era stata più che sufficiente. Nyrén era un ex-membro del MI6, una specialista del Medio Oriente: parlava correntemente una dozzina di lingue, due delle quali morte, inoltre per Noah era la cosa che si avvicinava maggiormente a una cotta.

    Dall’altra parte del tavolo, Konstantin Khavin inclinò la testa in segno di saluto. Konstantin era un ex-membro del KGB e la definizione vera e propria della spia che proveniva dal freddo: nel ’88 aveva scavalcato il muro con niente di più che dei vestiti in spalla e il suo documento. Era più grande degli altri, ma aveva vissuto il tipo di vita che rimane scolpita in ogni centimetro della pelle; la sua bocca era una sottile fessura, come il taglio di un coltello fatto sopra il meno a fossetta, Noah aveva la strana impressione che il russo sorrideva solamente nel momento in cui voleva sottolineare quanto avesse voglia di prenderti, portarti fuori e picchiarti a sangue a pugni e a calci. Non c’era bisogno di dirlo, Noah era piuttosto felice che Konstantin non stesse sorridendo: anzi, stava seduto lì facendo un ripiglino con le dita tozze. Gli mancava l’ultima falange dell’indice destro e le maniche della camicia erano rialzate mostrando un orologio digitale di plastica di basso valore.

    Ognuno di loro aveva le loro storie, i loro difetti. Nessuno di loro era completamente pulito o non sarebbero finiti a lavorare per il vecchio, ma Konstantin era diverso: alle volte era difficile dire se le sue storie fossero determinate dal suo senso dell’umorismo alla russa o no. Aveva fatto cose che il resto di loro non riusciva a immaginare, ma aveva l’abitudine di assegnare nella sua storia un posto per tutte le malattie patite dal suo popolo. Una volta aveva raccontato a Noah una storia di come era stato obbligato a camminare per la strada con le interiora di sua madre drappeggiate intorno al collo per provare la sua lealtà allo Stato e Noah voleva credere che fosse solo una delle sue macabre storie perché non riusciva a immaginare quale uomo avesse potuto far fare una cosa del genere a un bambino. Era una cosa che non si adattava alla sua filosofia, e pur provando a sostenere che facendo tutto ciò il Konstantin di nove anni aveva in qualche modo provato la sua lealtà a un qualche governo invisibile, andava oltre l’inumano.

    E poi c’era Jude Lethe, il matto di questo nido di soldati, il mago della tecnologia della squadra; non era un semplice nerd, ma molto di più: era il loro nerd e sembrava terribilmente serio con quegli occhiali neri modello Joe 90.

    Insieme erano gli Ogmios, dal nome di un eroe celtico che a sua volta era stato modellato sulle leggende di Ercole.

    Il punto in cui ci sarebbe dovuta essere la sesta sedia alla fine del tavolo era stato lasciato vuoto per la sedia a rotelle del vecchio; questi erano i suoi uomini e aveva formato un gruppo inverosimile (e pericoloso).

    Felice che abbia potuto unirsi a noi, signor Larkin, disse il vecchio dal suo posto al tavolo.

    Noah annuì e si sedette all’ultimo posto libero.

    Forse ora possiamo iniziare?

    Non fate caso a me, disse Noah.

    Grazie.

    Il vecchio sistemò la posizione della sedia a rotelle, era l’equivalente paraplegico di sistemare i fogli davanti a sé. Allungò un braccio e tocco con il dito lo schermo touchscreen spento, dando vita al computer sottostante. L’immagine sulla matrice del muro s’illuminò immediatamente, e fu necessario un altro tocco per riprodurre il video.

    Londra è una delle città più controllate da vicino nel mondo. Non c’è metro quadrato che non sia coperto da qualche telecamera stradale CCTV o da una telecamera di sorveglianza privata. Quel che state vedendo è accaduto a Trafalgar Square alle tre del pomeriggio di oggi: ci sono varie angolazioni ma tutte mostrano la stesa cosa. Non c’era bisogno che Sir Charles si spiegasse ulteriormente: l’immagine valeva di per sé più di mille parole. Noah guardò la donna bruciare: teneva le braccia aperte e girava, girava, e alla fine cadeva come se avesse avuto un forte capogiro. Un minuto prima di suicidarsi, la donna ha chiamato la segreteria della BBC, continuò il vecchio e toccò il touchscreen, riducendo a icona il fotogramma della donna in fiamme in ginocchio, e mise in riproduzione la registrazione audio della chiamata.

    La donna aveva parlato con la voce simile a quella di un morto: C’è una piaga in arrivo. Per quaranta giorni e quaranta notti la paura camminerà per le strade. Coloro che hanno peccato, bruceranno. La morte inizia ora.

    Chi è? Con chi sto parlando? chiese una seconda voce.

    Non c’è bisogno che vi dica il mio nome. Prima della fine della giornata, saprete tutto ciò che c’è da sapere, eccezion fatta per un dettaglio importante.

    E quale sarebbe?

    Perché l’ho fatto.

    Sir Charles fece ripartire l’audio ancora una volta, l’ultima frase rimase sospesa nell’aria.

    Sappiamo chi è la vittima? chiese Orla Nyrén portandosi in avanti col busto: aveva l’abitudine di ravvivarsi quando le cose intorno a lei diventavano interessanti. Anche la maggior parte della gente faceva lo stesso, ma era la sua definizione di interessante che l’allontanava dalla maggior parte della gente.

    Signor Lethe? Le dispiacerebbe condividere con gli altri la sua scoperta? Sir Charles inclinò leggermente la testa.

    Lethe annuì e piuttosto imbarazzato si mise a giocherellare con la montatura degli occhiali. "Abbiamo usato il software di riconoscimento facciale, cercando una corrispondenza con la nostra Jane Doe nelle varie banche dati. IDENT1 non ha dato risultati e vale altrettanto per il Server in the Sky, quindi non stiamo parlando di qualche ricercato del FBI, il che significava che dovevamo cercare più vicino a casa. Ci sono stati dei risultati da parte del DMV a Swansea insieme a un risultato individuato dal sistema IRIS a Heathrow: ci sono stati di aiuto per scoprire alcuni dettagli non troppo importanti.

    La nostra focosa amica è una certa Catherine Meadows, 39 anni, laureata alla Newcastle University, nessuna relazione amorosa. La signorina Meadows era, al momento della combustione, un’archeologa forense piuttosto stimata. Alquanto recentemente aveva testimoniato contro Radovan Karadzic al Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia dell'Aja. Il suo curriculum si legge come una pubblicazione di Who’s Who, o immagino potremmo dire Dov’è dove", dell’archeologia. Tuttavia questo è tutto: questa è la sua vita. Era ossessionata col passato, non viveva nel presente.

    Leggendo tra le righe, si capisce che era una donna sola, piuttosto incline a finire il resto dei suoi giorni coccolando il gatto, sorseggiando una tazza di Horlicks e vedendo l’ultimo episodio di Eastenders, piuttosto che spassarsela con qualche bel Lotario. Non c’è niente qui che possa far pensare che potesse essere la tipica terrorista, o persino una terrorista atipica, disse con un’alzata di spalle. Infatti, prima della sua decisione di finire i suoi giorni nel fuoco della gloria, avrei detto che la signorina Meadows fosse noiosa, anche se non è proprio la parola più adatta.

    È incredibile quello che puoi scoprire con Google, disse Noah scherzando.

    In verità, a dirla tutta, metà di questa roba era di dominio pubblico. Scrivendo il suo nome e mettendo la sua foto, chiunque di voi l’avrebbe trovata. Aveva un profilo Facebook disseminato di foto del suo gatto dal pelo rosso, con un collegamento diretto alla classe del ’91 dell’università di Newcastle e ad alcune sfortunate fotografie risalenti al suo periodo da fan dei Cure. Dietro agli occhiali, Lethe alzò un sopracciglio in segno di ironia. Voi penserete che un’archeologa avrebbe dovuto sapere che alcune cose è meglio lasciarle al passato, no? e rise alla sua stessa battuta. "Ha scritto per un certo numero di

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