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Demon Hunter Severian: La Signora dei Cancelli della Notte
Demon Hunter Severian: La Signora dei Cancelli della Notte
Demon Hunter Severian: La Signora dei Cancelli della Notte
E-book297 pagine7 ore

Demon Hunter Severian: La Signora dei Cancelli della Notte

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Info su questo ebook

A.D. 394.
Milano, la nuova multietnica capitale dell'Impero Romano, è in grave pericolo.
Cittadini muoiono orribilmente nel sonno. Oscure presenze vagano nelle necropoli. Una statuetta, così oscena da essere intollerabile alla sola vista, rievoca un'antica e maledetta divinità precristiana il cui nome doveva essere dimenticato.
E solo Severiano, il Cacciatore di Demoni, può affrontare la terribile minaccia.
Fra orrende riesumazioni, riti di magia nera, possessioni diaboliche, culti ancestrali che strisciano sotto la cenere del "fuoco purificatore" voluto dall'Imperatore Teodosio per affermare il Cristianesimo - il divieto di qualsiasi culto pagano - l'indagine di Severiano lo condurrà fino a un complotto che può avere conseguenze devastanti per lo stesso Impero, e dietro il quale sembra nascondersi la divinità Ecate, Regina dei Cancelli della Notte, padrona di ogni porta dell'universo...

Con Demon Hunter Severian - La Signora dei Cancelli della Notte, il grande romanzo storico, con una Milano imperiale perfettamente ricostruita, si sposa con l'azione, il mistero, il romance e le suggestioni del fantasy... lasciando il lettore senza un attimo di tregua!

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2014
ISBN9788899216061
Demon Hunter Severian: La Signora dei Cancelli della Notte
Autore

Giovanni Anastasi

Giovanni Anastasi, aka Luca Tarenzi, was born in 1976. He has a degree in History of Religions and was an editor and a tourism journalist before discovering his true calling as a fully committed daydreamer. Today he lives in Arona, Piedmont, with a veterinarian wife and numerous animals on a lakeshore infested with feral-looking swans and adorable river rats. He is a part-time writer, part-time translator, part-time literature and religion lecturer, and full-time geek as well as an avid roleplayer and a shamanic practitioner. His novels are among the most acclaimed urban fantasy books in Italy, and some have been published in other countries. In 2012, his novel Quando il diavolo ti accarezza (“When the Devil Strokes You”) won Italy’s prestigious Premio Italia fantasy and SF literature prize in the "Best Fantasy Novel" category.

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    Anteprima del libro

    Demon Hunter Severian - Giovanni Anastasi

    Demon Hunter Severian - La signora dei cancelli della notte

    Giovanni Anastasi

    Acheron Books n.5

    Direttore Editoriale: Adriano Barone

    ISBN epub: 9788899216061

    ISBN mobi: 9788899216078

    Editing: Adriano Barone

    Impaginazione a cura di Antonino Lo Iacono

    Illustrazione di copertina di -Rom-

    Opera protetta da copyright. Ogni riproduzione anche parziale, se non autorizzata dall’autore, sarà perseguita a norma di legge.

    Copyright Demon Hunter Severian - La signora dei cancelli della notte © 2014 Acheron Books

    All rights reserved

    Acheron Books – www.acheronbooks.com

    Giovanni Anastasi è lo pseudonimo di Luca Tarenzi, autore dei romanzi Il sentiero di legno e sangue (Asengard), Quando il diavolo ti accarezza (Salani, vincitore del Premio Italia 2012 nella categoria Miglior romanzo fantasy) e Godbreaker (Salani)

    Acheron Books

    Website: www.acheronbooks.com

    Giovanni Anastasi

    DEMON HUNTER SEVERIAN

    La signora dei cancelli della notte

    MILANO, A.D. 394

    Nell’anno 291, sotto l’imperatore Massimiano, Milano divenne capitale dell’Impero Romano d’Occidente e una delle città più importanti del mondo conosciuto all’epoca. Per un secolo storici e poeti fecero a gara nel descrivere il suo fasto e la sua bellezza.

    La sua importanza raggiunse l’apice durante il regno di Teodosio (347-395), il primo imperatore cristiano a dichiarare ufficialmente banditi dalla vita pubblica i culti degli antichi dèi di Roma. Nel 392 il suo co-reggente, l’imperatore Valentiniano II, venne assassinato in circostanze mai chiarite: ciò fece di Teodosio l’unico sovrano dei Romani, e di Milano la capitale dell’Impero intero.

    Nel settembre del 394, dopo aver sconfitto in battaglia un usurpatore che insidiava il suo trono, Teodosio fece ritorno a Milano, dalla quale mancava da tempo. In quel momento il vescovo della città era Aurelio Ambrogio, che dopo la morte sarebbe stato venerato come santo: un uomo dall’autorità immensa, che grazie anche alla sua influenza privata sull’imperatore stesso può essere considerato, nella fase finale della sua vita, la persona più potente di tutta la cristianità.

    PROLOGO

    Il prete fuggì lungo la strada e il demone lo inseguì.

    Corse a perdifiato verso un portico colonnato, sentendo il suo stesso respiro che gli ruggiva nelle orecchie. Ma forse i ruggiti arrivavano da dietro di lui.

    Le strade di Milano erano mute e tenebrose, le statue agli incroci ridotte a masse indistinte nell’oscurità, i frontoni delle case vuoti come facce inespressive, con occhi ciechi fatti di porte e finestre sbarrate. Per l’ennesima volta il prete tentò di gridare, di chiedere aiuto, ma la voce si rifiutava di uscirgli dalla gola.

    Il portico gli era sembrato vicino ma si rese conto che non lo era affatto, e non sapeva più da che parte fuggire, ma non osò fermarsi. Il demone era dietro di lui, avvertiva il rantolo del suo respiro e il raspare dei suoi artigli sulle pietre del selciato, e anche se aveva l’impressione di correre da un’eternità se lo sentiva sempre più vicino.

    Si guardò attorno disperato, ma non riconobbe nessuna strada. E adesso anche il portico era sparito e quella intorno a lui non pareva nemmeno più Milano: non era la città in cui era nato e cresciuto, di cui conosceva ogni via e ogni vicolo, ma una distesa di edifici sconosciuti che gli troneggiavano sopra da ogni parte, altissimi e minacciosi.

    Si sentì afferrare alle gambe e cacciò un urlo che lui stesso non udì. La tunica gli si era avvolta attorno alle caviglie, stretta come un cappio, e gli impediva di muovere le gambe.

    Il prete scalciò, annaspò e tentò con tutte le sue forze di liberarsi senza smettere di correre, ma la tunica lo avvolgeva sempre di più, sempre più stretta. Cadde sul selciato, si dibatté e la sagoma del demone si stagliò sopra di lui, nera e immensa.

    Continuò a gridare senza udire le proprie grida mentre il mostro gli calava addosso. Tentò di chiudere gli occhi, ma nemmeno le palpebre gli obbedirono e fu costretto a guardare.

    Il demone aveva un profilo strano e incongruo nell’oscurità, un torace gigantesco e spalle larghe come un tavolo da cucina da cui sorgevano tre teste. E quella al centro era sormontata da due lunghe corna arcuate, la corona di un angelo degli inferi.

    Poi zampe artigliate lo afferrarono per le braccia squarciandogli la pelle e uno zoccolo enorme gli piombò sul petto, premendo con forza disumana.

    Il prete urlò, si divincolò e urlò ancora, ma non sentiva nient’altro che il triplice rantolo del respiro sopra di lui e quella pressione mostruosa al petto che cresceva, cresceva sempre di più…

    Quando la moglie lo trovò nel letto al mattino, rigido e freddo, intrappolato in un groviglio di coperte, con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati nella fissità della morte, non poté far altro che raccogliere le sue poche cose e fuggire via singhiozzando.

    Ma nemmeno una delle sue lacrime fu per lui.

    PRIMA PARTE

    1

    L’uomo a cavallo sentì odore di fumo ancor prima di vedere le porte della città. Un odore acre, nauseante.

    Le mura di Milano, di pietra grigia, si ergevano di fronte a lui, altissime e lisce, e gli elmi dei soldati che le pattugliavano sulle sommità mandavano bagliori rossastri nella luce del tramonto. L’ultimo tratto della strada, che fino a lì si snodava per chilometri tra i campi, passava proprio sotto i bastioni e duecento metri più avanti si apriva una delle due porte occidentali della città, grande e squadrata, coronata di statue di marmo come un arco della vittoria.

    Ma ad attirare l’attenzione dell’uomo che si avvicinava in sella al cavallo stanco non fu la magnificenza del monumento, bensì la folla radunata lì accanto, una folla stranamente quieta.

    Sopra il piccolo mare di teste si levavano due colonne di fumo nero, densissimo, che la brezza della sera piegava in direzione dei campi. Da quella distanza l’uomo non riusciva a vedere cosa stesse bruciando, ma la folla era così silenziosa che il vento, assieme al fumo, portava fino a lui persino il crepitare delle fiamme.

    Quando fu più vicino distinse anche i soldati, uomini in cotta di maglia e pantaloni di tela, senza elmo, coi mantelli neri gettati sulle spalle e le lance in pugno, in fila a fare cordone davanti alla gente che, oltre che muta, era anche immobile.

    La porta di Milano ormai era di fronte a lui, al di là del ponte che scavalcava lo stretto fossato, ma l’uomo anziché procedere tirò le redini di lato. Il cavallo sbuffò, infastidito da quell’improvviso cambio di rotta, uscì dalla strada e si avvicinò alla folla.

    Il cavaliere prese il bastone che teneva di traverso sulla sella e lo usò per toccare nelle reni la prima persona che gli capitò a tiro, un uomo anziano e quasi calvo, con pochi ciuffi sopravvissuti dietro le orecchie, che sobbalzò e si voltò a occhi sgranati. Il cavaliere si chinò in avanti, ma il suo viso non emerse dal profondo del cappuccio bordato di pelliccia.

    Cosa succede? mormorò.

    L’altro lo scrutò sospettoso. Ammazzano degli schiavi.

    Perché?

    Sono pagani. Facevano sacrifici agli dèi. Li hanno scoperti.

    Il cavaliere toccò il cavallo coi talloni e la bestia avanzò tra la gente provocando una piccola ondata di spintoni e proteste. Quasi subito due soldati si fecero largo tra la folla e gli si pararono davanti.

    Dove pensi di andare tu? gli intimò uno dei due. Levati di torno.

    Il cavaliere lo fissò.

    Il soldato e il suo collega, oltre alla lancia, portavano la spada al fianco e, appesi sulla schiena, scudi rotondi dipinti di rosso e azzurro sgargianti. Uomini della Schola Palatina. Militari di professione, ben addestrati e ben equipaggiati, al servizio diretto dell’imperatore: polizia, guarnigione e guardia imperiale tutto in uno. Gente che poteva fare il bello e il cattivo tempo per le strade di Milano, ora più che mai dal momento che l’imperatore in persona si trovava in città.

    Vedendo che l’uomo non si muoveva, le guardie incrociarono le lance e le piazzarono di fronte al muso del cavallo, che sbuffò e tirò indietro le orecchie.

    Il cavaliere invece le ignorò e rivolse lo sguardo oltre le teste della folla, verso un punto che ora riusciva a vedere meglio. In uno spiazzo sterrato ai piedi delle mura erano piantati tre pali: due non si vedevano quasi, avvolti com’erano da due nubi di fiamme ruggenti che vomitavano fumo. Qualunque cosa stesse bruciando, ormai non si distingueva più, ma da quella distanza il puzzo di carne carbonizzata era inconfondibile.

    Legato al terzo palo, con le braccia penosamente contorte dietro la schiena, c’era un ragazzo.

    Portava una tunica di tela di sacco su cui una guardia stava spalmando pece che pescava con una paletta da un secchio. Un’altra guardia attendeva lì accanto con una torcia accesa.

    L’uomo a cavallo strinse pian piano gli occhi. La Tunica del Supplizio. Un metodo di esecuzione antico e mostruoso, tanto raro a vedersi in quei giorni, riservato solo a chi si era macchiato dei crimini peggiori, quelli che offendevano la persona stessa dell’imperatore. Crimini per i quali la legge trovava giusto e opportuno spalmare pece sul corpo di un uomo vivo e appiccargli fuoco.

    Il cavaliere diede di nuovo di sprone e il cavallo avanzò deciso addosso alle due guardie, che furono costrette a gettarsi di lato per non venir travolte. Quando arrivò al limite interno della folla, dove iniziava lo spiazzo vuoto, altri tre soldati gli vennero incontro a passo svelto. Quello in testa teneva un elmo crestato sotto il braccio, l’insegna di un tribuno.

    Il cavaliere gli lanciò un’occhiata: ecco il direttore di quel piccolo spettacolo pubblico. Poi il suo sguardo tornò al ragazzo legato.

    Era piuttosto alto, ma ora che l’uomo lo vedeva più da vicino non gli avrebbe dato più di quindici o sedici anni. Aveva capelli biondi che scendevano in ciocche disordinate sul collo e lineamenti angolosi. Sangue germanico, senz’altro, come molti schiavi, ma non puro: la pelle era quella scura degli italici. Teneva la testa dritta, appoggiata al palo, e gli occhi chiusi; sulle guance nere di fuliggine si vedevano bene i solchi delle lacrime, ma adesso non stava piangendo. Al collo portava qualcosa, un piccolo oggetto che luccicava nel chiarore del tramonto.

    Il tribuno alzò la voce e l’uomo a cavallo si rese conto che stava parlando con lui. Lo fissò di nuovo. Quello invece era un Germanico fatto e finito, uno di quei militari di carriera cresciuti tra le foreste fradicie di pioggia e il fango dei campi di battaglia, su, oltre i confini a nord: massiccio e squadrato, con due baffi castano-rossicci che scendevano dal labbro fin sotto il mento e occhi di un azzurro quasi doloroso da guardare. Occhi che tuttavia brillavano di una lucida intelligenza da predatore.

    Mi hai sentito? ringhiò al suo indirizzo. Anche l’accento era germanico, pesante.

    Invece di rispondere, il cavaliere chiese a bassa voce: Che ha fatto quel ragazzo?

    Il tribuno si guardò alle spalle, verso il giovane legato. Idolatri. Lui e i suoi genitori. Schiavi di palazzo. Li abbiamo trovati che impiccavano un maiale nella cantina sotto le cucine.

    E quindi li bruciate vivi?

    Il tribuno sputò per terra. I nemici di Cristo sono nemici dello Stato. Chi adora gli dèi pagani con sacrifici di sangue è colpevole di lesa maestà. E la legge dice che questa spazzatura si toglie di mezzo col fuoco. Poi sventolò un dito sotto il naso del cavallo, non potendo farlo sotto il naso dell’uomo in sella. Stai disturbando un’esecuzione pubblica. Levati di mezzo o ti faccio spaccare tutte le ossa a bastonate.

    Ma il cavaliere non lo stava già più ascoltando, gli occhi calamitati ancora una volta dal ragazzo al palo. La guardia col secchio diede altre due palettate di pece e si scostò; quella con la torcia venne avanti.

    Il ragazzo, pur con gli occhi chiusi, si tese. Ma non pianse, non urlò, non invocò pietà.

    Aveva appena visto sua madre e suo padre coperti di pece e bruciati vivi, e stava per fare la stessa fine, ma non pianse.

    Nell’ombra del cappuccio, l’uomo a cavallo strinse gli occhi fino a ridurli a due fessure. Alla luce della torcia le labbra del ragazzo si muovevano piano.

    Prega mormorò l’uomo. Sta pregando.

    Il tribuno mandò un ruggito, afferrò le redini del cavallo e le tirò verso il basso. Adesso ti faccio…

    Il cavaliere reagì di schianto. Il bastone appoggiato alla sella sembrò balzare da solo nelle sue mani, roteò e si abbatté due volte, la prima sulla mano del tribuno e la seconda dritto in faccia. Il soldato urlò e cadde all’indietro.

    Gli altri due rimasero attoniti per un istante, poi imbracciarono le lance, ma troppo tardi. Il bastone calò sul più vicino come una frustata, tra il collo e la spalla, dove la cotta di maglia priva di spallaccio lasciava scoperta la pelle. La guardia crollò al suolo senza un gemito, tramortita.

    L’altra affondò un colpo di lancia veloce e preciso, ma il cavaliere si piegò all’indietro sulla sella per evitarlo, girò il bastone e centrò l’asta della lancia talmente forte da sbalzarla via dalle mani del soldato. Poi diede di sprone e il cavallo partì in avanti, mancando per un soffio di travolgere il tribuno, che rotolò di lato imprecando a gran voce.

    La guardia imperiale piombò nel caos.

    Lanciato al galoppo, il cavaliere attraversò nel tempo di un respiro lo spiazzo dell’esecuzione, strattonò le redini e il cavallo rampò di fronte al soldato con la torcia, che arretrò a precipizio.

    Un attimo dopo il cavaliere era già dietro al palo, col bastone nella mano sinistra. La destra affondò nelle pieghe del mantello e sfoderò una spada lunga una volta e mezza quelle delle guardie, che lampeggiò in mezzo al fumo dei roghi. Il ragazzo torse la testa all’indietro per fissarla con due occhi sbarrati di un verde felino, poi la lama calò in un fendente verticale. Le corde che legavano il ragazzo al palo caddero a terra.

    Il ragazzo crollò in avanti carponi e l’uomo gli tese il bastone. Afferra!

    Il giovane tossì e annaspò con la mano, a casaccio, ma era troppo debole: anziché aggrapparsi perse l’equilibrio e cadde a faccia in giù nella polvere.

    Il cavaliere alzò la testa: due guardie gli stavano correndo incontro con le lance in resta. L’uomo roteò due volte il bastone e lo lanciò tra le gambe della più vicina, che gli era già quasi addosso. La guardia precipitò al suolo e continuò a venire avanti rotolando tra le sue stesse urla, con un piede piegato in un angolo innaturale.

    L’altra la superò in corsa e affondò la lancia verso lo stomaco del cavaliere, che stavolta non riuscì a schivarla del tutto. La punta gli aprì un taglio nel fianco e proseguì nelle pieghe del mantello, dove rimase impigliata.

    Subito l’uomo afferrò l’asta con la mano libera, se la premette contro l’anca e con un gran colpo di talloni spinse avanti il cavallo. La guardia tentò di lasciar andare l’arma, ma non fu abbastanza veloce: il manico dell’asta la centrò nello sterno e la mandò gambe all’aria nella polvere.

    Ignorando la ferita al fianco che fiottava sangue scuro, il cavaliere gettò via la lancia, si piegò fino ad afferrare il ragazzo per la schiena della tunica impeciata e se lo caricò di traverso in sella.

    Poi schioccò le redini e lanciò il cavallo al galoppo in direzione dei campi, tra la folla che si apriva davanti a lui e le urla disumane del tribuno che ordinava ai suoi di gettarsi all’inseguimento.

    2

    Quando fu certo che tutti in casa dormissero, lo stregone uscì, percorse le strade silenziose, scese nel suo sotterraneo e con mani inquiete accese una candela.

    Erano giorni che riceveva presagi. Sulle prime aveva tentato di ignorarli, sperando di essersi sbagliato, o che col tempo e col mutare delle stelle se ne sarebbero andati assieme alla sventura che preannunciavano.

    Ma quelli anziché diminuire si erano fatti più frequenti. E più ovvi.

    Un corvo era caduto morto ai suoi piedi mentre camminava per strada. Una tazza di vino si era spaccata tra le sue dita e gli aveva macchiato di rosso la veste. E giusto la sera prima di quella un rospo, una bestia sacra alla Signora della Notte, era entrato chissà come nella canna del camino ed era precipitato nel fuoco, riempiendo tutta la casa con la puzza di carne bruciata.

    Gli dèi stavano cercando di comunicargli qualcosa, di avvisarlo di un pericolo in arrivo. E lo stregone ora aveva bisogno di udire con chiarezza le loro parole.

    L’incantesimo che aveva in mente però richiedeva la luce diretta della luna, e lui non si sarebbe mai arrischiato a fare nulla del genere all’aperto in città, dove chiunque avrebbe potuto vederlo. Avrebbe dovuto cavarsela in un altro modo.

    Prese dunque il suo mortaio e vi triturò dentro mirra, salvia, incenso puro e semi di papavero rosso, e quando tutto fu ridotto a polvere finissima vi mescolò acqua di fonte e vino scuro. Poi con uno spillo si punse un dito e lasciò cadere tre gocce di sangue nella miscela.

    Tagliò con cura una striscia di lino candido, immerse un pennello nel liquido e lo usò per scrivere sul lino parole magiche ricopiate dai suoi papiri e i nomi segreti della dea che intendeva invocare.

    Quando fu soddisfatto del risultato, bagnò la striscia nell’olio e accostandola alla fiamma della candela le appiccò fuoco, poi prese una moneta d’argento appesa a una catenella e un bacile pieno d’acqua. Tenne la prima sospesa sopra il secondo alla luce del lino che bruciava, si chinò sulla superficie dell’acqua sulla quale la moneta si rifletteva come una piccola luna e sussurrando chiamò a raccolta gli spiriti oscuri del Sonno e i Messaggeri dell’Abisso, imponendo loro di venire nel nome della Signora dei Cancelli della Notte a cui tutti loro dovevano obbedienza.

    Poi sollevò il bacile e bevve l’acqua d’un fiato, quindi si spogliò e si sdraiò nudo sulle pietre gelide del pavimento. Ma prima di chiudere gli occhi aprì uno scrigno di legno, intinse la punta del dito in quel che c’era dentro, appena appena, se lo accostò a una narice e inspirò.

    Il sonno venne presto e portò sogni tormentosi, immagini confuse di fiamme e grida e balenare di lame che roteavano nel buio. C’erano anche volti di uomini e di donne, e alcuni lo stregone li riconobbe. Poi si levò una muraglia di fuoco e ne uscì ruggendo la sagoma di un uomo a cavallo che brandiva un bastone e che si precipitava come una valanga su di lui, e lo stregone si svegliò strozzato dal suo stesso respiro, madido di sudore nonostante il gelo del pavimento.

    In silenzio si alzò e si rivestì, e quando ebbe finito le immagini del sogno si erano già dissolte quasi tutte nella sua memoria. Ma non aveva importanza. Ora sapeva quel che doveva sapere, l’unica cosa che avesse davvero importanza.

    Che un nemico, potente e pericoloso, era giunto a Milano in cerca di lui.

    Aurelio Severiano?

    Severiano aprì gli occhi. Non stava dormendo: aveva appoggiato la testa contro lo schienale della panca e chiuso gli occhi per riposarli. Ma a vederlo in effetti si sarebbe potuto pensare che si fosse addormentato.

    La vista gli si affaticava con più facilità di quando era giovane. Da lontano i contorni delle cose si facevano sfocati, e col passare degli anni il problema andava peggiorando. Per questo si basava quanto più poteva sull’udito, che grazie a Dio era ancora perfetto. E infatti aveva sentito fin dal corridoio i passi leggeri in avvicinamento.

    Annuì all’indirizzo del giovane in abiti grigi da servitore che lo scrutava sulla soglia dell’anticamera.

    Quello fece un inchino poco convinto. Vieni. Il vescovo ti aspetta.

    Severiano si alzò e lo seguì nel corridoio. La ferita al fianco mandò una fitta che gli fece stringere i denti, ma lui non lo diede a vedere. Era un brutto taglio, che si era medicato come meglio poteva con vino e miele che gli avevano dato alla locanda dove aveva preso alloggio. Per la verità sarebbe servito qualche punto di sutura, ma Severiano non aveva gli strumenti adatti, e in ogni caso non si sarebbe fidato a farlo da solo alla luce di una candela, non coi suoi occhi.

    Il servo lo guidò lungo il corridoio e poi su per una stretta scala che portava al primo piano. Non era una notte fredda, ma le pareti di pietra di quell’edificio stillavano gelo e umidità. Severiano si strinse nel mantello e, passando davanti a una finestrella, gettò un’occhiata fuori, sui tetti di Milano immersi nell’oscurità. Più in basso intravide vagamente lo spazio vuoto della piazza e da un lato, nera e indistinta, la mole della Basilica Vecchia a cui la dimora del vescovo era annessa.

    La scala terminò in un altro corridoio e infine in una porta.

    Il servo bussò e da dentro una voce un po’ stridula rispose: Entra.

    Con un altro inchino il servo aprì la porta, segnalò a Severiano di entrare e si ritirò.

    Era la stanza più grande che Severiano avesse visto fino a quel momento nella dimora vescovile. E non era un bene, perché il freddo era lo stesso di tutte le altre stanze e il fuocherello che ardeva nel camino sulla parete di fondo serviva a ben poco. Le altre due pareti e parte di quella in cui si apriva la porta erano nascoste da scaffali alti fino al soffitto, carichi da scoppiare di rotoli, pergamene e volumi rilegati. Al centro della stanza troneggiava una scrivania massiccia, anch’essa coperta da montagne di pergamene. A parte tutto questo, lo studio era disadorno: niente tappeti né ornamenti né dipinti. Solo scaffali e muri di nuda, umida pietra.

    Di fronte al camino, nella luce delle fiamme c’erano tre sedie, due delle quali occupate.

    Su una sedeva un uomo giovane col lungo abito nero che i sacerdoti cristiani stavano cominciando a portare quasi tutti, e che a Severiano dava la sgradevole impressione di una divisa militare. Aveva riccioli neri corti e ben curati e un viso attraente, dai tratti morbidi, ma

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