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Il reame senza corona
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E-book233 pagine3 ore

Il reame senza corona

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Info su questo ebook

Molte cose sono cambiate da quando il reame è senza corona. Le sette città-fortezza sono diventate indipendenti, difese e amministrate da lord e conti che si spartiscono il potere. Ma non tutti amano la pace. Il conte Maximilian Vondraft elabora un piano per conquistare il trono. Tra bugie e alleanze pericolose, ristabilisce il Torneo della lama per chiamare a raccolta i nobili e lasciare sguarnite le loro città. Se molte sono le forze che vogliono mantenere la pace, altrettante stringono già le mani sulla spada affinché la guerra divampi. Un lord giusto e circondato dall'affetto dei propri cari parte per la città-fortezza di cui meno si fida. Ha già combattuto nel Torneo della lama. Lo ha vinto. E sa bene che anche il prossimo sarà una carneficina. Un poco di buono ricercato in tutto il mondo per i suoi furti strabilianti fugge a un destino di lavori forzati, ma non è chi vuole dare l'impressione di essere. Il principe di un regno lontano compie un lungo viaggio per volere del padre. Stringerà un'alleanza pericolosa, almeno finché non si metteranno in mezzo gli occhi meravigliosi di una donna. Un cacciatore di demoni fissato con gli dèi vaga in lungo e in largo per combattere bestie infette e negromanti. Si imbatterà nella persona più diversa da lui che potesse mai incontrare. Proprio quella di cui ha bisogno. Mentre queste e molte altre pedine percorrono una scacchiera immensa e rischiosa, vele nere salpano dal Nord. Casate ambiziose cavalcano dall'Ovest. La Nebbia Notturna incombe. Ladri e pirati, investigatori paranormali e cacciatori di demoni, nobili rivoltosi e cavalieri in ascesa: nel Reame Senza Corona c'è posto per tutti. O per nessuno.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2016
ISBN9788867825417
Il reame senza corona

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    Anteprima del libro

    Il reame senza corona - Mattia Frigerio

    Prologo

    VESPROSFERZATO

    Fuori la nebbia si espendeva lentamente, inghiottendo quel poco che le fiamme svelavano dall'interno. Maximilian Vondraft si sfregò le mani davanti al caminetto dello studio. La mezzanotte era passata da tempo, ma lui non si alzava ancora dalla poltrona. Sbadigliò, senza dare troppo peso alla cosa. Attendeva notizie.

    Nella stanza accanto, poteva sentire la moglie rigirarsi fra le coperte. Forse lo stava immaginando. Maximilian indurì la mascella: erano mesi che non dormiva con lei. Che non si rivolgevano la parola.

    Pazienza, si sarebbe consolato con Magda. Quello che non sopportava era di essere stato cacciato dal suo letto. Se fosse stata una qualsiasi, l’avrebbe fatta frustare per giorni, assaporando le urla a piccole dosi come vino da un calice. Cominciava a odiarla a tal punto che le avrebbe spezzato il collo con gioia, se non fosse stata la figlia della contessa Seraphia la Selvaggia. Dalla madre, Kayra aveva certo ereditato il carattere, ma anche la città di Stelecremisi. Solo per questo non l'aveva ancora gettata dalla guglia più alta di Vesprosferzato.

    Vesprosferzato era il suo mondo. La sua casa. Da almeno tre generazioni, i Vondraft dominavano la città senza spartirla con nessun altro. Senza più una corona davanti alla quale prostarsi, detenevano un potere assoluto. Perché mai considerarsi un semplice conte quando poteva condurre una vita da re? Ma a un re servivano una nuova corona, uno scettro e l’appoggio delle casate più influenti.

    Kayra si rigirò un'altra volta tra le lenzuola. Scheletrica come un cane da caccia pensò Maximilian, e fa più bordello di un cinghiale.

    Ma la suocera era peggio.

    Il conte distese subito le dita per abbandonarsi al calore delle fiamme. Aveva sete, ma nessuna voglia di alzarsi. Rimaneva lì, in attesa di un messaggio che non arrivava. Ma perché diamine non riusciva a scaldarsi? Un brivido sulla nuca gli suggerì che la finestra era aperta.

    A denti stretti, si alzò. Perfino con la nebbia, dal secondo piano della magione, si intravedevano le luci della sua amatissima città. Maximilian Vondraft dimorava in uno dei punti più alti. Nelle giornate di sole, attraversata dalle placide acque del Lakerjor, Vesprosferzato era uno spettacolo. Il torrente la tagliava in due parti uguali: la città vecchia e quella nuova. I tre ponti che le collegavano risalivano all'epoca di Pauli Vondraft. Era stato lui a farli costruire, e questo rendeva il suo discendente più orgoglioso che mai.

    Chiuse le imposte e, con passo lento, fece per tornare al suo adorato caminetto quando s'accorse che era spento. La stanza nell'oscurità.

    «Ma che... ?»

    «Conte» lo salutò qualcuno con una voce simile a un sibilo.

    Maximilian sbatté gli occhi.

    «Perdonatemi: mi scordo sempre che sono in pochi quelli che vedono al buio. Rimedio.»

    Il fuoco riprese vita e Maximilian vide un uomo in piedi accanto alla porta.

    «Sei tu?» chiese il conte.

    «In persona.»

    Maximilian tirò un sospiro di sollievo. Si sedette alla scrivania. «Allora? Com'è andata? Su, avvicinati.»

    L'altro obbedì, ma preferì stare in piedi. Indossava un tabarro nero di tessuto grezzo. Alla cintura, il fodero di una spada dall’elsa di bronzo. Stringeva in mano una sacca di cuoio. Rigonfia.

    La rovesciò sulla scrivania. «È andata così.»

    «Ah» fece Vondraft. I suoi occhi verdi rimasero fissi in quelli grigi di lui. «Adoro come lavorate voi Assassini del giglio. Fate tutto alla lettera. Dei veri professionisti.»

    «L’omicidio è un’arte, mio signore. È come dipingere o comporre poesie: bisogna avere classe, amare quello che si produce... si crea. Noi del giglio amiamo la nostra arte. E siamo i migliori.»

    «Migliori e costosi, già. Ma il vostro operato non si discute. Già mio padre acquistò i vostri servigi e ne rimase impressionato. Nessun testimone, nessun rumore, nessun problema all’orizzonte.»

    «Sono felice che apprezziate le nostre qualità. Ora, se non è un problema, gradirei l’altra metà del compenso.»

    «Ma certo. Prima, però, voglio mostrarti una cosa.»

    Maximilian si allontanò dalla stanza, seguito dall’assassino. Camminarono lungo il corridoio, superarono porte, salirono e discesero scale. E infine eccoli, inghiottiti nella sala più vasta della magione. Qui il conte si fermò ad ammirare un dipinto. Ritraeva un nobile in età avanzata, fiero nella sua armatura scintillante, gli occhi verdi come smeraldi.

    «Mio padre. Uomo straordinario, sai? Forte, intelligente, temerario. Del tutto incosciente. Si fidava delle persone.» Fece una pausa d’effetto prima di riprendere con voce aspra. «Che idiota.»

    Le porte ai lati della sala si spalancarono. Uomini armati si precipitarono all'interno.

    «Fece patti col vostro ordine, come stavo dicendo. Molti patti, tanto da affezionarsi al vostro mentore. Lo descriveva come una persona speciale, pensa. Il mio amico. Beh, lo sai come morì mio padre? Assassinato da uno di voi. Avete la dannata abitudine di lasciare un giglio sul cadavere delle vittime.»

    L’assassino non distoglieva lo sguardo dal conte.

    «Sul corpo del bastardo che hai ammazzato avrai sicuramente lasciato il vostro segno» riprese Maximilian Vondraft. «Indagheranno su di voi. Ma se riuscissero a catturarti, tu parleresti. E faresti il mio nome, cosa che non andrebbe affatto bene.»

    Gli uomini armati indossavano tutti la cappa scura con il simbolo dei Vondraft: un serpente alato color cremisi. Alle loro spalle, spiccava un uomo dalla carnagione più scura, l'espressione imperturbabile.

    Maximilian fece un passo avanti, il volto duro. «Nel Reame Senza Corona i tagliagole abbondano. Nessuno sentirà la tua mancanza.»

    Le guardie si avventarono sull’assassino, ma lui fu rapido. Estrasse la spada. Pochi secondi dopo due soldati giacevano a terra morti.

    I sopravvissuti esitavano.

    «Tuo padre avrebbe dovuto raccontarti di più su di noi» sibilò l'assassino.

    Maximilian sbuffò. «Sì, sì... Volkan, pensaci tu.»

    L’omone dalla pelle scura avanzò, guardando l'assassino dall'alto verso il basso. Estrasse uno spadone e fendette con furia, ma l'assassino evitò il colpo. Non combatteva: danzava. Mirò al collo dell’avversario con un gesto rapido, armonico. Non fu sufficiente. Volkan ruotò su se stesso e bloccò il braccio dell'arma con presa ferrea. Calò il pomolo della sua arma. Le ossa si spezzarono. La spada dell'assassino tintinnò sulla pietra, poi fu il suo turno.

    «Ombre, aprite uno spiraglio» pregò in ginocchio. «Un vostro figlio muore e vi raggiunge.»

    Lo spadone di Volkan calò definitivamente.

    «Portare via il cadavere, non lo voglio qui. Gettatelo... chessò, nelle fogne!» ordinò Maximilian Vondraft.

    «Come ordinate, conte. Questa feccia, almeno, ha concluso il suo lavoro?» tuonò Volkan.

    Le labbra di Maximilian Vondraft si spalancarono in un ghigno feroce. «Oh, sì: quel poco che resta di Nicolas Karay giace sulla mia scrivania.»

     Capitolo I

    LAGISSA

    «Fermo!»

    L'individuo alla guida del carro emise un fischio e tirò le redini. Il suo asino si arrestò dolcemente.

    «Cosa trasporti?»

    «Cianfrusaglie da portare al mercato, comandante Altera. Me lo chiedete tutti i santi sabati da quando avete assunto l’incarico. Non avete una gran memoria, se posso.»

    «Fai lo spiritoso? Sei fortunato che oggi è una bella giornata, altrimenti ti prenderei a calci nel culo.»

    «Smemorato e gentile come al solito. Sapete: siete più incantevole che mai stamattina, con la brezza che vi spettina quei riccioli arruffati.»

    «Tieni a freno la lingua, Rupert, o te la taglio.»

    Il carrettiere sorrise, ma eseguì. Il comandante Altera era un donnone con cui c'era poco da scherzare. Aveva le spalle larghe ed era più alta della maggior parte dei suoi uomini. Non era particolarmente bella. Anzi, assomigliava più a un barbaro che a una nobildonna. E a lei andava benissimo così. Amava la birra scura e le risse: la vita da soldato le si addiceva. E poi detestava chiunque la trattasse da donna, ma per Rupert avrebbe chiuso un occhio. C'era anche un ragazzo sul carretto: un bel giovane dalle mani grandi.

    «Sei suo figlio?»

    «Aiuto mio padre a scaricare la merce» sentì il dovere di giustificarsi lui, davanti agli occhi fissi di Altera.

    «Si chiama Jakob, comandante. È il mio secondogenito. Il primo se lo è preso la Nebbia Notturna. Questo me lo tengo stretto.»

    «La Nebbia Notturna?» Due parole soltanto, e le guardie al suo fianco trattenevano il fiato come se intrappolati da mille lance. «Quand'è successo?»

    «Due inverni fa. Era andato a caccia sui Colli del bisbiglio. Non ha più fatto ritorno» biascicò il carrettiere. Altera percepì una nota di dolore. Comprendeva la sofferenza di Rupert. Anche i suoi fratelli erano stati vittima della Nebbia.

    «Vai, Rupert. Il mercato ti aspetta. E tu, giovane Jakob: se un giorno decidessi di afferrare una spada per andare a caccia della Nebbia Notturna, prima vieni da me.»

    Altera si fece da parte e lasciò entrare Rupert e il suo carretto a Lagissa. Città magnifica, Lagissa. La Spuma Marina. Eppure affollata come nessun'altra. Il comandante Altera ripassò mentalmente gli ordini: fermare i nuovi arrivati, controllare il permesso, perquisire e, soltanto allora, lasciarli proseguire. Le cose andavano così da quando Lagissa, scolpita negli Scogli dell’Alba sulla costa orientale del Reame Senza Corona, era passata da semplice punto di scalo portuale a meta dei commerci. Il Gran Mercato l'aveva trasformata in una città ricchissima. Ogni sabato, gli abitanti fuori dalle mura trasportavano coltivazioni e manufatti da vendere, e ogni sabato il comandante riprendeva la sua routine. Contadini, mercanti facoltosi, navigatori, saltimbanchi: tutti confluivano a Lagissa. Il conte Doon le aveva archiettate tutte per arraffare denaro. Chi desiderava vendere qualcosa doveva prima richiedere a lui un permesso firmato. Solo con il suo consenso – e le tasche parecchio alleggerite – aveva diritto a commerciare.

    Il dovere di Altera non si fermava alle perquisizioni. Di sera, tutte le locande erano stracolme. Chi partecipava al Gran Mercato si fermava per la notte e la mattina dopo, a sbornia smaltita, ripartiva. Guai a viaggiare col buio: l'avvertimento si era diffuso in fretta. Non che fosse proibito, ma il terrore della Nebbia Notturna era forte. Così i locandieri facevano affari d’oro, il conte Doon guadagnava parte dei profitti e il comandante e le sue pattuglie non chiudevano occhio.

    Altera sbuffò, lasciando vagare lo sguardo fino al limite del selciato. Ecco arrivare un altro carro. Fermo!

    Rupert e Jakob stavano percorrendo la strada maestra. Erano in fila dietro a una cinquantina di viandanti o poco più, ma il viaggio proseguiva tranquillo. Varcate le mura, la porta d’ingresso ormai un puntino lontano, il carrettiere svoltò in un vicolo sulla destra e tirò le redini.

    «Controlla che non ci veda nessuno, figliolo, o saranno frustate per tutti.»

    «Sì, padre.»

    Mentre il ragazzo scendeva per scrutare da dietro l'angolo, Rupert slacciò i nodi del telo. Sotto, nascosto tra frutta e verdura, c'era un uomo ben piazzato. Biondo, pelle chiara e sporca, barba trascurata. Tutto in lui dava l'idea di un mendicante, ma i suoi occhi avrebbero suggerito l'esatto opposto al primo che li avesse fissati più a lungo del necessario. Le sue labbra si spalancarono in un ghigno. «Grazie agli dèi non trasporti cipolle.»

    «Ah! Ringrazia i tuoi dèi che il comandante Altera non abbia perquisito il carro. Sei fortunato, nordico.»

    Il biondo toccò il suolo con gli stivali. Si perse per un attimo nei suoi pensieri, poi strinse la mano a Rupert. «Hanno detto di me molte cose, amico mio, ma mai che sono fortunato. Grazie per l’aiuto, comunque.»

    Rupert si scrollò le spalle. «Ho saldato il debito. Tu hai salvato Jakob, io ho aiutato te.»

    «È arrivato il momento di separarci, quindi. Piacere di avervi conosciuto.»

    «Che farai? Hai insistito tanto per entrare a Lagissa, ma... lo sai: i nordici non sono ben accetti da queste parti.»

    Rupert fulminò Jakob con lo sguardo. «Chiudi il becco, ragazzo. Non sono affaracci tuoi quello che deve combinare in città. Ringrazialo, piuttosto. Senza di lui, ora ci saresti tu nelle pance di quelle bestiacce, non la sua lama.»

    «Non essere duro con lui. È giovane e curioso: ottima combinazione. Per quanto riguarda la tua domanda, Jakob, devo incontrare un vecchio amico al porto. La sua nave attracca oggi. Addio!»

    Il nordico si lasciò il carretto alle spalle e si allontanò.

    «Chissà come si chiamava» mormorò Jakob.

    «Si chiamava datti una mossa e risali sul carretto» scandì bene Rupert.

    E così ripartitono, di nuovo sulla strada maestra, sempre più vicini al Gran Mercato e più lontano dalle fruste.

    Il nordico li osservò scomparire in mezzo agli altri carri, trainati da cavalli, asini e buoi.

    «Or anorier, Rupert e Jakob.»

    La città era in fermento. Gli abitanti affollavano la strada maestra. Meglio evitare quella bolgia proseguendo nell'ombra dei vicoli. Con un po' di fortuna avrebbe raggiunto il porto, o almeno così sperava. Era la prima volta che metteva piede a Lagissa. Rischio di perder la bussola! Ci rise su. Alquanto insolito per un nordico.

    La zona del Gran Mercato era affollatissima. Le persone sfrecciavano qua e là badando solo ai propri interessi. In quella confusione, preda di un caldo insopportabile, Jakob decise di imitare gli altri: mise le mani in avanti e spinse. Confidava in un po' d'aria almeno nel punto più vicino al molo, ma quando lo raggiunse si dimenticò dell'afa. Da una delle navi ormeggiate stavano sbarcando sette prigionieri, spinti in avanti da coltelli e remi spezzati.

    «Certo che potevi anche aspettarmi» lo sorprese alle spalle Rupert, ansimante dopo averlo raggiunto con il primo carico in spalla. «Almeno sei andato dalla parte giusta. Il nostro bancone è proprio questo.»

    Jakob non lo stava ascoltando. «Quelli chi sono?»

    «Uhm? Ti riferisci ai Senza Nome? Assassini, ladri, stupratori, disertori, ribelli. Ogni tre mesi, la Chimera attracca a Lagissa per fare rifornimento, e il conte Doon permette a quei miserabili di sbarcare. Un ultimo gesto di cortesia... per i loro ultimi giorni di libertà.»

    «E dove sono diretti?»

    Rupert sparpagliò le cianfrusaglie sul bancone. «A Porto Smeraldo, sicuro. È la strada più immediata per la Prigione del non ritorno

    «Per cosa?»

    «Il vero nome dell'isola è Zolkark. Un postaccio aspro, selvaggio. I suoi confini sono sorvegliati da veterani armati di lancia e spada, mica da marinai da due soldi» bofonchiò. In quel momento sembrava che i sorveglianti avessero occhi solo per una ragazza tutta spacchi e curve. Per fortuna i sette si limitavano a guadarsi intorno, massaggiandosi i polsi intorpiditi e allungando le gambe.

    «Comunque sta' alla larga dai guai, per una volta» ricominciò Rupert. «Quella è feccia della peggior specie, te lo dico io. Se lo meritano di finire a Zolkark.»

    «Perché non ucciderli subito, scusa?»

    «E cavarsela così facilmente? No. Ogni città del Reame Senza Corona deporta i più pericolosi a Zolkark. È così che vanno puniti. Quegli uomini meritano di soffrire.»

    Jakob li studiò cercando di non dare nell'occhio. Avevano tutti facce scavate, striate da solchi e bruciate dal sole. Persino adesso non avevano abbandonato le smorfie e i ghigni perfidi. Tranne uno: un mingherlino dagli occhi vispi e un pizzetto rossiccio. Si accorse di Jakob e lo salutò da lontano con un cenno del capo.

    Il ragazzo rivolse subito l'attenzione altrove. I prigionieri, intanto, si sedettero su un muretto non distante dalla bancarella.

    Rupert sbuffò. «Perfetto! Siamo così vicino a quelli là che, sta' pur certo, oggi non vedremo un cliente.»

    Nel frattempo la folla continuava a mercanteggiare. Era uno spettacolo al quale Jakob non era abituato. Baccano a parte, non gli dipiaceva. Nella fattoria era tutto così noioso e monotono. La frenesia di Lagissa lo attraeva. Prese una mela da un cesto e le diede un morso.

    «Ehi, non mangiare la nostra frutta! Sono da vendere, quelle, altrimenti che le ho portate a fare?»

    «Scusa» bofonchiò Jakob.

    Il nordico individuò il suo bersaglio. Sorrideva sempre, mantenendo intatto quel suo aspetto sicuro e rilassato. Doveva escogitare un piano perfetto, altrimenti sarebbe fuggito di nuovo. Erano mesi che seguiva le sue tracce. Finalmente eccolo lì. Sfilò il pugnale dalla cintura, le nocche sbiancarono attorno all’elsa. Inspirò l’aria salmastra di Lagissa

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