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La legione maledetta. L'invasione dei dannati
La legione maledetta. L'invasione dei dannati
La legione maledetta. L'invasione dei dannati
E-book502 pagine7 ore

La legione maledetta. L'invasione dei dannati

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Info su questo ebook

La città fantasma delle porte di ferro è stata liberata e Marco Cornelio Rubro è un soldato molto diverso da quello che era partito da Roma. Non vede l’ora di tornare a casa per annunciare la vittoria che finalmente riabiliterà il suo nome e la sua carriera. Una staffetta che porta la lieta novella lo precederà di qualche settimana. Ma il virus che aveva contagiato la città fantasma delle Porte di Ferro, trasformando i suoi abitanti in vampiri, viaggia con i suoi frumentari. E così, quando finalmente torna a Roma, Rubro trova la Capitale dell’Impero in mano all’orda che aveva fronteggiato in Dacia. E ancora una volta, a capo dei suoi tagliagole e reietti, dovrà levare il gladio in difesa di Roma. In quella che si preannuncia come la battaglia definitiva.

Roma è ormai una terra dimenticata dagli dei, abbandonata dai vivi, conquistata dai morti.

Hanno scritto della sua precedente saga:

«Roberto Genovesi è il maestro italiano del fantasy storico.»
Andrea Frediani

«Genovesi ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ha bisogno della dose quotidiana di adrenalina.»
Panorama
Roberto Genovesi
È giornalista professionista, scrittore, sceneggiatore e autore televisivo. Ha collaborato ai più importanti periodici e quotidiani italiani tra cui «L’Espresso», «Panorama», «TV Sorrisi e Canzoni», «la Repubblica». Considerato tra i maggiori esperti italiani di videogiochi, insegna Teoria e Tecnica dei linguaggi interattivi e cross-mediali in diverse università. Con Sergio Toppi ha realizzato le biografie a fumetti di Federico di Svevia, Carlo Magno, Archimede di Siracusa e Gengis Khan. Ha pubblicato i romanzi Inferi On Net e L’angelo di Mauthausen. Con la Newton Compton ha pubblicato La legione occulta dell’impero romano, Il comandante della legione occulta, Il ritorno della Legione occulta. Il re dei Giudei, La mano sinistra di Satana, Il Templare nero, La legione maledetta. Il generale dei dannati, La fortezza dei dannati e L'invasione dei dannati. I suoi romanzi sono pubblicati in Spagna da Editorial Bóveda e in Portogallo da Clube do Autor. Vigiles in Tenebris è la pagina Facebook dedicata alla Legio Occulta.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2018
ISBN9788854194410
La legione maledetta. L'invasione dei dannati

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    Anteprima del libro

    La legione maledetta. L'invasione dei dannati - Roberto Genovesi

    ATTO PRIMO

    Limes dacico, Fortezza legionaria di Alba Novae, 104 d.C.

    Marco Cornelio Rubro continuava a rigirare tra le dita il sesterzio di bronzo. Il volto di Traiano appariva e scompariva senza soluzione di continuità tra l’indice e il medio della mano destra giocando a rimpiattino con la figura femminile che, sulla faccia opposta, schiacciava col piede uno scudo e un elmo. Le nuove monete, coniate dall’imperatore solo l’anno prima per celebrare la vittoria sui daci, erano arrivate in numero cospicuo anche al fronte orientale. La settimana precedente il convoglio dei rifornimenti e delle paghe ne aveva scaricate diverse decine che si erano subito diffuse tra i legionari finendo sui tavoli da gioco e nelle tasche delle prostitute delle canabae. Il tribuno non esitava a credere che l’idea di far arrivare un segno tangibile della vittoria romana tra coloro che avevano contribuito personalmente al suo fausto esito fosse stata escogitata da Licinio Sura in persona. Il comandante della guardia pretoriana non era nuovo a trovate eclatanti di questo tipo che avevano lo scopo di rafforzare anche tra i vassalli di Roma l’idea che il potere dell’Urbe non fosse solo sostenuto dalle armi ma anche dai muscoli dell’economia. Un messaggio che passava quasi sotto silenzio dalle mani dei soldati a quelle di mercanti e puttane e si diffondeva sistematicamente in ogni villaggio, in ogni mercato, in ogni bettola, fino ai confini più estremi delle terre conquistate.

    «Non saprei cosa dirti, tribuno. Non conosco i sintomi del male di cui mi hai parlato ma una cosa è certa: a giudicare dalle continue ispezioni a cui hai voluto sottoporti da quando sei arrivato qui, qualunque cosa tu abbia avuto, adesso sembri completamente guarito».

    La voce calma, quasi impostata, dell’uomo che gli stava di fronte spinse Marco Cornelio ad alzare la testa. La moneta si fermò in bilico tra un dito e l’altro.

    Il tribuno era seduto sul lettino dell’infermeria della fortezza di Alba Novae. La più vicina alla città di Yog, dove aveva scelto di trascorrere l’inverno in attesa di tornare a Roma con l’arrivo della primavera. Nel frattempo i suoi frumentari stavano portando a Traiano la lieta novella che gli avrebbe consentito un’accoglienza trionfale. Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata, aveva trovato la città di Yog e l’aveva ricondotta sotto il dominio dell’Aquila. Anche se di quella fortezza nascosta nel cuore di un vulcano sopito era rimasta ormai solo cenere. Ma poco gli importava. Davvero. Si era lasciato alle spalle i cadaveri di molti degli irregolari che lo avevano seguito in Dacia in cambio di una promessa di libertà che si era rivelata per la gran parte di loro una chimera, ma aveva definitivamente sfatato il mito che lo aveva accompagnato da quando aveva perso un’intera coorte sulle rive del Danubio. Marco Cornelio detto il Rubro non era più il tribuno della malasorte ma l’ufficiale romano che, diversamente da tutti coloro che lo avevano preceduto, era riuscito a scovare sulle mappe la città fantasma che per molti mesi aveva fatto perdere le sue tracce e, soprattutto, le sue tasse. Yog, la città difesa dal vulcano, la fortezza nascosta nei cunicoli sotterranei della montagna, la tana di ribelli, sacerdoti invasati e schiavi affamati di carne umana, era stata riportata alla luce.

    Da quando aveva lasciato le sue rovine non erano più tornati una sola volta gli incubi ricorrenti che lo avevano torturato per anni, non c’era più stato bisogno dei ripetuti salassi che lo avevano tenuto in vita fin da quando era un ragazzino, aveva ripreso le forze, il colorito e la speranza che la sua vita dopotutto non fosse arrivata alla fine. Non riusciva a dare una spiegazione razionale a tutto questo ma la parte indolente della sua personalità gli diceva che gli conveniva accettarlo senza fare troppe storie.

    «Se vuoi un consiglio, dimentica tutto, riposati e poi tornatene a casa». Il medicus gli voltava le spalle. Teneva in mano un piattino in cui aveva distillato alcune gocce del suo sangue prelevato da una piccola ferita al pollice sinistro. Mentre parlava non smetteva di fissarlo. «Il colore, la densità, la capacità di rapprendersi sono nella norma». Si voltò mostrandogli il piattino prima di posarlo sul piccolo tavolo a treppiedi che stava accanto al lettino. «Anche il sapore non è diverso da quello del sangue degli altri soldati. Forse un po’ più dolce, ma non mi pare un sintomo di malattia».

    Marco Cornelio si guardò intorno sconfortato. L’arredamento dell’infermeria era piuttosto semplice. C’erano cassette per gli strumenti medici distribuite alla rinfusa, cassapanche su cui facevano bella mostra teli, bende e anfore piene di acqua e unguenti. Alcuni frictores, apparentemente disinteressati al discorso che si stava svolgendo nei pressi del lettino, stavano massaggiando un paio di legionari seminudi distesi a pancia sotto su stuoie di lino. Più lontani due curatores operis sembravano impegnati nell’inventario di una decina di ampolle piene di liquidi dal colore vago.

    «Ma io stavo morendo. Mentre adesso…». Il tribuno fece oscillare le gambe come un bambino nervoso. Indossava una corta tunica bianca mentre tutto ciò che aveva avuto indosso quando era entrato nell’ospedale da campo era ammonticchiato disordinatamente su una sedia. Marcellus, il suo silenzioso schiavo, teneva invece tra le braccia il suo mantello di pelliccia, l’elmo e la lorica anatomica di cuoio martellato che era riuscito a farsi confezionare su misura dal carpentario della fortezza. Dalla smorfia disegnata sul suo volto si trattava di un peso che stava diventando eccessivo.

    «Mi rendo conto», lo interruppe il medicus, «ma non posso fare altro che ribadire ciò che ti ho detto tutte le altre volte. Ti ho visitato a intervalli regolari e posso dire senza temere di sbagliare che il tuo fisico non soffre di alcuna malattia e semmai in passato ciò sia accaduto adesso non è più così». Il medicus lanciò un’occhiata apparentemente distratta allo schiavo e poi tornò sul tribuno. «L’esperienza di cui sei stato protagonista e che mi hai raccontato ti ha sicuramente provato. Se solo un decimo dei particolari che mi hai descritto fosse vero, avrebbe lasciato un segno dentro la testa di qualunque veterano armillato».

    «Vuoi dire che non mi credi? Pensi che mi sia inventato tutto?», il tribuno indicò Marcellus. «Domandalo al mio schiavo».

    Il medicus cercò di dissimulare una reazione annoiata. Aveva ascoltato quelle osservazioni così spesso. Ogni volta che era stato costretto a visitare il tribuno. Se si fosse trattato di un soldato della truppa lo avrebbe rimandato a calci nella sua baracca già dalla seconda visita. Ma un ufficiale di rango, anche se senza incarico operativo, non poteva essere trattato con sufficienza. «Conosco la storia a memoria, tribuno. Ribelli nascosti nel sottosuolo, cacciati come prede da mangiatori di carne umana tenuti al guinzaglio da uomini dalle bocche cucite, sacerdoti evocatori di divinità vendicative, esseri spettrali che emergono dalle viscere della terra. Non stento a credere che nel ricordo distorto della tua esperienza qualcosa di terribile sia davvero accaduto. Riesco a riconoscere i pochi superstiti che sono arrivati con te alla fortezza da come si comportano in pubblico. Alle volte li vedo fermi, in mezzo alla folla, davanti ai loro alloggi o nella taverna con lo sguardo vacuo, perso nel vuoto, immobili come statue. Rispetto a loro devi considerarti fortunato. La tua immaginazione ti ha aiutato a sostenere il trauma. Adesso devi solo aspettare che il tempo ti faccia dimenticare definitivamente gli incubi. È ciò che dico sempre alle decine, centinaia di sopravvissuti alla battaglia che hanno varcato negli ultimi mesi la porta di questo ospedale. Non c’è altro da fare».

    Marco Cornelio scosse la testa e sorrise con un accenno di sarcasmo. «Incubi. Tu credi che si sia trattato solo di incubi». Saltò giù dal lettino e gettò la moneta sulla coperta. Si mise a rovistare tra i vestiti cominciando a indossarli in fretta. «Sarei dovuto morire. Era inevitabile. Poi sono stato morso e ora sembro guarito. Come è potuto accadere? Perché agli altri non è successo? Perché nessuno sa darmi una risposta?»

    «Marco», ribatté il medico dopo aver gettato il piattino sporco di sangue in un secchio, «in questo momento non parlo né all’ufficiale e né al paziente ma all’ospite di questo presidio. Io sono un medico e ho l’obbligo di ascoltare chiunque varchi la soglia della mia infermeria. Ma arriva un certo punto in cui ho l’obbligo di informare chi ho di fronte che per il suo problema, salvo che non si tratti di una ferita infetta o di una frattura che non vuole ricomporsi, non si può più fare nulla. Ma non tutti possono avere la pazienza di un medico».

    «Non c’è bisogno di usare troppi giri di parole. Lo so benissimo che in questo posto sono solo sopportato. Soltanto il mio rango impedisce al comandante della fortezza di mettermi alla porta. E…». Si interruppe. Si voltò e si accorse che il medicus aveva ripreso la sua normale attività. Per lui la visita era terminata. L’attenzione definitivamente distolta. Il discorso, chiuso.

    «Hai ragione. È inutile che torni di nuovo qui», aggiunse Marco Cornelio quando arrivò il momento di infilarsi l’armatura. Marcellus lo aiutò con i legacci di cuoio.

    Il tribuno indossò l’elmo dal pennacchio rosso e si strinse nel mantello di pelliccia. Si fermò davanti alla porta dell’infermeria. «Nessuno potrà mai capire cosa sia successo davvero a Yog. Nemmeno io. Ho commesso l’errore di credere che qualcuno fosse in grado di aiutarmi a comprendere», concluse prima di uscire seguito dal suo schiavo.

    Fuori dall’ospedale da campo della fortezza legionaria l’aria era frizzante. Il sole, splendente in un cielo azzurro e terso accarezzava le ultime tracce di neve sulle lontane vette che circondavano la vallata. L’inverno se ne stava finalmente andando e presto il tribuno avrebbe lasciato l’avamposto per tornare a casa.

    Marco Cornelio si guardò attorno. Un lupo, accucciato all’ombra di una botte, lo fissava intensamente aspettandosi un comando. Pugio, il cucciolo che Ganna gli aveva lasciato in pegno, era cresciuto molto da quando Marco Cornelio aveva abbandonato le rovine di Yog. In pochi mesi si era trasformato in un giovane lupo, anche se l’esperienza vissuta al fianco dell’ufficiale romano gli aveva lasciato addosso cicatrici indelebili. Zoppicava e aveva perso una delle due zanne. La parte sinistra del muso, dove non cresceva più il pelo, era percorsa da una lunga, profonda e irregolare cicatrice che finiva dove la mascella scarnificata metteva a nudo la gengiva scura disegnando un ringhio permanente. Segni di cruente battaglie a cui il predatore si era ormai abituato e che non sembravano influire sulla sua perenne vitalità.

    Marco Cornelio si chinò lasciando che il mantello di pelliccia che indossava spazzasse il terreno. Pugio riconobbe in quel gesto l’invito del suo padrone e si alzò. Lentamente, a fatica, come gli accadeva sempre. Ma raggiunse lo stesso l’ufficiale che gli accarezzò il muso in mezzo alle orecchie, proprio su quella macchia bianca a forma di punta di spada che era stata causa del suo nome.

    Dopo un lungo periodo di lontananze e diffidenza l’uomo e l’animale stavano cominciando a comprendersi. Non si poteva dire che fossero diventati amici e Marco Cornelio non poteva sperare che un lupo abituato alla macchia avesse gli stessi comportamenti di un cane ma da quando Ganna aveva deciso di abbandonare il gruppo e di tornare nelle sue terre, Pugio stranamente non aveva voluto seguirla. Ogni sera, quando l’ufficiale romano faceva la sua solita passeggiata sulle mura della fortezza, il lupo lo accompagnava in silenzio fino a quando non arrivava alla porta decumana e lì si fermava, si sedeva sulle zampe posteriori e aspettava. Sicuro che prima o poi qualcuno l’avrebbe aperta per lasciarli uscire.

    Marco Cornelio gli aveva dato un nome e, come aveva profetizzato quella sacerdotessa muta, quel gesto aveva fatto di lui il padrone di un lupo.

    «È per stasera?», chiese distrattamente il tribuno rialzandosi.

    «Già», rispose Marcellus con tono divertito. «Sono tutti alle prove».

    Marco Cornelio scosse il capo. «Una pessima idea».

    «Ti sbagli, mio signore. Questi soldati vivono su queste montagne ostili da mesi, qualcuno da più di un anno e hanno dimenticato perfino come sia fatto un calidarium. Offrire loro una distrazione non può essere considerata una pessima idea».

    «Non mi riferivo allo spettacolo ma all’intenzione di aprire le porte della fortezza agli alleati indigeni».

    «Il convegno con le tribù che ci garantiscono il controllo del limes era previsto da tempo, lo sai bene. Quale migliore occasione per addolcire i loro temperamenti irosi?»

    «I sarmati non sono irosi. Sono traditori. La loro parola non vale un sesterzio. E lo hanno dimostrato solo pochi mesi fa. Io non permetterei mai che mettessero piede in un castrum legionario. Figuriamoci concedergli una sosta di tre giorni».

    «Sono partiti da molto lontano. Viaggeranno per giorni. È logico che abbiano chiesto e ottenuto di poter riposare prima di tornarsene a casa».

    «Io li avrei fatti accampare fuori le mura».

    Marcellus sorrise. «Rilassati, mio signore. Non siamo più a Yog. Quella storia, grazie agli dèi, è finita. È la serata di Olios, non roviniamola».

    Il tribuno sospirò. «Probabilmente hai ragione. E la cosa mi comincia a preoccupare perché accade troppo spesso».

    Lo schiavo annuì mantenendo il buonumore. «Tu mi lusinghi, mio signore».

    Olios era riuscito a convincere il comandante della fortezza ad allestire uno spettacolo teatrale in onore dei mercenari che venivano a rendere omaggio all’aquila di Roma in segno di rispetto e di buon vicinato. In base agli accordi stipulati alla fine della campagna condotta da Traiano in persona erano state affidate loro ampie zone di confine dove difficilmente le truppe legionarie avrebbero potuto spingersi senza ampio dispendio di mezzi e uomini. Roma non poteva permettersi di sguarnire le fortezze di guardia a presidio delle vie principali. Il lavoro sporco nei boschi, sui sentieri montani e nelle paludi andava fatto da qualcun altro.

    Una mezza dozzina di immunes aveva costruito un teatro di fortuna nell’area aperta vicino alle stalle e Olios aveva convinto Dafnia a interpretare la parte della protagonista femminile. La giovane prostituta si muoveva ancora in modo macchinoso ma i postumi dello stupro collettivo di cui era stata protagonista alle porte di Yog cominciavano finalmente a lasciarla in pace. La sua straripante bellezza aveva preso a calci e gomitate le ferite ed era tornata a risplendere sui suoi lineamenti al punto da mietere cuori spezzati tra le fila di gran parte della guarnigione della fortezza romana. Olios si era rinchiuso con lei nelle stalle per notti intere, lontano da occhi indiscreti, per provare e riprovare.

    «Verrà anche Colz?», chiese a un tratto Marco Cornelio.

    «No, lei non è un tipo a cui piacciano certi divertimenti e da quando siamo arrivati credo che il suo unico obiettivo sia quello di trovare una sistemazione alla sua gente. Anche se penso che in cuor suo continui ad accarezzare l’idea di tornare nella sua città quando verrà ricostruita».

    Marco Cornelio annuì assorto in mille pensieri. Colz, l’unica sacerdotessa superstite di Yog, la schiava di Zalmoxin, il dio rivale di Gebeleizis, era tanto affascinante quanto silenziosa. Nonostante lo sguardo aperto e solare era parsa fin da subito impenetrabile. Aveva condotto la sua gente fuori dai cunicoli della città in fiamme e ne aveva curato personalmente l’accoglienza nel villaggio che circondava Alba Novae. Ogni tanto spariva e si ripresentava solo dopo giorni e giorni di silenzio. Il tribuno era convinto che tornasse alle rovine, probabilmente per assicurarsi che non vi fosse ancora qualcuno da salvare. Aveva costruito un piccolo tempio all’aperto dedicato al suo dio e vi passava gran parte del tempo in meditazione.

    Marco Cornelio si rendeva conto che tutti coloro che erano riusciti a sfuggire alla morte si erano ritagliati un nuovo spazio personale attraverso il quale provare a dimenticare. Ma non era facile. Certe cose non si potevano dimenticare. Anche se facevano ormai parte di un passato che non poteva più tornare.

    Il suo schiavo lo fissava insistentemente. «Che ti prende adesso? Ancora quelle visioni?».

    Il tribuno si strinse nelle spalle. «Niente affatto. Sono sparite. Improvvisamente. Da quando ho capito di non aver più bisogno delle sanguisughe. Da quando abbiamo lasciato Yog».

    «Se vuoi custodire un segreto non puoi lamentartene. Altrimenti non è più un segreto ma una maledizione».

    «Smettila di essere così saggio. Finisci per diventare irritante».

    «Oggi mangerai?», cambiò discorso Marcellus. «Sono due giorni che non ti presenti alla mensa degli ufficiali. Ormai è chiaro che non sopportano più la nostra presenza. Evitandoli non gli farai cambiare opinione».

    Marco Cornelio si voltò a guardare il suo schiavo. Sollevò un sopracciglio. «Può darsi», disse sommessamente. «Quali sono i tuoi pensieri a tale proposito?»

    «Purtroppo il cuoco della fortezza è ancora vivo». Marcellus soffocò una risata. «Se fossi uno schiavo premuroso oltre che saggio dovrei sconsigliartelo».

    Limes dacico, territori neutrali, 104 d.C.

    Aveva girato intorno alla montagna almeno tre volte. Sprecando gran parte della finestra di luce della giornata. Come ormai faceva da giorni. Forse da settimane. Ma senza mai trovare il coraggio di entrare.

    Negli ultimi quattro mesi, nonostante il clima inclemente degli inverni della Dacia, i romani avevano ricostruito la fortezza di Yog che Marco Cornelio Rubro aveva strappato agli insorti. In realtà si erano limitati a rimettere in sesto la struttura esterna, per quel tanto che serviva: a controllare tutte le vie di passaggio dal fronte alle retrovie. Nel suo rapporto il tribuno che un tempo era stato suo nemico si era guardato bene dallo scendere nel dettaglio. E i suoi commilitoni, sopraggiunti per ripiantare l’aquila si erano fermati senza particolare curiosità di fronte ai numerosi crolli che avevano ostruito ogni strada che conducesse al sottosuolo.

    Ganna aveva provato a entrare dalla porta principale. Ma le guardie non l’avevano fatta passare. E senza un documento adeguato per le mani difficilmente avrebbero cambiato idea nel caso che ci avesse riprovato. Ma quei soldati non conoscevano tutta la storia.

    Ogni strada poteva voler dire anche non tutte le strade.

    Ganna stava ferma davanti alla fessura di roccia che nascondeva il sentiero. L’unica via che portava nelle viscere della città di Yog. La sacerdotessa era stata più volte sul punto di entrare ma alla fine non ne aveva mai avuto il coraggio. Pugio l’avrebbe certamente spinta a farlo ma il lupo strappato alla morte era rimasto con il suo nemico. L’aveva spinto a sceglierlo come suo nuovo padrone e sapeva di aver fatto la cosa più giusta ma quell’animale claudicante che la guardava sempre con occhi luminosi le mancava perché era l’unico essere vivente che avesse più coraggio di lei.

    Ganna sospirò. Guardò in alto. La roccia si inerpicava verso il cielo terso fin quasi a toccare le poche nuvole bianche che sonnecchiavano alla corte del sole. Di fronte a quello spettacolo maestoso e rassicurante pochi avrebbero potuto immaginare cosa si nascondesse dall’altra parte. Ma Ganna lo sapeva benissimo. Per questo esitava ogni volta prima di girarsi e scappare nella foresta.

    Il vecchio dalla lunga barba bianca era da diverso tempo fermo al suo fianco. Silenzioso. Quasi distante. E lei se ne era accorta.

    «Per quanto altro tempo credi di poter fuggire?».

    La donna si voltò a guardarlo. Il vecchio fissava la ferita nella roccia.

    «Non c’è più motivo di fuggire. Ormai non più».

    «Perché non ti decidi?»

    «Perché non è la mia terra, non è la mia città. E poi ormai è tutto finito».

    «Allora che aspetti? Vattene. Torna finalmente nella terra che ti ha scacciato e reclama i tuoi diritti. Oppure… entra».

    «La devastazione non mi appassiona. La conosco fin troppo bene. E so che bisogna starne lontani».

    «Eppure torni ogni giorno».

    Ganna abbassò lo sguardo. Colpevole. «Hai ragione. Dovrei tornare a casa. Se avessi una casa dove tornare».

    «E se ti sbagliassi?»

    «Impossibile. Li ho visti con i miei occhi. Sono tutti morti».

    «Una certezza che dovrebbe spingerti ad allontanarti da questo posto mentre invece…».

    «Stai zitto. Tu non esisti».

    Il vecchio rise. «Già. Come questa città».

    «Un vero dio non perderebbe il suo tempo a parlare con una mortale come me. A meno che non si tratti di un’allucinazione».

    «Può darsi. Ma le allucinazioni di solito non hanno molta voglia di conversare. E di ridare la parola ai muti».

    Ganna spazzò l’aria con un gesto perentorio del braccio. «Taci».

    «Se tornerai indietro anche oggi, io continuerò a darti il tormento. Ogni giorno. Ogni volta». Poi indicò la montagna. «Diversamente…».

    «Diversamente mi lasceresti in pace?»

    «Non amo invadere territori altrui».

    «Da come ti sei comportato fino a oggi non si direbbe».

    «Non ti conviene tentare di decifrare le intenzioni di un dio. Potresti ricavarne amare sorprese».

    «O perderci la lingua».

    Il vecchio ridacchiò. «Faccio solo ciò che serve. La mia causa è diversa dalla tua per gran parte del suo cammino».

    «E adesso che vuoi?»

    «Farti solo una domanda».

    Ganna sospirò e attese.

    «Tu credi davvero che sia tutto finito?».

    Ganna si passò una mano sulla testa glabra. Era umida di sudore. Nonostante l’inverno. Nonostante tutto. «Possibile che un dio non conosca la risposta? Ma se sei solo frutto della mia mente dovresti conoscerla».

    «Infatti io conosco la risposta. Voglio sapere se la conosci anche tu».

    La sacerdotessa si voltò a guardare la foresta. Il sole si sarebbe presto tuffato in mezzo a quegli alberi fitti per farsi inghiottire dai loro rami deformi. Poi tornò a osservare la montagna. E la sua antica ferita.

    «Sparisci», disse. Consapevole di non poter ordinare qualcosa a chi non esiste. «Non sarà uno spettro a obbligarmi a fare ciò che non voglio».

    «Certo», le rispose una voce lontana che andava scemando. «Ci riuscirà benissimo il tuo rimorso».

    Urbe, provincia italica, 104 d.C.

    Quinto Massimo Gallico fu il primo a entrare nella taverna. Volle essere il primo nonostante la procedura prevedesse che il capo della polizia urbana fosse preceduto dai vigiles che avevano giurisdizione esclusiva sulle notti di Roma. Il senatore Gallico era diventato prefetto urbano solo da qualche settimana ma la spavalderia che lo aveva accompagnato per tanti anni sui campi di battaglia prima e sugli scranni della politica dopo, non accennava ad abbandonarlo nonostante l’incipiente calvizie lo avvertisse che l’età stava prendendo il sopravvento sul furore. Dal rapporto che aveva letto prima di lasciare in piena notte la caserma degli urbaniciani, aveva capito che non si sarebbe trovato di fronte a una normale scena del delitto. Una sensazione che trovò conferma non appena ebbe varcato la soglia della taverna. La porta era stata letteralmente strappata dai cardini e scaraventata in mezzo alla strada dove giaceva in pezzi alla mercé della pioggia battente. Nel locale tutte le fiaccole erano ancora accese e, guardandosi intorno, il capo della polizia di Roma si rese conto che le loro fiamme grasse erano tutto ciò che ancora riusciva a muoversi. Tutto il resto aveva banchettato con la morte.

    All’inizio credette che il ronzio insistente che lo aveva accolto fosse il loro sfrigolio ma gli bastò guardarsi intorno per comprendere che si sbagliava.

    Mosche. Decine di mosche. Aveva imparato presto che non faticavano mai a precedere i suoi uomini in situazioni del genere.

    Si fece largo agitando le braccia.

    I corpi di numerosi avventori giacevano in terra, tra le gambe dei pochi tavoli ancora miracolosamente in piedi. Nella maggior parte dei casi privi di arti o senza testa. Gli altri, o ciò che ne restava, erano stati scaraventati con forza sulle pareti lasciando come marchio sagome di sangue seccato. Era come se qualcuno avesse sacrificato un toro a Mitra per poi gettarne il sangue a secchiate ovunque. Perfino sul soffitto. Dove un cadavere dai connotati indecifrabili continuava ancora a oscillare lentamente aggrappato a una corona di ganci per fiaccole. Nemmeno passando in rassegna i morti sul campo di battaglia aveva mai visto uno spettacolo simile.

    Avanzò lentamente, trattenendo il respiro. E per poco non cadde, inciampando in una testa che scalciò casualmente mandandola a rotolare lontano. Alle sue spalle uno dei suoi uomini vomitò rumorosamente, rimproverato dai compagni.

    Gallico imprecò sommessamente. Si portò una mano alla bocca proprio nel momento in cui una figura dai tratti stravolti gli veniva incontro emergendo dal groviglio di corpi squartati. Il prefetto riconobbe la più giovane delle sue reclute. E si ricordò di tutte le schifezze che era stato costretto a fare e a vedere alla sua età appena entrato nell’esercito.

    «Cosa ha scatenato la rissa?», chiese stringendo le palpebre. Era un uomo alto e magro, dal volto allungato dominato da due grandi occhi del colore del ghiaccio. Sul suo sguardo imperturbabile aveva costruito una carriera di soldato e politico irreprensibile. E con il tempo aveva imparato a dominare l’impercettibile tremolio delle palpebre che si scatenava ogni volta che era teso o nervoso. Stavolta si rese conto che la recluta se ne era accorta.

    «Non c’è stata alcuna rissa, signore», rispose il giovane vigile con voce tremante. Balbettava. Martoriando con la mano sudata il pomo del gladio.

    Gallico si lasciò sfuggire una smorfia. Gli uomini della coorte urbana erano abilitati a portare armi all’interno delle mura dell’Urbe. Gli unici, per la legge. Ma il loro nuovo comandante aveva deciso di muoversi disarmato. L’unico luogo adatto a un gladio, diceva sempre, è il campo di battaglia. Come il letto per una bella donna.

    «Pretoriani ubriachi in libera uscita?».

    La recluta non sembrava in grado di cogliere la battuta. Scosse il capo. «È stato uno solo».

    Il prefetto urbano si guardò attorno. In pochi attimi riuscì a contare una dozzina di corpi o di resti di corpi. «Uno… solo?», ripeté incredulo. «Impossibile. Nemmeno all’assedio di Masada ho visto uno spettacolo simile».

    La recluta non rispose. Si limitò a indicare un punto lontano. In mezzo alle schegge di legno e ai brandelli di carne. Dove una figura esile e minuta era accartocciata in un angolo con la testa nascosta tra le mani. Sussultava a tratti. Dunque respirava ancora.

    Gallico lanciò un’ultima occhiata interrogativa al suo interlocutore, si fece strada tra i corpi e la raggiunse. Poteva essere un ragazzo. Forse un garzone della taverna.

    La figura accartocciata si accorse della sua presenza e liberò lentamente la testa dall’abbraccio delle gambe ritratte. Il prefetto urbano pensò all’inizio di trovarsi di fronte uno schiavo numida. Ma poi capì che il colorito scuro di quel volto non era questione di etnia. Era come se quel ragazzo avesse immerso la faccia nel ventre squartato di un agnello sacrificale. Il sangue si era seccato tra le pieghe del volto formando una maschera solida di resti umani. Che celavano i tratti di una ragazzina di non più di undici o dodici anni.

    «Come ti chiami?», sussurrò Gallico chinandosi in modo da portare il suo sguardo all’altezza della sua interlocutrice.

    «Ga... Maia», esitò la ragazza.

    «E che ci fai in un posto come questo, Maia?».

    La ragazza parve sorpresa dalla domanda. Poi allungò un braccio verso la testa in cui il prefetto era inciampato quando era entrato. Un braccio esile fatto di sola pelle avvinghiata alle ossa. «Sua… figlia», disse.

    Il capo della polizia urbana guardò la testa. I filamenti nervosi che gocciolavano dal collo dimostravano che non era stata tagliata di netto da una lama. Era stata strappata dal collo. Con forza.

    La recluta si era fermata alle sue spalle. Mentre i suoi uomini avevano cominciato a vagare per il locale per raccogliere indizi. Gallico si limitò a sollevare la testa.

    «È la figlia del taverniere», gli rispose il giovane vigile.

    Gallico annuì. La ragazza non era ferita. Solo letteralmente terrorizzata.

    «Sei in grado di raccontarmi cosa è successo?».

    Maia deglutì e stirò le labbra per il dolore. Alcune croste di sangue si staccarono dal mento finendo tra le pieghe della veste che le lasciava scoperte due gambe corte e nodose. «Non so cosa sia successo», disse scuotendo a fatica il capo. I capelli impastati di umori umani emisero un sinistro crepitio. «Ma… ma posso raccontarti quello che ho visto».

    «Ti ascolto», le rispose con l’accondiscendenza del mestiere il prefetto.

    «Prima… prima potrei avere una coperta? Ho tanto freddo».

    Gallico annuì e rabbrividì anch’egli. Nonostante tutti quei corpi ancora caldi quel posto era gelido. Ma la cosa più sorprendente era che, nonostante lo scempio, chiunque ne fosse stato protagonista, aveva accuratamente evitato di far spegnere le torce.

    Limes dacico, Fortezza legionaria di Alba Novae, 104 d.C.

    La rappresentanza sarmatica era arrivata alla fortezza di Alba Novae all’approssimarsi del tramonto. Più numerosa di quanto Marco Cornelio non si fosse aspettato da una delegazione diplomatica. Più di un centinaio di uomini vestiti in abiti da cerimonia e armati con lame e asce che recavano sulle impugnature e sul ferro le incisioni sacre delle rispettive tribù. Molti di loro portavano i capelli raccolti sulla nuca in voluminose crocchie e ostentavano lunghe barbe apparentemente incolte che scendevano sul torace per nascondere le fibule d’oro che sostenevano voluminosi mantelli dai colori sgargianti. Figure imponenti dalla pelle generalmente chiara che ostentavano movenze compassate che pochi avrebbero messo in relazione con le masse informi di carne tatuata che si gettavano a corpo morto in battaglia. Nessuno osò chiedere loro di abbandonare le spade e le lance fuori dalla fortezza anche se il tribuno si sentiva a disagio nel vedere tutto quell’armamentario che varcava il perimetro del castrum. Nella circostanza si trattava di una visita in pace ma quelle armi lustrate a specchio per l’occasione solo un anno prima si erano macchiate del sangue di numerosi soldati romani. E solo la preponderante forza delle legioni di Traiano aveva impedito che mietessero ancora vittime. La pace, ma in verità si era trattato di una tregua di convenienza, aveva tracciato un nuovo limes lungo le sponde occidentali del Danubio, guardato a vista da numerose fortificazioni distribuite in punti strategici a ridosso di sconfinate alture popolate solo da rocce informi e animali selvatici dove i villaggi daci dissimulavano sapientemente la loro presenza. Le tribù che avevano firmato la pace, avevano dovuto anche accettare a denti stretti un pesante pegno in termini di ricchezze, uomini e derrate alimentari. Avevano dovuto consentire alle legioni romane di arrivare a ridosso della capitale Sarmizegetusa con la conseguente riconsegna di tutte le macchine da guerra e dei disertori. Roma sapeva benissimo che quella pace si reggeva su un equilibrio precario che prima o poi avrebbe avuto bisogno di un’altra conferma armata e di altri confini più sicuri. Alle guarnigioni romane arrivavano sempre più insistenti le voci che Decebalo aveva ricominciato a costruire fortezze ed era tornato ad accogliere disertori tra gli ausiliari. Inoltre i frumentari inviati in territorio nemico avevano notato strani movimenti di truppe mai viste prima, armate di lance lunghe e protette da armature pesanti che avevano sconfinato nei territori daci provenendo da oriente senza incontrare ostacoli. Il re dei daci aveva cominciato a dialogare con i Parti e non era affatto una buona notizia per gli equilibri della regione. Per questo Marco Cornelio riteneva perlomeno sconveniente la confidenza con la quale gli ex nemici erano stati accolti ad Alba Novae. Aspettare l’alba di una nuova guerra spalla a spalla con i potenziali avversari non poteva essere cosa buona. Un tributo rischiosissimo da pagare alla pantomima della diplomazia.

    La platea era stata divisa in due ali. A destra i romani e a sinistra gli ufficiali di più alto rango degli ospiti. Guardati discretamente da un paio di file di ausiliari per una scelta che il tribuno trovava ridicola visto che si trattava di fratelli che avevano deciso solo per opportunismo di unirsi ai vincitori. Gli sguardi si incrociavano in continuazione. Qualcuno riconosceva i volti che aveva fronteggiato in battaglia, che aveva visto uccidere i propri commilitoni. E Marco Cornelio sapeva che non si trattava di una sensazione piacevole. Se poi pensava al fatto che quella sfida di occhiate sarebbe durata almeno due albe e due tramonti per la deprecabile intenzione del comandante della fortezza di ospitare la delegazione all’interno delle mura amiche, il sangue gli saliva alla testa.

    Molti soldati indigeni erano rimasti in piedi. Alcuni si erano fermati vicino ai portali. La stessa diffidenza dei romani disegnata sui lineamenti. Marco Cornelio non si sentiva affatto tranquillo con tutti quei nemici in mezzo alle gambe. Non credeva per niente ai trattati di pace. Alle parole, alle strette di mano e alle promesse. La pax romana si sosteneva da sempre sul gladio. Perché non aveva mai conosciuto uomo che amasse essere sottomesso. Ma sapeva che le regole della diplomazia e della clemenza di Roma guardavano oltre gli orizzonti dei sentimenti umani. Era accaduto già molte volte poiché l’unico modo per portare la pace era attraverso la guerra.

    Fosse stato per lui, avrebbe comunque fatto a meno di assistere a quella messinscena. Se ne sarebbe stato più volentieri a contemplare la notte dall’alto di uno dei camminamenti della fortezza in compagnia del suo lupo. Come faceva ogni notte. Da quando era arrivato a Alba Novae. Scrutando le macchie di neve sulle montagne lontane. Che si facevano più piccole e meno iridescenti di giorno in giorno. Fino a quando sarebbero scomparse, dandogli il segnale che era giunto finalmente il tempo di partire. Per tornare a Roma, a raccogliere il giusto tributo.

    Pugio era stato più fortunato. Il predatore se ne stava accucciato sul gradino più alto della scala di legno che portava alla più vicina torre di guardia. E se lo guardava sornione da lontano. Senza mai perderlo di vista. Gli occhi come due piccole gemme nel buio interrotto a chiazze irregolari dalle fiaccole delle guardie in movimento.

    Eppure il tribuno si era seduto in prima fila. In verità era stato Marcellus, il suo schiavo, a obbligarlo. E per l’occasione aveva vestito i suoi più eleganti paludamenti civili.

    Aveva rimuginato sulle possibili scuse che avrebbe potuto addurre per alzarsi all’improvviso e defilarsi. Ma per quanto si fosse sforzato non gli era venuto ancora in mente nulla di credibile. Ogni tanto faceva vagare artatamente lo sguardo alla sua sinistra. Ricambiato da occhiate fredde e sorrisi di circostanza. Arricciò il naso. I daci avevano indossato certamente i loro abiti migliori ma prima avevano dimenticato di lavarsi. Soffocò un sorriso mettendosi la mano davanti alla bocca. Forse era per questo motivo che raramente erano riusciti a tendere delle imboscate ai suoi commilitoni.

    Il teatro era stato costruito nel mezzo della piazza d’arme su una lunga pedana rettangolare sormontata da un arco dal quale scendeva un sipario di fortuna fatto di tanti vecchi mantelli legionari cuciti tra loro. Brandelli ancora macchiati dei vecchi umori di battaglie lontane. Ai lati del palco due file di scudi facevano da quinte. Un accostamento che il tribuno aveva trovato subito fuori luogo. Ma il tempo delle elucubrazioni terminò.

    Lo spettacolo ebbe inizio improvvisamente. Senza alcuna presentazione.

    Alcuni schiavi nascosti ritrassero il sipario ai lati del palco tramite un sapiente gioco di corde. E la sagoma di Olios apparve al centro della scena accompagnata da alcune salve di cornicem. Suoni di guerra che precedevano la poesia.

    La voce di Olios si levò nell’aria tersa della sera, limpida, sicura. Come Marco Cornelio non l’aveva mai sentita. Il tribuno non badò a quello che il nano diceva. Gli parve di cogliere riferimenti ad antiche divinità e a gesta eroiche. Non era molto ferrato in materia. Forse era la seconda o la terza volta che assisteva a un evento teatrale. In tutta la sua vita. Il tribuno si soffermò piuttosto sui movimenti armoniosi che quel piccolo corpo pronunciava per assecondare le parole. Così diversi e sicuri da quelli tesi e nervosi che Olios aveva usato durante la battaglia sotterranea contro i redivivi, che aveva permesso a centinaia di persone di sfuggire alla morte. Il nano parlava di eroi ma Marco Cornelio sapeva che il vero eroe su quel palco era quel piccolo uomo al fianco del quale aveva avuto l’onore di combattere. Anche se non glielo avrebbe mai confessato nemmeno sotto tortura.

    E finalmente apparve lei. Le cicatrici sul volto, il passo lievemente claudicante. Il braccio sinistro scosso a tratti da un disarticolato tremito. Il capo reclinato di trequarti in un moto di paresi che il medicus della fortezza aveva assicurato sarebbe scomparso in poche settimane.

    Eppure.

    Nonostante tutto questo.

    Dafnia.

    Era bellissima.

    E tutto il pubblico se ne accorse.

    Il brusio che aveva accompagnato i versi di Olios, improvvisamente, tacque alla sua vista.

    Dafnia aveva il capo coperto da una stola rossa ricamata che le scendeva sulle spalle intrecciandosi con i capelli. I lineamenti accentuati da pigmenti color porpora e oro distribuiti con le dita che simulavano un pianto dirotto. Indossava una lunga veste che le scendeva fino a coprire i piedi nudi. Ad eccezione di qualche disegno floreale imbastito nel lino era completamente trasparente. E sotto a quella veste la ragazza non indossava nulla.

    La sua voce partì stentata. Rauca. A tratti le parole si confondevano, si accavallavano. Ma nessuno ci fece troppo caso. Quel suono diffondeva onde di erotismo intenso. Le onde di un mare cristallino

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