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Il Dio indifferente: Il primo racconto del Testimone
Il Dio indifferente: Il primo racconto del Testimone
Il Dio indifferente: Il primo racconto del Testimone
E-book802 pagine11 ore

Il Dio indifferente: Il primo racconto del Testimone

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Info su questo ebook

Sono passati molti anni da quando tre guerrieri Teblor hanno portato il caos e lo sterminio a Lago d’Argento.
Ora le tribù del nord non si avventurano più  nelle terre del sud. La città si è ripresa  e tuttavia l’eredità del passato persiste.
In effetti, uno dei tre, Karsa Orlong, è ora venerato come un dio, benché non si curi delle sorti dei suoi fedeli.
Inoltre, sono emerse diverse nuove religioni nel mondo dei Malazan. Numerosi sono gli adoratori di Coltaine, il Signore dalle Ali Nere, mentre il culto di Iskar Jarak, Guardiano dei Morti, è popolare tra i soldati dell’Impero.
In risposta alle notizie di una crescente agitazione tra le tribù oltre il confine, una legione di fanti di marina Malazan marcia verso Lago d’Argento. Non sono del tutto sicuri riguardo a ciò che li attende. Mentre l’esercito Malazan si è evoluto e loro stessi non sono più i fanti di marina di un tempo, qualcosa non è cambiato: si occuperanno di qualunque sfida
si troveranno ad affrontare.
O moriranno provandoci...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita26 gen 2022
ISBN9788834436394
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    Anteprima del libro

    Il Dio indifferente - Steven Erikson

    INDICE

    Ringraziamenti

    MAPPA

    DRAMATIS PERSONAE

    PROLOGO

    LIBRO PRIMO

    CAPITOLO UNO

    CAPITOLO DUE

    CAPITOLO TRE

    CAPITOLO QUATTRO

    CAPITOLO CINQUE

    CAPITOLO SEI

    LIBRO SECONDO

    CAPITOLO SETTE

    CAPITOLO OTTO

    CAPITOLO NOVE

    CAPITOLO DIECI

    CAPITOLO UNDICI

    CAPITOLO DODICI

    LIBRO TERZO

    CAPITOLO TREDICI

    CAPITOLO QUATTORDICI

    CAPITOLO QUINDICI

    CAPITOLO SEDICI

    CAPITOLO DICIASSETTE

    CAPITOLO DICIOTTO

    CAPITOLO DICIANNOVE

    CAPITOLO VENTI

    CAPITOLO VENTUNO

    CAPITOLO VENTIDUE

    CAPITOLO VENTITRÉ

    CAPITOLO VENTIQUATTRO

    EPILOGO

    Ringraziamenti

    Un grazie di cuore al Dr. A.P. Canavan, a Baria Ahmed e a Mark Paxton-MacRae per avere letto per primi il manoscritto; e un grazie al mio agente, Howard Morhaim, e al mio editor, Simon Taylor. Un grazie particolare ai fan che visitano la mia pagina Facebook e a tutti gli Youtuber che parlano e discutono del mondo Malazan: mi avete offerto il giusto stimolo quando ne avevo più bisogno.

    FANTASY 

    IL LIBRO MALAZAN DEI CADUTI

    I Giardini della Luna

    La Dimora Fantasma

    Memorie di Ghiaccio

    La Casa delle Catene

    Maree di Mezzanotte

    I Cacciatori di Ossa

    Venti di Morte

    I Segugi dell’Ombra

    La Polvere dei Sogni

    Il Dio Storpio

    il dio indifferente

    la trilogia del testimone volume I

    il dio

    indifferente

    Il primo racconto del Testimone

    Steven Erikson

    armenia

    Titolo originale dell’opera:

    The God is Not Willing

    Traduzione dall’inglese di Lucia Panelli

    Revisione di Paolo Pegoraro

    Copyright © Steven Erikson 2021

    Maps copyright © Neil Gower 2021

    First published as The God is Not Willing in 2021 by Bantam Press,

    an imprint of Transworld Publishers. Transworld Publishers is part

    of the Penguin Random House group of companies.

    Copyright © 2021 Armenia S.r.l.

    Prima edizione digitale 2022

    978-88-344-3639-4

    Via Milano 73/75 - 20007 Cornaredo (MI)

    Tel. 02 99762433

    www.armenia.it / info@armenia.it

    @Edarmenia

    Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

    Nota dell’editore italiano

    L’editore di questo libro precisa che il personaggio

    del «dio indifferente» (il guerriero Karsa Orlog) citato nel titolo

    non ha alcuna attinenza con il personaggio Indifferent God

    che compare per la prima volta nel racconto

    The Fiends of Nightmaria, dello stesso Steven Erikson.

    Per avermi trascinato online, e per la sua amicizia, dedico questo romanzo a Lenore Kennedy

    MAPPA

    1

    DRAMATIS PERSONAE

    Rant, mezzosangue Teblor, figlio bastardo di Karsa Orlong

    Damisk, un cacciatore e tracciatore

    Gower, Signore dei Jheck Neri

    Nilghan, un guerriero dei Jheck Neri

    Sarlis, madre umana di Rant

    Tre, un’Assassina Shi’gal

    XIV LEGIONE, SECONDA COMPAGNIA

    Rude, capitano della Seconda Compagnia

    Spindle, sergente, terza squadra

    Morrut, caporale, terza squadra

    Oams, terza squadra

    Miseria Nera (Nera), terza squadra

    Benger, terza squadra

    Di’-di-No, terza squadra

    Drillbent, sergente, quarta squadra

    Spuntino, caporale, quarta squadra

    Acquacheta, quarta squadra

    Folibore, quarta squadra

    Coltre, quarta squadra

    Anyx Fro, quarta squadra

    Shrake, sergente, seconda squadra

    Sottocarro, caporale, seconda squadra

    Delicato, seconda squadra

    Alta Voce, seconda squadra

    Così Cupo, seconda squadra

    Piatto d’Argilla, seconda squadra

    I TEBLOR

    Delas Fana, una figlia di Karsa Orlong

    Tonith Agra, una figlia di Karsa Orlong

    Karak Thord, guerriero e figlio di Delum Thord

    Pake Gild, guerriera e figlia di Vedova Dayliss

    Vedova Dayliss, vedova di Bairoth Gild

    Valoc, ex-schiavo Sunyd

    Elade Tharos, condottiero

    Sathal, guerriera

    Bayrack, ex-schiavo Sunyd

    Galambar, liberatore Rathyd di schiavi Sunyd

    Sivith Gyla, guerriera Rathyd

    Toras Vaunt, guerriera Rathyd

    Salan Ardal, donna a capo dei Sunyd

    Kadarast, guerriero Rathyd

    Hestalan, guerriera Rathyd

    Bagidde, guerriero Rathyd

    Sti Epiphanoz, ricognitrice dei Nodo Luminoso

    ALTRI

    Bliss Rolly, sergente maggiore del presidio Malazan

    Horser, caporale dei regolari Malazan

    Trand, regolare Malazan

    Flown, regolare Malazan

    Amiss, regolare Malazan

    Lope, regolare Malazan

    Gund Giallo, regolare Malazan

    Nast Forn, luogotenente, guarnigione di Lago d’Argento

    Silgar il Giovane, primo cittadino di Lago d’Argento

    Storp, oste e veterano in pensione

    Creatura, faina

    Monkrat, mago

    Blowlant, donna al seguito dei fanti di marina

    Varbo, uomo al seguito dei fanti di marina

    Pugno Sevitt, comandante, XIV Legione

    Daisy Broke, comandante di battaglione, XIV Legione

    Deader, comandante di battaglione, XIV Legione

    Hayfire, capitano della XIV Legione

    Wheeze, sergente della XIV Legione

    Sulban, sergente della XIV Legione

    Bellam Nom, sergente della XIV Legione

    Pestle, fante di marina

    Buonanotte, fante di marina

    Olit Fas, fante di marina

    Strega Groviglio, uno spirito tribale

    Nistilash, uno sciamano Ganrel

    Cagna da Guerra, Dea dei Jheck

    Casnock, Signore dei Jheck Bianchi

    Pallid, un Segugio dell’Ombra

    Andrison Balk, comandante di una compagnia mercenaria

    Ara, luogotenente della Compagnia di Balk

    Stick, sergente della Compagnia di Balk

    Sugal, sergente della Compagnia di Balk

    Bray, sergente della Compagnia di Balk

    Scabbe, mago della Compagnia di Balk

    Cranal, mago della Compagnia di Balk

    Vist, mago della Compagnia di Balk

    Flap, coltello della notte

    Bairdal, coltello della notte

    Paunt, coltello della notte

    Orule, coltello della notte

    Palat, coltello della notte

    Fray, coltello della notte

    Irik, coltello della notte

    Rayle, coltello della notte

    Cosa dire? Il Signore della Morte è morto. Il Sovrano della Guerra giace silente in una cripta profanata. Luce e Oscurità sono fuggite nell’Ombra, e Ombra sogna la luce del sole. Le Case sono abbandonate. Araldi gridano inascoltati; gli scalpellini setacciano la polvere con mani intorpidite; le amanti aspettano in solitudine nella notte. Regine piangono e re incespicano. Tutto il mondo è in movimento, le verità muoiono a ogni anelito e a ogni parola pronunciata.

    Una donna anziana percorre un corridoio e una dopo l’altra accende candele, che il vento spegne dopo di lei.

    Ma ora innanzi a me vedo spiegarsi un nuovo campo di battaglia, che accoglie l’alba in un silenzio tombale. Presto, con lo sfilacciarsi delle tenebre, l’oscurità si sgretola per svelare due armate opposte l’una all’altra. Gli stendardi sbattono come ali, pennacchi di vapore si sollevano dai ranghi. Il sole nascente trasforma armi e armature in un tesoro disseminato.

    A un tratto una figura si solleva tra i nemici, spire di carne e volontà indomita, resistente come il ferro eppure dal volto distrutto. Non è il campione di nessuno, ma il dio di tutti. È la ferita sanguinante del guerriero, e il dolce bacio dell’amante; è il guardiano di ogni salma e il creatore di bambini. È la prua dorata della storia, che si impenna fieramente nella schiuma, e allo stesso tempo alberga tranquillo tra colline e menhir. Ha il passo pesante ma il tocco di una piuma; lo sguardo gelido e l’occhiata fugace. A lui tutto si arrende; nel suo nome tutto viene sacrificato. Nel suo nome cadono le nazioni; nel suo nome, gli dei si inginocchieranno. Se gli imperi bruciano, non incolparlo, e nemmeno quando l’amante volge le spalle. Testimoniare è cominciare a vedere. Vedere è cominciare a sapere. Sapere è indietreggiare. Eppure lui resta immobile, disarmato; disarmato contro questo futuro, e io so chi è lui: è il «dio indifferente», il «dio riluttante», il «dio inerme», lo «sterminatore di tutti e nessuno».

    Gli avversari non si muovono. Il sole spiega la sua luce dorata sulla superficie del mondo. Sarà un giorno di guerra? Chissà…

    "Hanascordia"

    Visioni dell’Ultimo Profeta, Terzo Apocrifo Karsan

    (Darujhistan, nell’Anno della Sfida di Feral)

    PROLOGO

    Sull’altopiano Laederon, Genabackis Nordoccidentale,

    Territorio Teblor

    La salita aveva richiesto sei giorni. A mezzogiorno del settimo raggiunsero la cima della scarpata che fiancheggiava la parete quasi verticale di ghiaccio che era stata sulla loro sinistra negli ultimi due giorni. La superficie di quel muro era devastata da scioglimenti passati, ma a quell’altezza l’inverno teneva ancora nelle proprie grinfie le montagne e i venti, che soffiavano e turbinavano dall’alto. Erano bianchi di ghiaccio e sanguinavano arcobaleni nell’accecante luce del sole.

    La sommità della scarpata era un crinale degradante e frastagliato, largo appena quanto bastava per permettere ai quattro Teblor di stare in piedi. Il vento ululava intorno a loro, tirando le cinghie delle armi e infilandosi nelle pellicce che tutti loro indossavano. Un vento che di tanto in tanto li spintonava, quasi fosse stato furente per la loro audacia. Quelle alture e quel mondo non appartenevano a loro. Il cielo era troppo vicino, l’aria troppo rarefatta.

    Vedova Dayliss dei Teblor strinse a sé il mantello di pelle di lupo. Davanti a loro, il pendio scivolava in una ripida discesa disseminata di pietre fino a un ammasso di pezzi di ghiaccio, sabbia e neve che fiancheggiava la riva come un muro di difesa.

    Dal loro punto di osservazione riuscivano a vedere oltre quella barriera dentata e fino al lago. Masse di ghiaccio deforme si innalzavano come isole, frantumando la superficie del lago coperta di neve. Alcune di quelle isole si ergevano alte come fortezze, come se centinaia di tiranni combattessero per il dominio su quel vasto impero di acqua ghiacciata.

    Nessuno era ancora pronto per parlare. Vedova Dayliss spostò lo sguardo verso nord, dove probabilmente terminava il lago. Ma in quell’immensa distesa era tutto bianco. E al di sopra di quel biancore si libravano, come vaghe nuvole, le vette maggiori, le più alte della catena, e i versanti rivolti a sud erano privi di neve. Uno scenario terrificante. Vedova Dayliss portò l’attenzione sul giovane condottiero alla sua destra.

    La sorprendeva ancora avere un Rathyd come compagno di viaggio, come se un centinaio di anni di rivalità e massacri non avessero significato niente, o almeno non abbastanza da impedire a quel condottiero di avventurarsi tra gli Uryd, per cercare dei guerrieri che lo accompagnassero in quel luogo.

    Tutto stava cambiando. Lo osservò ancora un istante e infine disse: «Allora la tua gente poteva vedere».

    Elade Tharos se ne stava appoggiato alla spada-sangue a due mani, la punta conficcata nel ghiaccio trasparente che riempiva una crepa nella pietra ai suoi piedi. «Negli accampamenti estivi ad alta quota», rispose annuendo. «I Bianchi Volti non erano più bianchi».

    Pochi Uryd, dopo avere udito il racconto di Elade, avevano compreso il significato di quelle notizie. Il ritmo della vita era lento, il passo misurato dalle stagioni. Se l’inverno passato era stato più freddo, be’, quello precedente era stato più caldo. Se il disgelo giungeva a singhiozzo; se strane correnti d’aria fluivano dalle alture settentrionali; se la neve cadeva giorno dopo giorno fino a seppellire un Teblor; se le foreste stesse ora si arrampicavano ancora più in alto sui fianchi delle montagne, mentre gli alberi più in basso morivano a causa delle siccità estive e della pestilenza… be’, così come uno sceglieva un pascolo diverso ogni estate, così anche la vita dei Teblor mutava e si adattava.

    Quelle notizie, mormoravano, non erano da temere. Oh, forse i Rathyd – quei pochi insediamenti rimasti in luoghi remoti e nascosti per sfuggire ai famelici schiavisti della pianura – avevano cominciato a poppare la paura da una cagna percossa, e ora si sarebbero mossi come ombre nel cielo…

    Simili parole avrebbero dovuto rabbuiare il volto di Elade Tharos. Invece aveva sorriso, i denti scoperti in un ghigno silenzioso. Tirato un lungo e lento respiro aveva poi detto: «I bambini-schiavisti sono tutti morti. Oppure mettete in dubbio anche queste voci? Il mio nome non significa nulla per voi? Io sono Elade Tharos, Condottiero di tutti i Sunyd e Rathyd. Condottiero degli uomini liberi e di quelli che un tempo erano ridotti in schiavitù. Le teste di un migliaio di bambini schiavisti marcano il nostro cammino vittorioso verso casa, ognuna di esse impalata su una lancia Sunyd o Rathyd». Si era fermato, il disprezzo un luccichio feroce negli occhi grigi. «Se dovrò, cercherò qualche guerriero Phalyd per questo viaggio verso nord…».

    E così li aveva convinti. Dopotutto, che storia avrebbe portato Elade Tharos agli odiati Phalyd? ‘Gli Uryd sono fuggiti nelle loro capanne e non hanno prestato ascolto…’. Anche senza capire, ora non c’era più possibilità di scelta, poiché l’orgoglio era il signore di ogni guerriero.

    Quel condottiero Rathyd era sicuramente giovane, ma non era uno sciocco.

    «Le nevi eterne si sono sciolte» affermò Karak Thord. «Un evento di per sé impossibile». Nel suo sguardo c’era inquietudine, ma non guardava le montagne lontane. Guardava il lago. «La domanda su dove sono andate ha trovato ora risposta». Si rivolse a Elade. «E questa valle allagata è stata sempre così?».

    «No, Karak degli Uryd. Un tempo c’era un fiume, che correva limpido e freddo su pietre arrotondate, sabbia e ciottoli. Un luogo dove l’oro veniva raccolto e dove l’acqua non superava il fianco di un uomo».

    «Quando era così?», domandò Karak Thord.

    «Al tempo di mio padre».

    L’altra donna tra di loro emise un ringhio. «Hai curiosato fra i suoi ricordi, Condottiero, per dedurre quale secolo fosse quando egli visitò questo luogo per l’ultima volta?».

    «No, Tonith degli Uryd, non l’ho fatto, poiché lui è morto. Intendiamoci, la mia famiglia è da sempre dotata nella ricerca dell’oro. Abbiamo raggiunto i punti più remoti della catena come nessun altro Teblor ha mai fatto. Tutto l’oro venduto tra i Teblor è stato trovato dalla mia famiglia». Tacque un breve istante, poi si strinse nelle spalle. «Naturalmente avrei dovuto seguire lo stesso cammino e così la mia educazione iniziò presto. Poi giunsero gli schiavisti e noi, che fuggivamo, venimmo spinti verso sud. E quando finalmente credemmo di essere al sicuro ecco che un gruppo di razziatori piombò su di noi. Fu allora che mio padre venne ucciso».

    Vedova Dayliss tornò a osservare il condottiero. A un tratto aveva la bocca arida. «Gli assalitori, Condottiero, erano Uryd».

    «Sì, lo erano», rispose l’altro in tono distaccato.

    Karak Thord guardava ora Elade con occhi spalancati. «La mia gente…».

    «Proprio così», replicò l’altro. «Non fu difficile imparare i loro nomi – dopotutto, gli Uryd non cantano ancora le gesta di Karsa Orlong, Delum Thord e Bairoth Gild?». Abbassò lo sguardo su Dayliss. «E tu, Vedova, il cui figlio è nato dal seme di Bairoth, non sei forse tra i nuovi seguaci del Dio Infranto?».

    «Sai troppo degli Uryd», replicò la donna, il tono tagliente come una lama.

    Elade scrollò le spalle come a voler liquidare l’argomento, per poi riportare l’attenzione sul lago ghiacciato. «Guardate bene», disse. «Davanti a noi non c’è un lago ma una baia. Al di là dei Monti del Cammino degli Dei, dove un tempo si estendeva la tundra, oggi c’è un mare. Altipiani a ovest lo separano dall’oceano. A est si allunga per un terzo del continente». Si bloccò di colpo e inclinò la testa. «Che cosa ne so di questo continente? Più di quanto ne sappia ognuno di voi, ve lo assicuro. Voi pensate di vivere in un mondo piccolo, limitato; un mondo costituito da queste valli e montagne, dalle pianure a sud e, oltre di esse, un mare. Ma non è il mondo a essere limitato, è la conoscenza che ne hanno i Teblor a esserlo».

    «Ma non la tua?». Il tono di Tonith Agra era aspro, colmo di una paura che la donna cercava di mascherare con lo sdegno.

    «Quelli che un tempo erano stati schiavi avevano molto da dire. Ciò che sapevano ci è di illuminazione. E io ho visto le mappe». Si girò completamente. «La parete di ghiaccio frena il mare. Negli ultimi due giorni abbiamo camminato accanto a essa. Ne abbiamo visto le crepe, il marciume. Abbiamo visto le bestie antiche un tempo intrappolate e i ciuffi di peli che punteggiavano la superficie della parete. A ogni primavera ne emergono altre, che attirano condor e cornacchie, a volte anche Grandi Corvi. Il passato offre generosi banchetti ai divoratori di carni putrefatte. Eppure», aggiunse, «vedere tutto ciò significa vedere il futuro. Il nostro futuro».

    Vedova Dayliss aveva compreso il significato delle vette spoglie delle montagne. L’inverno del mondo stava morendo. Aveva compreso anche lo scopo di quel viaggio. Vedere dove si era riversata l’acqua di scioglimento. Vedere perché non aveva raggiunto le terre più basse, dove la siccità li affliggeva ancora ogni estate. Quando parlò, le sue parole contenevano la verità. «Quando questa diga di ghiaccio crollerà…».

    Ma Elade Tharos, il condottiero, non era uomo che potesse lasciare a lei la parola. «Quando questa diga di ghiaccio crollerà, guerrieri degli Uryd, il mondo dei Teblor giungerà alla fine».

    «Hai parlato di un mare», intervenne Karak Thord. «Per difenderci da un simile avversario, dove possiamo fuggire?».

    Elade Tharos ora sorrise. «Non sono venuto soltanto tra gli Uryd. Sono stato in altri luoghi e quando avrò finito, avrò tutti i clan Teblor con me».

    «Con te?», domandò Tonith. «Che cosa vorresti farci dichiarare? Il grande Condottiero Rathyd, il Salvatore degli schiavi Sunyd e Rathyd, l’Assassino di un Migliaio di Bambini della Pianura! Elade Tharos! Ma certo! Adesso ci condurrà in una guerra contro un’inondazione che nemmeno gli dei potrebbero fermare!».

    L’altro inclinò la testa, come se avesse visto Tonith Agra per la prima volta. Ed effettivamente, da quando avevano lasciato l’insediamento Uryd, avevano scambiato ben poche parole. «Tonith Agra, la tua paura rivela il suo aspetto sotto pelle troppo sottile, e ogni parola che pronunci è un suo fragile colpo». Sollevò una mano quando lei mosse la propria verso la spada-sangue. «Ascoltami, Tonith Agra. La paura perseguita tutti noi e il guerriero che lo nega è uno stolto. Ma presta bene attenzione. Se proprio dovremo sentire il vento gelido del terrore, allora sarà meglio averlo alle spalle».

    Restò in attesa.

    Vedova Dayliss emise uno strano suono, del quale lei stessa non avrebbe saputo spiegare il significato. Poi, scosse lentamente la testa. «Tu ti senti nella scia del Dio Infranto, vero? Nella sua ombra. Il Rathyd il cui padre è caduto per la spada-sangue di Karsa. O di Delum, o Bairoth. Così adesso uscirai dall’ombra. E la gloria di ciò che condurrai spingerà il Dio Infranto nella fossa».

    Elade Tharos si strinse nelle spalle. «Questa è la gloria che io cerco, Vedova Dayliss, e se il Dio Infranto giocherà un ruolo, sarà dalla parte opposta della mia spada-sangue. Tonith Agra ha detto il vero: non possiamo combattere contro un’inondazione. L’acqua arriverà. Le nostre terre saranno sommerse. Ma l’allagamento delle terre Teblor sarà solo l’inizio dell’inondazione. Non lo hai ancora capito?».

    Lei annuì. «Oh, sì, eccome, Condottiero Elade Tharos. Quell’inondazione giungerà dai nostri campi. Sommergerà tutte le terre della pianura. Dove vivono i bambini-schiavisti. Li spazzerà via tutti».

    Elade Tharos scosse la testa. «No, non lo farà. Lo faremo noi».

    La spada-sangue di Karak Thord venne sguainata di colpo. Si inginocchiò davanti a Elade Tharos, sollevando la spada tra loro sui propri palmi e parallela al terreno. «Sono Karak Thord degli Uryd. Guidami, Condottiero».

    Sorridendo, Elade toccò la spada. «Così sia».

    Un attimo dopo, Tonith Agra imitò Karak e nonostante i recenti contrasti tra di loro, il condottiero la accettò senza alcuna esitazione.

    Vedova Dayliss distolse lo sguardo, anche se sapeva che il Rathyd si era ora girato verso di lei ed era in attesa. Lei non voleva né poteva negarlo. Un calore selvaggio le bruciava nelle vene. Il cuore le martellava. Ma restò in silenzio, quanto bastava per lasciare vagare lo sguardo verso il lontano sud.

    «», mormorò Elade Tharos, a un tratto accanto a lei. «Prima dell’acqua, ci sarà il fuoco».

    «Forse è stato mio marito a uccidere tuo padre».

    «No. Ho visto con i miei occhi Karsa Orlong atterrarlo. Sono l’unico Rathyd sopravvissuto all’attacco».

    «Capisco».

    «Davvero?», le domandò lui. «Allora dimmi, dove si trova questo Dio Infranto? Karsa Orlong è tornato nella sua terra? È venuto per radunare i suoi simili, i suoi nuovi seguaci? Ha dato il via alla grande guerra contro i bambini della pianura? No. Niente di tutto ciò. Dimmi, Vedova Dayliss, perché ti aggrappi a simili false speranze?».

    «Bairoth Gild aveva scelto di stare al suo fianco».

    «E per questo è morto. Ti assicuro», affermò Elade, «che non sarò così incurante nei confronti di chi mi seguirà».

    Lei sbuffò. «Nessuno morirà? Allora dimmi un po’, che tipo di guerra immagini? Quando ci muoveremo verso sud, Condottiero, non ci dipingeremo il volto di nero, grigio e bianco?».

    Elade Tharos aggrottò la fronte. «Per cercare la nostra stessa morte? Vedova Dayliss, io intendo vincere».

    «Contro il sud?». Gli altri ascoltavano e osservavano. «Dici di avere visto le mappe. E anch’io, quando la figlia maggiore di Karsa tornò da noi. Elade Tharos, non possiamo sconfiggere l’Impero Malazan».

    Elade scoppiò a ridere. «Una simile impresa andrebbe addirittura al di là delle mie ambizioni», affermò. «Ma ti dico una cosa: la stretta imperiale su Genabackis è più debole di quanto immagini, soprattutto nelle terre dei Genabarii e dei Nathii».

    La donna scosse la testa. «Un dettaglio che non cambia niente. Per portare la nostra gente a sud, per trovare un luogo in cui vivere che sia al di là dell’inondazione che giungerà, dovremmo ucciderli tutti. Malazan, Nathii, Genabarii, Korhivi».

    «Vero, ma sono solo i Malazan che hanno fatto di tutti quei popoli un medesimo nemico, sui campi di battaglia. Dove li incontreremo e li schiacceremo».

    «Noi siamo predoni, Elade Tharos, non soldati. Inoltre, siamo troppo pochi».

    L’altro sospirò. «I tuoi dubbi non mi scoraggiano e ascolterò con piacere la tua voce nel consiglio di guerra. Siamo troppo pochi? Sì. Saremo soli? No».

    «Che cosa vuoi dire?».

    «Vedova Dayliss, ti sottoporrai al giuramento? Solleverai la spada per ricevere la mia approvazione? Se così non fosse, allora i discorsi tra di noi si fermeranno qui e adesso. Dopotutto», disse abbozzando un sorriso, «non siamo ancora in un consiglio di guerra. Preferirei, in considerazione dei tuoi dubbi, che tu dessi voce a tutti coloro che li condividono ma che resterebbero in silenzio».

    Vedova Dayliss estrasse la sua spada-sangue. «Lo farò», affermò. «Ma che sia chiaro, Elade Tharos. Le figlie di Karsa Orlong sono partite dalle nostre terre per raggiungere il luogo dove troveranno il proprio padre, il Dio Infranto. Lo hanno fatto così tante volte».

    «Eppure lui non fa niente».

    «Elade Tharos», replicò lei, «lui prende fiato, nient’altro».

    «Allora non vedo l’ora di sentire il suo grido di guerra, Vedova Dayliss».

    Non credo. Ma restò in silenzio. E infine si piegò su un ginocchio e sollevò la lama di legno. «Sono Vedova Dayliss, degli Uryd. Guidami, Condottiero».

    Il sole aveva raggiunto lo zenit. Dall’immensa insenatura ghiacciata di quel mare interno avvolto dalla nebbia, gemiti sinistri spezzarono il silenzio. Il disgelo stava iniziando. Dal muro di ghiaccio, ora alla loro destra, giunse la martellante corsa dell’acqua, da qualche parte dietro le colonne verdi e azzurre di ghiaccio. Era lo stesso rumore che avevano udito ogni pomeriggio nel corso della salita, quando la temperatura raggiungeva il suo picco.

    Nelle terre del sud, i clan sarebbero stati felici di quell’ondata di deflusso stagionale. Quest’estate, avrebbero detto, la carestia finirà. Vedi? Non c’era niente di cui preoccuparsi.

    Presto, lei già lo sapeva, simili futili questioni avrebbero perso importanza. Quando il condottiero fosse giunto fra di loro. Portando con sé la promessa di vendetta contro gli odiati bambini della pianura. Portando con sé la promessa di guerra.

    Quando infine Elade Tharos le toccò la spada-sangue e pronunciò le parole di accettazione, Dayliss si drizzò e tese una mano. «Consideriamo questo momento il nostro primo consiglio di guerra».

    Karak Thord intervenne: «Dayliss, non è questo il…».

    «Ma lo è», lo interruppe lei. Incontrò gli occhi di Elade. «Condottiero. C’è un segreto su cui noi quattro dobbiamo giurare, un segreto che ci impegneremo a mantenere».

    «Che segreto?», domandò Tonith.

    Vedova Dayliss tenne lo sguardo sul condottiero. «Porta a tutti i clan dei Teblor la promessa di una guerra contro i bambini della pianura. Parla di castigo. Parla di vendetta per tutti i crimini perpetrati contro di noi dagli schiavisti e dai cacciatori di taglie. Parla dei nuovi insediamenti che hanno cercato di sconfinare nei nostri territori. Racconta delle tue vittorie passate. Conquistali, Condottiero, con parole di sangue e gloria».

    Tonith avanzò tra di loro. «E l’inondazione? Una simile rivelazione è più che sufficiente!».

    «Molti sceglieranno di non credere alle nostre parole», replicò Dayliss. «Soprattutto tra i clan più lontani, che forse sono soddisfatti per l’immutabilità delle stagioni, e che quindi non conoscono travagli o penurie».

    Restarono in silenzio. Ma il movimento del ghiaccio tornò a farsi sentire.

    Elade Tharos infine annuì. «Sono pronto a fare come suggerisci. Ma per conquistare tutti i clan, non potrò essere solo».

    «Hai ragione. Ed è per questo che noi tre saremo con te, Condottiero. Rathyd, Sunyd e Uryd. Basterà questo dettaglio per far sì che ci ascoltino».

    Karak Thord emise un grugnito. «Dovremmo trovare un Phalyd, e allora sì che le montagne si sveglieranno!».

    Elade Tharos si rivolse a lui. «Karak degli Uryd, io ho un Phalyd tra i miei seguaci. Così saremo Rathyd, Sunyd, Uryd e Phalyd». Tornò a parlare a Vedova Dayliss. «Sei saggia. E allora giuriamo di restare fedeli a questo segreto. Fino al momento in cui tutti e quattro reputeremo giunto il momento di parlarne». Guardò gli altri uno a uno e tutti annuirono. Anche Tonith Agra.

    Soltanto allora iniziarono la discesa.

    Intanto l’acqua ribolliva in caverne nascoste dietro a luccicanti pareti di ghiaccio, e il calore crescente del sole faceva fumare le pietre.

    LIBRO PRIMO

    ASTRAGALI

    Mentre gli inermi, i feriti e i giovani fuggivano, si racconta che dietro di loro, attraverso la stretta apertura del passaggio, si creò una linea di difesa. Dodici Teblor adulti, carichi di tutte le armi che erano riusciti a trovare, presero ciascuno l’ultimo anello della propria catena spezzata e piantarono dei puntelli attraverso di esso, fin nella profondità della roccia. Legati con ceppi alle caviglie alle loro stesse catene, avrebbero resistito alla ferocia degli schiavisti, dei loro rinforzi e di quell’esercito inseguitore che cercava di recuperare la propria ricchezza.

    Naturalmente non è possibile verificare se tutto ciò sia accaduto veramente. Ciò che tuttavia si può dire è che la fuga dei Teblor liberati ebbe successo, mettendo così fine alla schiavitù nella Provincia di Malyn del Genabackis Malazan, che a sua volta decretò la caduta dell’ultima roccaforte di quell’orribile commercio di carne.

    Nella sua Geographa’ta Mott Valard di Tulips riportò un racconto, indubbiamente curioso, sull’omonimo Passo Teblor dove, circa tre anni dopo, venne notata la presenza di una cresta ossea disposta secondo una certa linea nel punto più stretto del sentiero, mentre sul declivio vennero trovate altre ossa sparpagliate. Come se, così scrisse l’autrice, ‘un migliaio di uomini fossero morti lottando contro una sola linea di assediati’.

    Bisognerebbe inoltre sottolineare che Valard, essendo una devota Mistica del Diniego, era probabilmente totalmente ignara sia della Ribellione degli Schiavi di Malyn sia della leggenda locale della Resistenza del Puntello.

    Storia di Gaerlon, Vol. IX

    La Grande Biblioteca di Nuova Morn

    CAPITOLO UNO

    Inizi infausti spesso costituiscono il più letale degli avvertimenti

    Detti dello Sciocco

    Thenys Bule

    Guarnigione Sliptoe, valico di Culvern,

    est-nordest di Malybridge, Genabackis

    Un cielo pallido sovrastava un mondo senza colori. La stagione doveva ancora cambiare. La boscaglia su entrambi gli argini della strada lastricata, che portava al forte e alla città che sorgevano su un lato, restava una macchia caotica di marroni, rossi spenti e gialli ancor più tristi. I germogli erano finalmente apparsi e dove c’era stato il ghiaccio nei canali di scarico e nei campi ora c’era l’acqua, che si allargava a formare pozze grigie e bassi laghetti che riflettevano il cielo bianco.

    Qualcuno – Oams non ricordava più chi – una volta aveva detto che il mondo era lo specchio del cielo, la cornice graffiata, picchiettata e bucherellata come a volersi fare beffa del volto stesso del cielo. Indubbiamente l’osservazione non era del tutto sbagliata. Strano come cose senza senso restassero nella memoria, mentre le verità scivolassero via, abbandonate come cose di poca importanza.

    Un soldato che negasse l’amore e la passione per il pericolo era un bugiardo. Oams era nella milizia da quando aveva quindici anni. Ventun’anni dopo rifuggiva quella verità e tutte le altre insensate verità restavano nell’ombra. Il piacere di chi non poteva fare a meno del pericolo era sempre un piacere colpevole, il prepotente persecutore che si ritrovava sempre accanto quando abbassava lo sguardo su un cadavere che, se le cose fossero andate male, avrebbe potuto essere il suo. Vivere era più facile, rifletteva, quando potevi ammazzare la paura. E poi fissarne il volto esangue in attesa che il battito del tuo cuore rallentasse e il respiro tornasse regolare.

    E l’indomani sarebbe stato un altro giorno, un’altra paura, un altro volto, il sollievo che scorreva nelle vene come la più dolce delle droghe.

    Era un soldato e non riusciva a pensare di poter essere altro. Sarebbe morto sul campo di battaglia, mostrando al proprio assassino quel volto esangue e probabilmente, in quegli ultimi istanti, avrebbe intravisto quel prepotente persecutore nel volto del suo stesso nemico. Perché tutti conoscevano quell’unica verità: alla morte non si poteva sfuggire.

    La foresta settentrionale era alle sue spalle. Il cavallo era stanco e non gli avrebbe fatto bene restare fermo troppo a lungo, perché i muscoli si sarebbero irrigiditi, eppure Oams rimase immobile in sella. Qualche istante in più non avrebbe ucciso nessuno dei due. O così sperò. Giusto il tempo necessario perché il cuore rallentasse e il respiro tornasse regolare.

    Quando avevi a che fare con uno spirito che si levava dai ciottoli consunti davanti a te, non c’era modo di sapere quale malvagità avesse in mente. Sarebbe stato un errore confondere la magia e i suoi canali con i mondi nascosti dove i defunti erano tutt’altro che soli. E il pantheon di dei e ascendenti, rinchiusi nei loro templi, che sbocciavano e morivano come fiori quando un’epoca lasciava il posto a un’altra, apparteneva a un regno diverso da tutte quelle forze primordiali indistinte che si aggiravano nelle terre selvagge e in altri luoghi dimenticati.

    La cosa alta e spettrale ora davanti a lui era pressoché informe. A stento umana, contorni vaghi e sfuggenti, la massa centrale una macchia scura attraverso la quale strisce dentellate di un qualche cosa guizzavano agitate, come se fossero state intrappolate. E il tutto avvolto dalla stessa mancanza di colore del cielo, del lago e delle pozze d’acqua.

    Mentre aspettava che l’apparizione dicesse qualcosa, Oams si chiese perché il cavallo non vi prestasse attenzione. E mentre il tempo passava, la sua mente corse a campi di battaglia passati – soprattutto all’ultimo – e non poté fare a meno di chiedersi se non gli fosse sfuggito qualcosa. Qualcosa come la sua stessa morte. Dopotutto, i morti sapevano di essere morti? C’era un ricordo che lui avrebbe rifuggito in spasmi di orrore e rimpianto? Il bruciore insopportabile della punta di una lancia che affondava nel petto? L’agonia di una ferita nello stomaco, di una gola squarciata, di un taglio nella coscia?

    «È così, allora? Sono morto?».

    L’orecchio sinistro del cavallo si drizzò, all’erta e in attesa delle sue prossime parole.

    La risposta dell’apparizione fu inaspettata. Roteò verso di lui, l’oscurità che riempiva i suoi occhi, la matassa caotica di qualcosa che s’inarcava e sciabolava in tutte le direzioni, e un abbraccio si chiuse su di lui, un brivido, e poi un fremito che scivolò come un’onda. Su di lui, intorno a lui e dentro di lui.

    E poi se ne andò.

    Gli occhi spalancati, Oams si guardò intorno. Null’altro se non il mondo incolore e spento, una fredda mattina di inizio primavera, il suono lontano di un gocciolio d’acqua, un lieve alito di vento. Il suo sguardo si portò sulla strada, sul punto subito sotto l’apparizione della cosa, e l’attenzione si concentrò su un singolo ciottolo, infangato ma in qualche modo diverso dagli altri.

    «Merda». Smontò di sella, vacillò un istante nella scia di quell’abbraccio, e poi avanzò e si abbassò per pulire la superficie del ciottolo, asciugando il velo di acqua fangosa. E scoprendovi un volto inciso. Occhi tondi, vuoti, solchi a incorniciare il naso in un triangolo oblungo, una bocca rivolta verso il basso.

    «Fanculo a Genabackis», mormorò. «Fanculo alla foresta di Culvern, fanculo a tutti i morti da tempo, fanculo a tutti gli spiriti dimenticati, gli dei, gli spettri e fanculo a chiunque altro». Si alzò e rimontò in sella al placido cavallo in attesa. Poi si fermò, ricordando quel brivido estatico. «Ma soprattutto... chiunque tu fossi, se quella era una scopata, sarai sempre la benvenuta».

    A ridosso del lato settentrionale del forte si estendeva un cimitero abbandonato, uno strano miscuglio di tombe e buche per urne insieme a lastre perlopiù infossate e inclinate, che alludevano a più di una pratica antica e ormai dimenticata di popoli ugualmente dimenticati. Quando il Terzo Esercito Malazan aveva costruito la fortezza, durante la conquista, la trincea e il terrapieno avevano tagliato il cimitero dove le lapidi orlavano l’area pianeggiante tracciata dai progettisti. Alcune delle pietre capovolte, delle lastre e dei mattoni erano stati usati come fondamenta per ciò che era iniziato come un muro di legno ma adesso era pietra calcarea intonacata. Le ossa dissotterrate erano state gettate e sparse ovunque tra le erbe alte che fiancheggiavano il fossato e i cursus; alcune erano ancora visibili, frammenti smussati e sbiancati tra gli steli aggrovigliati.

    Un lavoro indubbiamente confuso ma la necessità era una padrona crudele. Inoltre, il dannato cimitero era nel mezzo del nulla, lontano leghe e leghe dalla più vicina città, con solo un pugno di villaggi e villaggetti a mezza giornata di viaggio – non che i locali se ne preoccupassero, poiché tutti insistevano che il cimitero non era loro.

    Il lato meridionale del forte era caratterizzato dal nuovo cimitero, con piccoli loculi in pietra rettangolare nello stile Genabarii e un unico lungo tumulo pieno delle ossa in decomposizione di un qualche centinaio di soldati Malazan, sul quale ora cresceva una piccola foresta. Il cimitero era affiancato dal muro del forte nel quale era stata aperta una nuova porta e per il resto era circondato dalla città che era cresciuta insieme all’avamposto imperiale.

    Il terreno al di là del muro orientale veniva conservato come campo di allenamento, dove era proibito qualsiasi tipo di insediamento, sebbene le greggi vi potessero pascolare per evitare che l’area venisse invasa da alte erbacce.

    Il forte era stato eretto a un centinaio di passi dal fiume Culvern. Nel corso dei decenni, le inondazioni primaverili erano via via peggiorate e ora la riva del fiume si trovava a meno di trenta passi dal muro occidentale del forte. In quella stretta striscia si era accampata la Seconda Compagnia della XIV Legione.

    Come ogni mattina, il sergente si allontanò dall’odiato fragore dell’acqua impetuosa. Dirigendosi verso l’entroterra e lasciando il forte alla sua destra, s’infilò nel cimitero abbandonato e invaso da sterpaglie, ricordando la prima volta che lo aveva visto.

    Erano ricoperti di sangue a causa di uno scontro inaspettato con la Guardia Cremisi, e notizie dal sud cominciavano a rendere il nome Cane Nero una parola maledetta. Uno dei problemi era che gli Arsori di Ponti erano stati divisi: una compagnia inviata a supportare il Secondo Esercito, lì nel nordest, e l’altra inviata verso Mott.

    Il sergente si fermò su una lastra di pietra leggermente inclinata, lo sguardo rivolto oltre il terrapieno e verso il muro massiccio del forte. Ricordava quando non era altro che legno e pietrisco. Ricordava quanto gli doleva la schiena per il lavoro con la vanga e il piccone, impegnato a distruggere lapidi mentre l’altra squadra abbatteva un intero boschetto adiacente per erigere le prime mura.

    Ai tempi c’era una certa crudezza nell’aria, o forse era lui che l’avvertiva così. Certamente si respirava un’atmosfera più selvaggia, lì al limitare di insediamenti civilizzati. Erano i primi tempi degli Arsori di Ponti, quando venivano gettati da un incubo all’altro. La speranza era ancora viva, pur divenendo sempre più flebile.

    Da allora la pace aveva allungato la sua coltre soffocante, aveva avvolto commercianti, locandieri, artigiani, mandriani, contadini e tutti gli altri. La pietra aveva sostituito il legno, da una terra desolata era emersa una città. Niente di tutto ciò sembrava, o appariva, reale.

    Mai si sarebbe aspettato di tornare lì. Non in un luogo dove aveva affondato per due volte la vanga nella terra, prima per costruire un forte e poi per scavare un tumulo e vedere amici ricoperti di sangue trascinati dentro. La lealtà di un soldato moriva dopo migliaia di ferite, fino a quando sembrava non vi fosse più la speranza di riacquistarla – né verso un impero, né verso un comandante e nemmeno verso una fede. Aveva visto compagni d’armi eclissarsi, disertare, persino tra i famosi Arsori di Ponti, ormai troppo soli nelle loro menti per incontrare lo sguardo di chiunque altro. Lui stesso ci era andato dannatamente vicino.

    Anni dopo e nel lontano sudest, nella pioggia fuori da Corallo Nera, il Gran Pugno Dujek il Monco aveva ufficiosamente sciolto gli Arsori di Ponti. Il sergente ricordava quel momento, in piedi sotto il diluvio, le orecchie colme del clamore di quella cascata d’acqua dal cielo, dalla Progenie della Luna ferita mortalmente e che si librava quasi sopra di lui. Un suono che da allora aveva preso a odiare.

    Avrebbe dovuto fare come i pochi che erano rimasti. E semplicemente andarsene. Ma non era mai stato capace di mettere radici. Nemmeno le allettanti delizie di Darujhistan avevano avuto presa su di lui. E così aveva vagato, errato, chiedendosi che cosa ci fosse nella lealtà che lo ossessionasse.

    C’era da sorprendersi che fosse nuovamente rientrato nei ranghi Malazan? Ed era cambiato qualcosa? Le squadre dei fanti di marina sembravano sempre uguali, nonostante l’infinito susseguirsi di volti, voci, storie e via dicendo. I comandanti andavano e venivano, alcuni erano bravi, altri no. Anni di incarichi pacifici venivano inframezzati da compiti odiosi, in un’incessante oscillazione senza fine. Ora si rendeva conto che era sempre tutto uguale. Niente era cambiato. Ormai si era convinto che l’ultimo istante dell’Impero Malazan sarebbe giunto con la morte dell’ultimo fante di marina in qualche inutile campo di battaglia nel nulla.

    No, niente là fuori era cambiato. Ma dentro, dentro l’ex Arsore di Ponti che ancora serviva l’Impero, era un’altra storia.

    Corallo Nera. Dopo le piogge, dopo che la salsedine era stata scossa dalle spalle del suo farsetto di pelle, e i suoi occhi riarsi erano stati distolti da ciò che era stato, seppur ancora incapaci di posarsi su ciò che sarebbe diventato, aveva raggiunto un tumulo. Una collinetta scintillante, luccicante come tutte le ricchezze del mondo, dove aveva lasciato il suo sigillo d’argento e rubino, il ponte lambito dalle fiamme.

    Strano come un uomo che non aveva mai conosciuto avesse potuto cambiarlo tanto. Un uomo che, così gli era stato detto, aveva dato la sua vita per redimere i T’lan Imass.

    Itkovian. Tu, uomo del folle gesto, della terrificante promessa. Immaginavi che cosa tutto ciò avrebbe fatto di te? Ne dubito. Credo tu non avessi dedicato nemmeno un istante alla riflessione, quando con occhi limpidi sei andato e hai perdonato l’imperdonabile.

    A quei tempi lui non ne aveva saputo molto. Ma nel suo vagare quasi senza meta, aveva pensato a un eventuale ritorno a Corallo Nera, per vedere che cosa ne era stato del luogo in cui erano morti gli Arsori di Ponti. E si era ritrovato faccia a faccia con la nascita di un dio, di una fede, di un sogno disperato.

    Non apri ancora gli occhi, vero? Appena nato, dedicasti solo un sorriso beffardo alla tua morte imminente. Mentre molti di noi si facevano avanti, pronti a difenderti. Strano impulso di lealtà, non verso di te, ma verso un’idea, verso ciò che tu incarnavi.

    Nessun abuso, sensazione, emozione, terrore o lussuria; nessun luogo fra tutti i mondi reali e immaginati, poteva rinnegare o eliminare quel bisogno amorevole.

    Redenzione.

    Sì, esisteva una lealtà che nessun mortale poteva scuotere, un bisogno verso il quale un mortale non poteva che ritornare quando, alla fine, tutte le distrazioni divenivano fragili e vuote e una vita si avvicinava alla fine.

    In tutti i suoi anni, soldato tra i soldati, poi vagabondo tra sconosciuti, un vero mare di volti era stato sfiorato dal suo sguardo indagatore e su ognuno di essi aveva visto la stessa cosa. Spesso camuffata, nascosta, ma mai a sufficienza. Spesso negata, con sfacciato spregio o inquieta diffidenza. Spesso attenuata dal fumo o dall’alcol.

    Desiderio. Cercalo, in ogni folla, e lo troverai. Dipingilo di qualsiasi colore tu voglia: dolore, nostalgia, malinconia, ricordo... non sono altro che aromi, riflessi poetici.

    Ed è il Redentore, tra le sue mani la redenzione, che appagherà il nostro desiderio. Se solo lo chiederemo.

    Come poi aveva scoperto, il Redentore non era ancora pronto per farlo e, se anche lo fosse stato, come sarebbe andata? Che cosa succede quando il desiderio viene infine appagato? La salvezza era qualcosa da temere: la rimozione dell’ultima cosa per cui vivere? Il desiderio di redenzione non equivaleva al desiderio di morte? O erano fondamentalmente agli opposti?

    Un movimento in lontananza attirò la sua attenzione e vide il suo coltello della notte, Oams, giungere a cavallo da est. Bene, quel lavoro era fatto. Tuttavia sarebbe stato meglio ascoltare il rapporto in prima persona, prima di ricevere la chiamata per l’adunata.

    Il sergente si drizzò, le mani sui fianchi mentre inarcava la parte inferiore della schiena. Due giorni addietro, non lontano da lì, aveva scavato un altro buco. Per il riemergere di volti famigliari nel terreno, e buona notte, a lui e a tutti.

    Quando Oams scorse il sergente tra le vecchie tombe, abbandonò la pista e diresse il cavallo verso il superiore. Stava ancora pensando all’apparizione. Non era facile distogliere la mente. Non gli era accaduto mai niente di simile. Avrebbe dovuto esserne spaventato, ma non lo era. Avrebbe dovuto sottrarsi al suo abbraccio, ma non lo aveva fatto. E forse quella testa di pietra, affondata nel terreno e ora parte di una strada imperiale, non aveva niente a che fare con lo spirito.

    Si era scoperto a pensare al desiderio del soldato, a quella luce fredda negli occhi, alle difficoltà che si trovano ad affrontare i militari quando infine seppelliscono la spada. E a risvegliare quei pensieri era stato l’uomo che ora lo aspettava al limitare del cimitero. L’uomo troppo a lungo nei ranghi, ma senza alcun altro luogo dove andare.

    Oams tirò le redini e scese di sella. Legato l’animale, si avviò verso il sergente. «Era come immaginavate che fosse, Spindle».

    «E?».

    «Tutto a posto», rispose Oams. «Non ho dovuto fare molto, a dire la verità. Era già in fin di vita. L’unica cosa che lo teneva vivo era tutta quella rabbia. Forse ha persino cercato di ringraziarmi per averlo ucciso, ma non è riuscito a pronunciare le parole con tutto quel sangue in bocca».

    Il volto atteggiato a una smorfia, Spindle distolse lo sguardo. «Be’, un pensiero confortante».

    «Lo penso anch’io», replicò Oams. Dopo un istante, scrollò le spalle e disse: «Be’, sarà meglio che porti il cavallo nella stalla. Dopo di che me ne andrò nella tenda dove intendo dormire per…».

    «Non ancora», lo interruppe il sergente. «Il capitano ci vuole vedere tutti quanti».

    «Altri fottutissimi ordini? Siamo appena stati messi pesantemente al tappeto. Ci stiamo ancora leccando le ferite e cercando di ignorare le sedie vuote al tavolo da gioco. La compagnia è ridotta a tre maledette squadre e intendono mandarci ancora in missione?».

    Spindle si strinse nelle spalle.

    Gli occhi su di lui, Oams restò in silenzio per alcuni istanti, infine si guardò intorno. «Questo posto mi fa venire i brividi. Voglio dire, i corpi su un campo di battaglia sono una cosa – una mezza giornata di lavoro ed è fatta. È il ruolo che rivestiamo, perciò non devo sentirmi a disagio, giusto? Ma i cimiteri. Generazioni di morti, uno sopra l’altro. Per secoli. È deprimente».

    «Davvero?», domandò Spindle, osservando Oams con espressione indecifrabile.

    «Sa di… non so. Futilità?».

    «Perché invece non di continuità?».

    Oams rabbrividì. «Già. Il genere mortale». Esitò e infine chiese: «Sergente, pensate mai agli dei?».

    «No. Dovrei?».

    «Be’, non sono loro che ci hanno creato? E se è così, perché accidenti lo hanno fatto? E come se non bastasse, se ne vanno in giro a immischiarsi dei fatti nostri. È come se non riuscissero a levare mano e a lasciarci andare per la nostra strada; come un qualche maledetto precettore che si rifiuta di lasciare la festa e tu sei là, in compagnia di una sensuale bellezza e in preda al desiderio, ed entrambi state cercando un cespuglio dietro al quale nascondervi e…». Nel vedere l’espressione incredula del volto del sergente, Oams tacque. Si passò una mano sul viso e sfoderò un sorriso imbarazzato. «Che Iskar mi prenda, sono stanco».

    «Porta il cavallo nella stalla, Oams» ordinò Spindle. «Potresti riuscire ad addentare qualcosa prima della riunione».

    «Lo farò».

    «E complimenti per la… missione».

    Oams annuì e si mosse verso il cavallo.

    Il sole era di un bianco più acceso in un cielo bianco. Non era ancora mezzogiorno. Il suono dell’acqua di disgelo, che gocciolava nello stretto fossato che correva parallelo al muro, echeggiava in lontananza. Il gallo che dall’alba non aveva fatto che cantare, a un tratto emise un suono strozzato e di colpo scese un silenzio sinistro.

    Acquacheta si alzò a guardare il corpulento soldato infilarsi la cotta di maglia. Ancora una volta, anelli di ferro si impigliarono tra i lunghi capelli sudici strappandone ciocche dalla testa così che, qua e là sul torace, un luccichio dorato fluttuava sul ferro brunito. Per quanto non avesse mai emesso un suono quando tutto ciò accadeva, un paio degli strappi erano stati sufficientemente forti da provocargli un rossore diffuso sul viso butterato e fargli velare gli occhi.

    Infilata la cotta di maglia, raccolse la spada. Non sapeva come ma c’erano ciuffetti sottili di capelli rossicci intrappolati anche nelle decorazioni in bronzo del fodero. Sistemata la cintura della spada subito sopra i fianchi, si fermò per grattarsi il naso piatto e storto, asciugandosi furtivamente una lacrima dall’occhio sinistro e infine, prima di guardarla, strofinò i gambali di pelle logora.

    «Per la gamba di Iskar, Folibore, dobbiamo solo andare alla tenda di comando». La donna indicò la parte centrale dell’accampamento. «Là. Dove è sempre stata».

    «Ho sempre ritenuto che la preparazione sia la salvezza di un soldato, Acquacheta». L’altro strinse gli occhi per guardare attraverso il campo. «Inoltre, i percorsi più ingannevoli sono quelli che appaiono più semplici. Devo chiamare Coltre? È alla latrina».

    Acquacheta contrasse il viso in una smorfia. Coltre la innervosiva. «Be’, da quanto tempo è là?».

    «Non ho idea di quanto ci impiegherà», rispose Folibore scrollando le spalle.

    «Perché, cos’ha che non va?».

    «Niente. Te l’ho detto. È nella latrina.» Si fermò. «Proprio nella latrina. Gli è caduto l’amuleto che gli aveva dato la nonna».

    «L’amuleto con l’iscrizione? Quello che recita uccidi questo ragazzo prima che cresca? Che genere di ricordo è mai quello? Coltre ha qualche rotella fuori posto, lo sai».

    A disagio, Folibore si strinse nuovamente nelle spalle.

    «Non importa», commentò Acquacheta. «Andiamo. Dubito che il capitano sarebbe felice con Coltre coperto di merda».

    S’incamminarono.

    «Ignora gli altri», disse Folibore. «Per una volta apprezzo il tuo innato umorismo».

    «Il mio che cosa?».

    «Innato umorismo».

    Lei lo guardò con espressione interrogativa. La fanteria pesante era gente strana. Che cosa rendeva i pugni di ferro di ogni squadra così bizzarri? Dopotutto avevano un compito ed era quello di tuffarsi in qualsiasi tempesta andasse loro incontro. Mettersi in prima fila, resistere all’attacco e quindi rispondere ai colpi. Semplice.

    «Non hai bisogno di essere colto», commentò.

    «Ancora con quella storia, Acquacheta? Senti, leggere è facile. È quello che fai con tutte le parole che hai in testa che è difficile. Pensaci. Dieci persone possono leggere le stesse fottutissime parole eppure giungere a dieci diverse interpretazioni».

    «Sarà…».

    «Ecco perché è una regola tenere noi della fanteria pesante lontani dagli ordini scritti».

    «Perché vi confondono».

    «Esattamente. Restiamo intrappolati in tutte le mutazioni, le sfumature, le deduzioni e le ipotesi. È tutto così problematico. Dopotutto che cosa intende veramente il capitano? Quando scrive, per esempio, avanzare al fronte. A fronte di cosa? E se io avessi avuto uno scontro con uno strozzino e adesso ci fosse una taglia su di me? Allora sarebbe più giusto "ritirarsi dal fronte", no? Questo se avessi ricevuto quell’ordine personalmente».

    Lei tornò a guardarlo. Troppo imponente per essere confortato, sopracciglia folte e pronunciate, testa squadrata sotto una massa irregolare di capelli lunghi, un viso schiacciato per lo più coperto dalla barba rossa sotto un naso martoriato, e occhietti azzurri dalle ciglia delicate. «Stai dicendo che è quello che è accaduto alla Prima Squadra? La fanteria pesante riceve gli ordini e mezza campana dopo sono tutti morti?».

    «Non sto dicendo che è quanto accaduto alla Prima» replicò l’altro. «È solo una possibilità in un lungo elenco di possibilità. E tu probabilmente ne sai più di me».

    «Allora tu che cosa pensi sia successo alla Prima, Folibore?».

    «Lo chiedi a me? Come faccio a saperlo? Come fa qualcuno a saperlo?».

    Lei si accigliò. «Qualcuno lo sa».

    «È quello che continui a dire. Senti, lascia perdere la Prima. Sono andati. Morti. Un vero disastro».

    «Che genere di disastro?».

    «Quello vero, ovviamente».

    Stavano raggiungendo la tenda del comando, quando il caporale Spuntino apparve dal nulla e li intercettò. «Stavo proprio cercando voi!».

    Acquacheta trasalì allo sguardo d’intesa che Folibore le lanciò. Lui e i suoi ammonimenti sui percorsi ingannevoli.

    Spuntino armeggiava per stringere la cintura, una mano sulla pancia prominente come se fosse stato sorpreso di trovarla là. «Dov’è Coltre?», domandò. «Abbiamo bisogno di tutta la squadra. Il capitano sta aspettando».

    «È giù nella latrina», spiegò Acquacheta. «A nuotare nel piscio e nella merda in cerca del suo amuleto».

    «Quello che tiene alla fine del buco del culo?».

    «Bella intuizione», commentò Acquacheta.

    «Quello che una volta ha sparato fuori dal culo su una lancia di fuoco?».

    «La migliore scoreggia incendiaria che abbia mai visto, signore», intervenne Folibore annuendo con solennità. «Scommetto che vi spiace ancora esservela persa».

    «Spiacere non è la parola giusta», ribatté Spuntino. «Be’, ma andatelo a prendere. Tutti e due. Così che non ci siano discussioni».

    «Ma allora faremo tardi tutti e tre», sottolineò Folibore. «Forse riconsidererete il vostro ordine, signore. In questo momento manca un soldato, ma tra poco ne mancheranno tre. E così mancherà metà della Quarta Squadra, signore».

    «Più di metà», intervenne Acquacheta. «Nessuno vede Anyx Fro da giorni».

    Spuntino aggrottò l’ampia fronte. «Anyx fa ancora parte della nostra squadra? Credevo fosse stata trasferita».

    «Davvero?», domandò Acquacheta.

    «Non è così?», ribatté Spuntino.

    «È giunto un ordine?».

    «Non ho mai visto alcun ordine». Spuntino sollevò le mani. «E adesso Anyx Fro è stata traferita!».

    «Ecco perché nessuno l’ha vista», commentò Folibore.

    «Aspettate un attimo, Spuntino», disse Acquacheta. «Come nostro caporale, come mai non sapevate di nessun trasferimento, ordine o roba simile? Non è che il sergente non ci dica mai niente».

    Spuntino la fissò attonito, il viso pingue che diveniva paonazzo. «E invece è esattamente così, piccola strega ottusa! Non ci dice mai niente!».

    «Comunque, allora più della metà», insistette Acquacheta. «Ha ragione lui. Chi c’è qua per la Quarta? Il caporale e il sergente. Gli altri stanno per fare un bagno nella fottutissima latrina. Non sembrerà strano che tutto quello che il sergente potrà fare sarà alzare le spalle per la sua squadra scomparsa?».

    «Oh, Acquacheta», disse Folibore, «sappi che sto ridendo dentro».

    «Che cosa?».

    «Un’espressione così innocente sul tuo viso dolce. E – oh!», aggiunse guardando oltre la spalla della donna, «eccola qua».

    Acquacheta e Spuntino si girarono e videro Anyx Fro avanzare con passo dinoccolato. Il caporale sollevò un braccio. «Anyx! Da questa parte, dannazione!».

    Lei non prese proprio la via più diretta, ma almeno ci provò. Aveva il volto pallido, ma dopotutto era sempre pallida. Detto ciò, aveva gli occhi più infossati del solito. Tormentata da un’indole cagionevole, ecco com’era Anyx Fro. «Povera Anyx», commentò Acquacheta mentre la donna li raggiungeva.

    «Perché povera me?», domandò Anyx. «E perché mi state guardando tutti?».

    «Il Caporale Spuntino aveva detto che eri stata trasferita», le spiegò Folibore.

    «Davvero? Oh, che gli dei siano benedetti».

    «No!», esclamò Spuntino. «Non sei stata trasferita, accidenti. Ma sei sparita per giorni».

    «Non è vero. Sapevo benissimo dove mi trovavo. Scusate, ma non c’è stata una convocazione per la Miseranda Compagnia?».

    «A noi non piace quel nome», affermò Spuntino.

    «A noi chi?», domandò Anyx. «Non i noi che ci chiamano la Miseranda Compagnia, questo è certo. Cioè praticamente tutti, Caporale».

    La conversazione si interruppe quando il Sergente Drillbent emerse dalla tenda di comando.

    Di colpo agitato, Spuntino disse: «Tutti presenti, Sergente, tranne Coltre che sta cagando amuleti nella latrina. Volevo dire…».

    Acquacheta, di umore compassionevole, intervenne: «Voleva dire che Coltre è semplicemente nel cesso».

    «Oh», disse Folibore, «ti amo dal profondo, Acquacheta».

    «Che cosa?», domandò lei. «E adesso che cosa ho detto?». Riportò l’attenzione su Drillbent. «Il punto è, Sergente, che Coltre non è una perdita per questo incontro. Poiché senza il suo amuleto non può comunque fischiare dal culo».

    «Il capitano non era rimasto colpito…», iniziò Anyx.

    Il grugnito del sergente bloccò lei e tutti gli altri. Tutti gli occhi si posarono su Drillbent, che sollevò lo sguardo al cielo bianco. Dopo un istante strizzò le palpebre e si pizzicò il dorso dell’enorme naso, prima di girare sui tacchi e ritornare verso la tenda di comando. Un gesto appena accennato disse loro di seguirlo.

    Acquacheta diede a Spuntino uno spintone. «Seguilo, idiota».

    La tenda di comando era gremita. Ma in realtà, con tutti i soldati della Seconda Compagnia della XIV Legione presenti, salvo uno, avrebbe dovuto essere molto più gremita. Impossibile, però. Acquacheta provò a immaginare dodici squadre stipate là dentro e dovette trattenere un sorriso, mentre avanzava per trovare una parete di tela contro la quale appoggiarsi, come era sua abitudine. Sorridere non sarebbe stato corretto, visto lo stato miserabile della Seconda, e tutti i volti che non avrebbe mai più visto.

    Per un breve istante si chiese che cosa non andasse in lei. Lo stato d’animo generale era pessimo, e così doveva essere. Al capitano restavano tre patetiche squadre, perlomeno fino a quando non fossero arrivate le nuove reclute. Ma quando sarebbero arrivate? Probabilmente mai. E poi c’erano da considerare tutti i compagni morti, e quello era il vero problema. Da quando erano morti lei non li aveva mai considerati.

    Le braccia incrociate, guardò il capitano scrutare il cerchio dei fanti di marina. Nel giro di pochi secondi si sarebbe alzato e avrebbe iniziato a parlare, e chi non lo avesse mai incontrato, chi lo avesse conosciuto solo di nome, lo avrebbe fissato incredulo.

    Il nome del capitano era quello che gli era stato dato alla nascita. E così doveva essere. Nemmeno l’ormai da tempo defunto Braven Tooth avrebbe potuto inventarsene un altro, non quella volta, non per quell’uomo. Era troppo demenziale da comprendere. Lo osservò, seguendone l’esibizione mentre il capitano abbassava lo sguardo per controllare la camicia di seta color lavanda, si sistemava i polsini e quindi esaminava i guanti in morbida pelle che coprivano le dita lunghe e sottili. E poi giunse lo scatto improvviso dalla sedia, sulle gambe, la mano sinistra che si sollevava per librarsi accanto all’orecchio, le dita che fluttuavano, e il volto truccato, così bianco da sembrare cadaverico, si aprì in un sorriso che separò le labbra rosse. «Carissimi soldati, benvenuti!».

    Sì, signore e signori, questo è Rude, il nostro adorato capitano.

    Miseria Nera si piazzò il più lontano possibile dal sergente. Aveva frapposto Oams, Benger e il caporale Morrut tra sé e l’uomo, e ci avrebbe spinto in mezzo anche Di’-di-No, solo che quest’ultima, essendo mancina, combatteva sempre sul lato sinistro di Nera, e niente l’avrebbe smossa da quell’abitudine.

    Non che a Nera non piacesse il sergente, o che non si fidasse di lui, niente di tutto ciò. Il problema era che lui puzzava. Be’, non proprio lui. Era il suo cilicio a puzzare.

    Correvano voci che Spindle fosse l’ultimo Arsore di Ponti rimasto in vita, ma lei dubitava che quell’uomo avesse mai fatto parte di una simile famigerata compagnia. Giravano sempre voci simili sui soldati che avevano un certo non so che. Il popolo ne aveva bisogno. L’esercito Malazan ne aveva bisogno.

    Accenni inquietanti, curiosi misteri, storie sussurrate su una figura solitaria avvistata a vagare al di là dell’accampamento, nel cuore della notte, e a comunicare con gli Spiriti-Cavallo della Compagnia della Morte. Con Iskar Jarak stesso, il guardiano claudicante della Porta della Morte.

    Solo l’ultimo sopravvissuto degli Arsori di Ponti avrebbe potuto stare in simile compagnia, o così dicevano le voci. Vecchi amici defunti da tempo, i corpi sottili come nebbia e i cavalli avvolti dalla brina. Camerati martoriati ancora ricoperti dal sangue della morte, che scambiavano battute con il sergente con il cilicio. Che puzzava di morte.

    Be’, lei non aveva mai visto Spindle intrattenersi con gli spiriti. E il cilicio puzzava di morte perché era stata fatto con i capelli della madre o della nonna dell’uomo. Ma forse anche quella era un’invenzione. Chi mai avrebbe indossato una cosa simile? Per quanto Spindle di tanto in tanto potesse sembrare strano, non era pazzo. Tuttavia il cilicio doveva avere una qualche provenienza. E quest’ultima poteva sì essere la capigliatura di una donna anziana; capelli neri, grigi, a macchia di leopardo.

    Ma a cosa servivano le spiegazioni? Sapere o non sapere non eliminava il fetore. Comunque, si diceva che gli Arsori di Ponti avessero un tatuaggio sulla fronte, un ponte in fiamme – ovviamente – e tutto quello che Spindle aveva sulla fronte erano cicatrici che poteva essersi procurato in mille modi. Segni di una qualche malattia infantile erano molto più probabile degli schizzi di una munizione Moranth. Inoltre, nessuno vedeva nulla di simili da dieci anni o più.

    Arsori di Ponti. Cacciatori d’Ossa. Corvi di Coltaine. Nella storia dell’Impero Malazan gli eserciti perduti erano innumerevoli. Tutti morti ma mai dimenticati. Ma era quello il problema, no? I morti avevano bisogno di essere dimenticati, ma come diceva sempre Di’-di-No, ricordare era una cosa ma il motivo per ricordare era tutt’altra.

    Lanciò un’occhiata alla compagna, sempre alla sua sinistra. Di’-di-No la guardò, e poi scrollò le spalle.

    Di’-di-No lo diceva sempre, vero. Ma per tutte le piume nere del mondo, che cosa accidenti significava?

    Il capitano Rude smise di pavoneggiarsi e si alzò.

    Delicato e Alta Voce della Seconda Squadra avevano trovato una panca da condividere ma avendo entrambi una considerevole stazza, avevano dovuto stringersi parecchio e poiché nessuno dei due era disposto a cedere, erano impegnati in una battaglia tra titani, spalle, fianchi e cosce premuti l’uno contro l’altro in un tentativo di spingere via l’avversario.

    I respiri erano divenuti rumorosi, i due sbuffavano dalle narici e la panca scricchiolava sotto il loro peso. Nessuno dei due guardava l’altro. Non ce n’era bisogno. Anche le fisionomie erano simili: imperturbabili, ottusi, barbuti, occhi piccoli tra nasi schiacciati, bocche apparentemente incapaci di sorridere.

    Tanto vicino ad Alta Voce da poterlo quasi toccare, Così Cupo li osservò da dove si trovava, appena dietro al resto della squadra di Shrake. Era passato dalla Prima

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