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#2 Il Canto delle Montagne - Le Fondamenta di Merìdia
#2 Il Canto delle Montagne - Le Fondamenta di Merìdia
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E-book480 pagine7 ore

#2 Il Canto delle Montagne - Le Fondamenta di Merìdia

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Info su questo ebook

LIBRO SELEZIONATO DAL SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO 2024 PER LA LIBRERIA SELF PUBLISHER
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«Egli, il Principe dei Draghi, salirà con i Sette Divoratori di Anime e con tutti i Draghi minori, e in testa alle legioni demoniache dell’Oblio ci strapperà via il nostro mondo. Allora sparirà la gioia e avrà fine ogni speranza, quando sorgerà l’Era del dominio di Drak-Mor».

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Nòrys il Nano e la Fata Sìgrin si trovano coinvolti nel sanguinoso attentato alla famiglia reale del regno di Nymor, sferrato dalla misteriosa setta degli Arcani, furtivi e micidiali manipolatori di magia. Per colpa di un semplice ritardo, Nòrys e Sìgrin dovranno incominciare un viaggio senza speranza, fino agli estremi confini di Merìdia.
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Tre soldati nymoriani, accomunati da un medesimo destino, scoprono - per bocca di un monaco - un segreto sconvolgente e il preludio della congiura della Settima Era di Merìdia. Il Diadema di Mit-Ùlliand, capace di risvegliare i Draghi, è disperatamente cercato dalla setta degli Arcani, intenzionata a disseppellire gli ultimi segreti dei negromanti della Perduta Civiltà. I Divoratori di Anime sono pronti a uscire dal loro carcere infernale per scatenare la violenza dei sette vizi capitali, che loro stessi personificano (Superbia, Avarizia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Accidia), le orde di Dimòrla e non-morti premono sulle soglie del reame demoniaco dell’Oblio e le Torri d’Ombra spalancano i loro portali magici per invadere con legioni di demoni le Terre Soleggiate e soggiogare le anime di Merìdia con le catene dei sette vizi capitali.
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Le sette mistiche parole devono essere apprese, il verdetto della regina-veggente afferma che Ek-Gàlarion è sorto e il suo cammino sta per iniziare, illuminato dalla benedizione del Santo e della Virginea Stella del Mattino. I Custodi degli Elementi stanno risvegliando la forza selvaggia della Natura, mentre gli Elfi Tecnocrati, sotto il vessillo di Gaia, affrettano il loro piano per respingere l’Oblio e salvare almeno il regno di Azÿleid-Abêrion e la bianca città di Nàrta-Gìlen. I manufatti dei Draghi sono in pericolo e il Leggendario Imperatore di Merìdia sta per reclamare il potere assoluto e portare a termine la follia dell’Haerèticum. Ma sono in molti a bramare quel trono e niente sarà come sembra. 
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Copertina realizzata da Romina Vitali
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Colonna sonora originale realizzata dalla Age Of Chronicles Music Productions
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Tradotto in inglese da Chiara Saibene
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2015
ISBN9788892514171
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    Anteprima del libro

    #2 Il Canto delle Montagne - Le Fondamenta di Merìdia - Cristian Vitali

    Vitali

    Capitolo I

    La caduta

    Il silenzio nella caverna dominava su tutto. Un silenzio freddo e opprimente che odorava di oltretomba oscuro e perduto. Come la dimora di anime irrequiete e malevole, ostinate a non percorrere le vie delle virtù, eternamente rinnegate a onore e lealtà. Solo il vento, a tratti, rompeva ululando quell’inerzia senza pace, quell’angolo di oblio inserito nel tempo. Dalla volta rischiarata di languida luce azzurrognola, presagio di uno sbocco in superficie, pendevano centinaia di stalattiti di ghiaccio. Formavano una cupola di aculei brillanti su una statua immensa di un Drago accovacciato, tutto accoccolato su se stesso, con le ali piegate sul dorso come ampie vele di vascelli e la testa irta di corna seminascosta sul fianco. Il suo sguardo tremendo pareva vigilare incessantemente l’ingresso della caverna.

    Un uomo alto e imponente, avvolto in un lungo mantello scuro, stava al suo cospetto ritto in piedi, come in attesa di qualcosa. Indossava due stivali di opaco metallo argentato, alti fino al ginocchio, due grandiosi spallacci chiodati e un paio di guanti d’arme articolati, della stessa pregiatissima fattura, ambedue leggeri come legno svuotato. Un alone di luce blu spettrale li avvolgeva vagamente, quasi impercettibilmente, tradendo il potente incanto che vi era infuso dentro. Sul volto portava un mascherone dal viso dormiente, da cui sporgevano all’indietro due lunghe e robuste corna ritorte. Un ampio cappuccio dalla falda frontale allungata e appuntita gli copriva la testa, ricadendo sulla fronte del mascherone, tra le corna; la veste appariva elegante e raffinata sulla finissima cotta di maglia che indossava sotto, un intreccio di anelli sottili e minuscoli, simile al manto squamoso di un pesce. Due spade pendevano dai suoi fianchi e nel silenzio più assoluto pareva producessero un lieve e sinistro sfrigolio.

    Aspettava lì da molto tempo, nella medesima posizione, senza fretta, finché dall’interno della statua non vibrò un respiro rauco, che echeggiò grave nella caverna. Alcuni ghiaccioli caddero, infrangendosi con schiocchi cristallini nel vuoto tenebroso. Filamenti di oscurità presero a spandersi come rovi, formando sul ventre del Drago un varco in un nulla senza luce. L’uomo vi entrò scomparendovi dentro, mentre fuori ogni cosa tornava alla normalità.

    «Sei già tornato, Tànantos? Hai con te le prove per dimostrarci che la tua missione ha avuto successo?», rumoreggiarono insieme tante voci roche e profonde. «Nulla di magico vi è in ciò che stiamo aspettando, nulla di maligno. Solo oro, argento e gemme… la brama dei mortali. Ma noi bramiamo la morte! Ed essa… dicci… ha raggiunto chi li portava?».

    Lì tutto era desolazione. Un pavimento di vetro nero si dispiegava all’infinito verso ogni direzione. Lì c’era la paura. Lì c’era l’odio. Anticamera oscura della più agghiacciante disperazione.

    L’uomo alzò gli occhi che scintillarono di cieco cinismo tra le fessure strettissime del mascherone. «Ho portato a termine il mio compito», disse, traendo da sotto il mantello una molle bisaccia di velluto. La fece saltellare due volte sulla mano. Il suo contenuto ticchettava, dando l’impressione di essere piuttosto pesante.

    «Gettali!», ringhiarono impazienti le voci, rincorrendosi fameliche.

    Tànantos allora capovolse la bisaccia riversando decine di anelli meravigliosi e preziosissimi. Guizzarono tutt’intorno con lampi dorati e sfavillii di gemme variopinte, facendo udire per pochi istanti la voce limpida del loro metallo che tintinnava sul freddo pavimento di vetro. Tornò il silenzio in quel nulla oscuro. Mille occhi parevano scrutare avidamente a uno a uno tutti gli anelli. Tànantos attendeva divorato dall’impazienza. «Nessuno si è salvato», disse.

    «No! Mentitore! Mancano tre Cavalieri!», ruggirono furibonde.

    «Sì», ammise Tànantos. «Uno è il Rinnegato. Lui non può più nuocerci. Ha abbandonato il suo anello e con esso tutto ciò in cui credeva. Riguardo ai Due… colpirò l’uno insieme con l’altra. Saranno gli ultimi a cadere. L’Obliata brilla e soccombe. Adesso… consegnatemi il vostro potere e io andrò a prenderli. E quando avrò dato loro la morte, nessuno potrà più impedirmi di stendere la mano sul Diadema di Mit-Ùlliand. I due vecchi re-Cavalieri vi siedono sopra consumati dalla paura, ma presto, molto presto, li rovescerò nella tomba. E con la loro caduta la vostra ora si avvicina».

    Le voci risero forte, facendo vibrare gli anelli, inerti sul pavimento di cristallo. «Prima dimostraci che puoi comandare i nostri eserciti!», urlarono le voci. «Dimostraci che puoi diventare l’Arcano Supremo!».

    L’oscurità si addensò tutt’intorno a Tànantos e, avvolgendolo, si avviluppò nella sua mente, prendendola come in un groviglio di tentacoli vischiosi. Udì un boato e un dolore lancinante attraversarlo più volte. Il buio cessò. Precipitò dall’alto e si abbatté sul terreno ghiacciato della grotta. Davanti a lui s’ergeva la statua del Drago, rischiarata di ceruleo bagliore. Si alzò di scatto in piedi, sollevò le braccia e serrò i pugni corazzati, che ribollirono di ardente furore fino a farsi incandescenti, crepitanti di fiamme azzurre. Percepì un potere smisurato. Non ne vide la fine e per questo gioì di folle eccitazione. Pensò quale fosse il villaggio più vicino. Mid-Èknor. Ma era molto più che un villaggio. Valutò gli altri, immaginando le loro difese. Palizzate di legno, tetti di paglia, milizia sonnolenta. Era troppo poco.

    Percorse il cunicolo d’uscita della caverna, investito da una corrente d’aria gelida. Le pareti e il terreno cominciavano ad apparire incrostati di neve dura, alti cumuli soffiati all’interno dalla forza del vento, mentre in fondo si delineava la spaccatura che conduceva fuori. Uscì respirando a spasmi, fissando con occhi vitrei e traslucidi Mid-Èknor nella valle. Il castello là sulla collina. Le mura di pietra fortificate. Le alte torri. Le molte case. Il fossato. I quattro ponti levatoi. Le campagne e le fattorie che l’accerchiavano come ancelle all’ombra imponente dei picchi selvaggi di Mid-Àrminor. Il fiume Bèred-Nor brillava in lontananza, giovane e impetuoso, desideroso di giungere alle colline di Èndalas e nella vastità dell’Astrale. Non c’era neve laggiù nella valle, solo un tramonto infuocato. «Un’Era nuova preme dentro il bozzolo morto di questo mondo di Merìdia», sibilò scendendo tra i dirupi rocciosi, ammantati di neve. «Terrore e Catene prima della Liberazione. Mid-Èknor… il preludio dell’ultimo atto sta per compiersi dentro di te».

    Il sole stava tramontando, spandendo un fulgore di raggi rosseggianti che allungavano ombre gigantesche. Le campagne ne erano irradiate e risplendevano come metallo incandescente.

    «Padre», chiamò lamentoso Hègan, seduto su di uno sgabelletto scassato, con un cavallino di pezza sulle ginocchia. «Oggi il sole tramonta nel fuoco», e con insoddisfazione restò a guardare suo padre che martellava sull’incudine. Era un uomo robusto e laborioso, dalla folta barba nera, con due occhi buoni e amichevoli.

    Finalmente alzò lo sguardo, mentre con un braccio si asciugava la fronte. «Sì Hègan, pare che nel cielo sia stata accesa la più grande fornace di Merìdia», disse e stava per riprendere il lavoro quando sulla strada principale intravide uno straniero camminare da solo. Nascondeva il volto sotto un mascherone cornuto, e questo lo infastidì molto oltre che spaventarlo. Non si può entrare in città col volto coperto, pensò. «Rientra in casa, tu», disse spodestando rudemente il figlio, suscitandogli una certa ribellione. «Sbrigati!», urlò.

    Hègan allora sgattaiolò intimorito dietro la porta, voltandosi poi sulla soglia ad aspettare il padre. «Vieni anche tu!», esclamò stringendosi al petto il pupazzo.

    Tànantos giunse di fronte a loro in quel momento e alzando una mano salutò il bambino. Lo salutò a lungo, come chi è in procinto di staccarsi dall’amico che parte per un lunghissimo viaggio. Hègan accennò timidamente un saluto, quando l’aria fredda della sera si riscaldò di colpo, mentre faville di fuoco apparvero dappertutto, vorticando come tanti insetti indaffarati. Ci fu una violenta scossa di terremoto. Mid-Èknor intera tremò. Poi tornò il silenzio. E di nuovo una seconda scossa, che squarciò la terra, lasciando ovunque profonde fenditure. Più di una casa crollò. Molti tetti cedettero e alcune torri rovinarono precipitando su altri edifici più bassi. Grida e urla cominciarono a udirsi dalla città, mentre un tremore inquietante cresceva. Come se qualcosa di enorme fosse in procinto di rivelarsi. Il cielo, ormai divenuto blu scuro, cominciò a macchiarsi di chiazze e striature cremisi. Un rosso vivo che non oscurò le stelle. Cambiò soltanto il colore del cielo ed esso divenne pauroso e ostile. Nell’aria risuonava continuamente un rumore sconosciuto e angosciante. Pareva il pulsare di un grosso organo di qualche bestia enorme, dai battiti sregolati e anormali, come colpi di pugno su una membrana tesa.

    Il fabbro si precipitò sul figlio e lo sollevò in braccio. Corse in casa ad avvertire gli altri che uscissero in fretta dalla porta sul retro, quando tutta la casa fu scossa e rapidamente prese a sollevarsi, sospinta da sotto. Il pavimento si rigonfiò e si sventrò lasciando fuoriuscire lentamente enormi punte di metallo nero, come le corna di un’immensa corona malvagia. Giunta a una certa altezza la casa si spaccò, e spezzata in due parti si schiantò con fragore a terra, seppellendo i suoi abitanti. Se ne andarono tutti insieme, quel giorno. Anime pacifiche e generose. Partirono unite, lasciando senza lacrime l’aspro suolo di Merìdia.

    Al posto della casa si ergeva ora un’alta e terrificante Torre d’Ombra, spaventosa come la morte, con due strette scalinate ad arco che convergevano in alto, davanti a una porta chiusa, imbrattata di lordure. Sotto l’arco delle due scalinate si apriva un secondo cancello, ma senza porte. L’intero passaggio era interdetto da una compatta sostanza gelatinosa, che tremava e spargeva increspature concentriche. Sembrava lo specchio di un oscuro pozzo magico, contornato di guizzanti bagliori di fiamme verdi, livide e nere e, affacciandosi nella sua tenebra, dava l’impressione d’inabissarsi in demoniache profondità. In cielo lampeggiò un fulmine, che zigzagò lento nella tenebra rosseggiante.

    «Chiuso non fu l’invalicabile Squarcio. Su Merìdia non c’è più posto per dimore accoglienti… né per famiglie prolifiche», disse Tànantos. «Merìdia è morta. E ciò che è morto va seppellito e dimenticato. Allora inizierà la rinnovazione», e passando davanti al portale magico proseguì verso la città, mentre molte altre Torri d’Ombra spuntarono a cerchio intorno alle mura, stringendole d’assedio. E ciascuna, dopo essere emersa completamente, si illuminava con quegli stessi bagliori di fuoco verde.

    Tànantos, impassibile, osservava il brulichio spaventato degli abitanti che si riversavano sulle strade sterrate, tutti verdognoli in volto per la luce spettrale che emanavano le Torri d’Ombra. A frotte correvano verso le campagne portando i bambini in braccio o un asino per le briglie, mentre chi restava si armava di picconi e tentava di liberare chi era rimasto intrappolato sotto le rovine. Gruppi numerosi di donne, vecchi e bambini confluivano verso i cancelli della città. Scalzi e in vestaglia non si erano portati nulla.

    «Dopo Hòler-Cànder, ecco ora tocca a noi! Il Santo ci salvi!», gridavano.

    «Non possiamo invocare l’aiuto del re!», rispondevano altri. «Egli per primo è rimasto ucciso!».

    «Nymor è perduto!», ripetevano in lacrime, inciampando lungo la via.

    «Ogni speranza l’ha abbandonato!».

    I vecchi, mentre venivano guidati fuori dalle case, mormoravano con sguardi assenti e lontani: «Il Reame dell’Oblio…».

    Tànantos, indisturbato, passava loro accanto, sfiorando i loro mantelli, ascoltando i loro lamenti e i loro gemiti, prendendo a volte fiere spallate da chi si affrettava con garze e medicamenti. Sorrideva sotto il mascherone quando qualcuno perfino si scusava. Una donna chiamava aiuto a gran voce, intrappolata sul balcone, mentre un gregge di capre correva impazzito seguendo la strada principale. Tànantos puntò le mani e, prima che le bestie lo travolgessero, scaricò una violenta onda d’urto che spazzò via il gregge. Nel vedere le capre disseminate anche a grande distanza annuì compiaciuto, e proseguì verso le porte della città.

    «Eccolo!», gridò a squarciagola un contadino, indicandolo con il badile. «L’Arcano è qui!», e fuggì a gambe levate.

    Tànantos si voltò e protese una mano. L’intera struttura di una fattoria, già compromessa dal terremoto, si inclinò di lato lanciando forti schianti di travi spezzate. In un baleno si rovesciò con fragore sulla strada, seppellendo l’uomo sotto un ammasso intricato di rovine. Una pattuglia di cavalleria passò in quel momento diretta a soccorrere la popolazione e vide Tànantos stare in piedi in mezzo alla strada, con il braccio crudele ancora disteso, rilucente di linee magiche. Le macerie della fattoria fumavano come tanti roghi spenti.

    «L’Arcano!», esclamò il capitano sfoderando la spada. «Ecco la causa di tanta sventura!».

    «No»,rispose Tànantos, ritto nella polvere come un fantasma. «Avete trovato la Sventura. Coraggio soldati, fate presto a uccidermi o tra non molto dai portali di quelle Torri vedrete uscire le avanguardie delle Orde dell’Oblio».

    Uno dei cavalieri, un arciere rinomato in città per la sua bravura con l’arco, incoccò una freccia e la scagliò, indirizzandola al cuore. Quando fu quasi al bersaglio, un reticolo di luce magica si srotolò a sfera intorno a Tànantos, deflettendo il lungo dardo. «Una mira eccellente, arciere», disse sfoderando le due spade, dalle lame ricche d’intarsi, da cui trasudava senza sosta un acido verde. Scorreva tra le fessure, si addensava sulla punta come guazza e gocciolava a terra, sfrigolando sinistro.

    «Rutìlius!», disse il capitano al più giovane dei suoi. «Dirigiti subito a Baltòrica e chiama aiuto! Dì loro che mandino immediatamente numerosi rinforzi perché Mid-Èknor è sotto assedio! Ciò che è successo a Hòler-Cànder non sarà più nulla in confronto a ciò che accadrà qui! Va’ adesso! Con questo pazzo ce la vedremo noi», e rabbioso lo incitò a muoversi. «Coraggio cavalieri! Avanti per Nymor!», e gridò caricando con tutta la torma, mentre Rutìlius, spronando i fianchi del suo baio, si dileguava a perdifiato tra fiamme e macerie, verso la grande città del sud.

    Quando furono in procinto di scontrarsi, Tànantos incrociò le lame magiche e le sforbiciò come lampi verdi sul fronte degli assalitori. Tranciò di netto armi e scudi, che volteggiarono a pezzi sull’aia annerita, squarciò corazze, trapassò corpi, falciò le gambe ai cavalli. Le sue mani scattavano avanti e ogni cosa veniva spazzata indietro come foglie al vento. Sgomento e terrore s’impadronirono dei cavalieri mentre anche i più forti e robusti volteggiavano in aria e si schiantavano contro le rovine. Tutta la torma si sparpagliò. Sette erano rimasti a terra. Uno si lamentava imprecando, piegato in due. Gli altri barcollavano storditi, mentre i cavalli rimasti senza cavaliere fuggivano nitrendo terrorizzati. Altri stavano distesi a terra, sgambettando morenti.

    «E ora indicatemi la strada più breve per raggiungere il castello», disse Tànantos. «Il governatore Gàlbius deve ricevermi. Non ho molto tempo».

    «Immonda bestia!», gridò il capitano fuori di sé e, dominando la paura del suo cavallo con la forza delle briglie, caricò da solo su un fianco. Si preparò a vibrare un fendente poderoso, un colpo che avrebbe diviso in due un toro. Tànantos si voltò verso di lui, cercandolo nel buio, e lo attese con brama maligna formulando a fior di labbra un nuovo incantesimo. Rinfoderò le lame, ritrasse le braccia, e l’aria stessa tremò risucchiata; caricò e trattenne una potenza devastatrice e sbalestrandole di nuovo avanti la liberò, generando un’onda magica colossale. Quando il capitano fu a pochi passi da lui vide due occhi pallidi brillare tra le fessure della maschera dormiente. Il ghigno della perdizione. Gli si gelò il sangue, mentre con misteriosa agilità lo vedeva muovere le braccia e con esse una forza invisibile, che scaraventò lui e il suo cavallo da parte, tra le rovine fumanti di una fattoria. Incastrato sotto le macerie vide i suoi cadere trafitti a uno a uno sotto una tempesta di sfere magiche luminescenti. Ne uscivano a centinaia dalle mani aperte dell’Arcano. Una dietro l’altra, e ciascuna andava a colpire il bersaglio, sibilando ed esplodendo. Disarcionati, trafitti, feriti, i cavalieri videro la loro carica finire in disfatta. Quelli che riuscirono ad avvicinarsi ricevevano il tocco repentino della sua mano e come corpi vuoti e leggeri venivano sbattuti lontano.

    «Sei stato tu ad uccidere i nostri sovrani…», sussurrò il capitano inorridito. Uscì a stento dalle macerie e brandendo la spada lo attaccò alle spalle, mosso dal furore e dalla disperazione. A un passo da lui affondò, imprimendovi tutta la forza che gli rimaneva. Il braccio destro di Tànantos guizzò dietro e una delle lame acide intercettò la traiettoria, deviandola in basso, mentre con il sinistro abbatteva un altro cavaliere che lo stava fronteggiando. Il metallo frisse e crepitò, e una parte schizzò via spezzata. Tànantos allora si voltò e affondò subito con l’altra, trafiggendo il capitano e lasciandolo cadere riverso a terra, in un mugolio agonizzante. Prima di morire pensò ai suoi figli e a sua moglie, e muovendo appena le labbra emise le ultime flebili parole per benedirli.

    «Un fedele cane del re. Ma ora sulla Splendida Torre non siede alcun re», decretò Tànantos allontanandosi nel vorticare della polvere. «Ad altri chiederò consiglio. Migliori di voi. Ora potete andare», e rinfoderando le spade rivolse le braccia ai lati, e ogni costruzione nelle vicinanze si sradicò dal suolo in un lento fluttuare, e ciascuna si portò sopra la pattuglia disfatta. I pochi ancora incolumi non fuggirono. Tentarono di portare in salvo i compagni feriti. Li trascinarono per poco e già l’ombra nera che li sovrastava fu su di loro. In un infinito scricchiolare. Poi Tànantos abbassò le braccia lungo il corpo e con un boato li seppellì tutti.

    Avanzò in fretta raggiungendo le porte della città. Le vide pullulare di soldati. Centinaia di arcieri sfilavano sulle mura andando a riempire le torri. Torme di cavalieri uscivano al trotto verso le campagne. Gli zoccoli sul ponte levatoio erano un rombo di tuono. Squadre di spadaccini corazzati si schieravano in assetto da guerra, presidiando l’unico accesso. I capitani scorrevano in mezzo a loro, distribuendo gli ordini e richiamandoli continuamente alla calma.

    Tànantos alzò le mani e pronunciò parole antiche e maledette, che suonavano come fango che scivola sulla pietra. Ruotò le braccia e colpì avanti, con il palmo aperto. La sua figura si distorse e divenne invisibile, mentre un cerchio di luce magica si propagò per un istante intorno a lui. Camminava spedito. Solo l’erba calpestata rivelava la sua fugace presenza. Giunto sulle grandi assi del ponte levatoio avanzò più cauto. Mai al centro. Sempre sul bordo esterno. Arrivò sotto l’arco del cancello, davanti a una moltitudine di soldati, che a riprese alzavano il capo l’uno sull’altro per spiare nel buio delle campagne, dove si stava consumando la tragedia, attendendo gli ordini dei loro superiori.

    Tànantos vi passò in mezzo, percorrendo un varco tra i ranghi col passo felpato dei suoi stivali incantati. Una volta che li ebbe superati vide la città aprirsi deserta davanti a sé. Tutti gli abitanti erano rimasti asserragliati nelle proprie case. Le botteghe e le locande erano state chiuse in fretta e furia. Solo le fiaccole dei lampioni davano un presagio di vita. Sopra i tetti, portato dal vento, correva un mantello leggero di fumo tenebroso, che velava il cielo e le stelle. Tànantos camminava a testa bassa in mezzo alla strada, invisibile, investito solo dal latrare di un cane chiuso dentro un giardino che, pur non vedendo lo scellerato passante, riusciva a percepirlo.

    Percorse le belle strade di Mid-Èknor, pavimentate di ciottoli tondi, dono del fiume Bèred-Nor, e salì le molte scalinate fiorite che conducevano alla collina su cui era costruito il castello. Vi girò intorno più volte, senza trovare alcun passaggio. Tornò allora al portone principale e vi si appoggiò, contemplando il cerchio di Torri d’Ombra che assediava la città, spargendo un fumo tossico carico di faville sfuggenti, che giganteggiava minaccioso spingendo i suoi lembi vaporosi oltre le mura fortificate. Nelle campagne e tra le case dei rioni più esterni si vedevano molti incendi brillare lampeggianti.

    Un fragore di calzari ruppe il silenzio, e molte torce fecero capolino sulla scalinata. Il comandante della guarnigione marciava in testa al drappello. Quando giunse al portone, Tànantos si fece da parte, appiattendosi contro il muro. Il comandante bussò sette volte col batacchio di ferro e gridò: «Fèrus!».

    Uno spioncino si aprì frettoloso e un volto segnato dalla stanchezza si affacciò. Riconobbe il superiore e aprì all’istante. Tutto il manipolo si infilò nel passaggio e per disgrazia fu Tànantos a chiudere la fila. Nel primo atrio del castello si nascose dietro un drappeggio polveroso, e vi restò finché non tornò il silenzio, e il soldato portinaio al suo posto, nella guardiola oscura di fianco al portone. Allora uscì, e senza che le sue calzature facessero alcun fruscio, prese lo stesso corridoio del manipolo e lo percorse tutto. Salì vertiginose scale a chiocciola che si arrampicavano ai piani superiori del castello ed ebbe accesso a grandi saloni vuoti, adornati solo da lunghi tendaggi su cui era ricamata in argento la Torre di Nymor. Avvertì che l’odore del fumo era entrato fin lì. Proseguì e oltrepassò molte sale sguarnite, finché in lontananza due torce ardenti segnalavano l’ingresso a un luogo importante.

    Due soldati d’élite in decoratissime armature lo sorvegliavano giorno e notte. Il manipolo invece doveva essersi fermato prima. Tànantos andò ancora avanti, fermandosi al loro cospetto. Provò un’eccitazione folle e inspiegabile nel guardarli negli occhi, sapendo che loro non potevano vederlo. Sentiva il governatore Gàlbius parlare concitato. E il brusio nervoso di colui che gli rispondeva. Fu certo che stessero parlando di lui. Poi un’andatura frettolosa e cadenzata, e la porta imbottita che si spalancava. Fece pochi passi, infilandosi tra l’ufficiale che usciva e i soldati di guardia, e prima che le ante si chiudessero di nuovo, entrò nella camera privata del governatore. Lo vide in piedi, di spalle, a guardare da una feritoia la sua città assediata dalle Torri d’Ombra. Era un uomo integro, il governatore Gàlbius. Combatteva la corruzione. Osteggiava i briganti fuori e dentro le mura di Mid-Èknor, che fossero luridi pezzenti o influenti ingannatori. Credeva in un regno di Nymor migliore. E vi credette fino all’ultimo istante.

    Un boato assordante risuonò nella città, facendo saltare tutti i vetri, mentre una colonna di fumo nero prese a innalzarsi dalla torre maestra del castello. Intere truppe di soldati furono adunate dai loro capitani e, pur sapendo che ormai era troppo tardi, lasciarono le mura e sciamarono correndo verso la collina. «Disgrazia e sventura!», gridavano. «Come a Hòler-Cànder, la stessa sorte anche a noi! A morte l’assassino! A morte l’Arcano funesto!».

    Subito dopo l’esplosione tutti i portali delle Torri sfolgorarono di fuoco verde, liberando ondate di possenti guerrieri. Mostravano una vaga parvenza umana, resa orrenda dai loro volti violacei e tumefatti, sempre contratti in smorfie disumane e terribili. Assomigliavano alle fauci digrignate dei cani più feroci, e i loro stessi denti, così aguzzi e rigati di sangue, parevano proprio quelli di simili bestie quando banchettano sulla preda sanguinolenta. Indossavano corazze spinose e articolate, irte di brutali spunzoni e rasoi sporgenti, che li proteggevano interamente, nere e vermiglie, come imbrattate di sangue e di pece, decorate di rune macabre e indecifrabili, ben visibili, incandescenti di un rosso acceso; alcuni di loro portavano elmi larghi e schiacciati, pieni di corna e di punte acuminate, e solo attraverso strettissime fessure s’intravedeva il rossore inquietante dei loro occhi malvagi. Nelle mani stringevano invece gigantesche armi nere maculate di rosso, storte e dentate, mazzafrusti e mazzapicchi, asce e martelli, spade e picconi, scale e arieti, corde con arpioni e scudi possenti tempestati di lunghi chiodi. Erano chiamati Dimòrla, i Soldati dell’Oblio, e marciavano mescolati tra pelose bestie deformi e ringhianti, irsute di aculei, con bocche grasse e bavose piene di denti incurvati e appuntiti, e occhi di brace ribollenti di ferocia. Vennero in massa ai cancelli e si scontrarono con l’esercito. Attaccarono insieme da ogni lato della città, e benché fossero selvaggi e spietati non riuscirono a far breccia nelle difese e furono abbattuti sotto fitte sventagliate di frecce.

    Nelle campagne c’era ancora battaglia. Intere torme di cavalleria contrastavano orde più piccole, travolgendole e mettendole in fuga. Le Torri d’Ombra non mandavano più mostri e tutti stavano a fissarle senza sapere cosa fare. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi. Il terrore più oscuro si sprigionava da quelle costruzioni malvagie e il cuore non lo poteva sopportare. All’improvviso tutti i portali sfolgorarono di nuovo di quel tenebroso fuoco verde e altre truppe di guerrieri corazzati e mostri immondi uscirono correndo, attaccando tutte le porte e le campagne. Iniziarono violente scorrerie e scoppiarono incendi, nel susseguirsi continuo di acute grida di donne e pianti strazianti, mentre i cavalieri correvano disperatamente da una parte all’altra e, sebbene uccidessero molti invasori, erano incapaci di ostacolarli tutti, e ovunque si perpetravano saccheggi, uccisioni e violenze.

    Dalla città uscì allora un distaccamento di spadaccini corazzati e arcieri, guidati da un fiero capitano Elfo di nome Èriondor, nato trecentoventi anni prima nei boschi di Ber-Èder. Si diressero verso la Torre d’Ombra più alta e minacciosa, quella che sfidava direttamente i cancelli di Mid-Èknor. Èriondor era convinto che il cuore dell’incantesimo si celasse lì. Ovunque attorno alla demoniaca costruzione il terreno appariva riarso e bruciato, simile al carbone, sgretolato di crepe e profonde fenditure da cui risalivano sbuffi di vapori tossici, mentre l’erba che vi cresceva si era trasformata in cespi di sterpi rigidi e ritorti, taglienti, ricoperti di minuscole spine aguzze. In alto, dalle crudeli pareti metalliche della Torre, lorde di pece, di ruggine e di immondo lerciume, penzolavano cadaveri legati per i piedi, talmente scuri e anneriti da essere irriconoscibili. L’altezza del torrione magico dominava e schiacciava con la sua paura tutto il distaccamento. Èriondor giunse davanti al portale magico, sotto le due rampe di scale, e vi scrutò dentro con odio. «Metà di voi restino qui, di guardia», ordinò. «Rimarrete agli ordini di Kìren, vostra ufficiale, mentre noi perlustreremo la torre».

    La giovane donna si fece avanti allarmata. «Non puoi entrare in quel antro d’orrore, Èriondor!», esclamò con limpida confidenza.

    «La nostra città è sotto la minaccia di un assedio, Kìren», replicò Èriondor prendendole le mani. «Non credo vi saranno altre occasioni per avvicinarsi così tanto. Sarà una notte di tenebra e di morte per Mid-Èknor, se non troveremo un modo per fermare questa maledizione. Non posso essere sicuro di avere ancora tempo per dirti tutte le parole nascoste, che da molto attendono di uscire dal mio cuore. Kìren… se ritornerò, ti chiederò di sposarmi», e prendendole la mano sinistra le infilò all’anulare un anello d’argento, esile ed estremamente raffinato, con un piccolo smeraldo scintillante.

    Lei tremò e sorrise e, velandosi di lacrime, strinse forte le mani di Èriondor, che lentamente la lasciava, portandosi in testa ai suoi soldati.

    «Distruggete qualsiasi cosa esca da quel portale!», gridò Kìren lottando aspramente contro l’emozione, mentre la truppa si disponeva a semicerchio davanti al passaggio magico, come una barriera vivente. Èriondor e i suoi salirono velocemente le scale, con le spade sguainate, ed entrarono nella Torre, mentre la pesante porta di ferro si richiudeva con fragore alle loro spalle.

    In quel momento il portale magico sfolgorò ancora di fuoco verde, tanto che i soldati dovettero arretrare, abbacinati da quella luce spettrale. Si riversò fuori una marea di nemici urlanti, in carica sul muro di scudi che si ergeva contro di loro. Ma i soldati di Nymor che presidiavano Mid-Èknor erano tenaci e ben preparati alla battaglia, e si batterono con coraggio e furia alle soglie della Torre d’Ombra, schiacciando belve e sbaragliando Dimòrla, tanto che spade ed elmi nemici volteggiavano in aria, percossi dal gran furore. Ma l’ombra mefitica della Torre aveva il potere di prosciugare le forze e indebolire la mente. Il verdume mortifero che spandeva bruciava gli occhi e inaridiva la bocca, frastornando il cervello con quel ritmico e continuo pulsare. Il distaccamento si trovò presto in svantaggio e ciascuno dovette raccogliere ogni forza per scongiurare il massacro.

    Il capitano Èriondor, appena mise piede nella torre, vide un ambiente orrido e spoglio, privo di luce, fetido come un antico scannatoio, senza alcun soffitto, con una sola lunghissima scala sprovvista di parapetto che risaliva a spirale le luride pareti, intervallata ad ogni svolta con spaziosi pianerottoli. Su di essi vigilavano gruppi di agitatissimi Dimòrla, sbavanti, con le brutali armi serrate in mano. Il capitano Elfo ordinò l’attacco, mentre dall’alto cominciarono a piovere grandinate di frecce. Un fante di Mid-Èknor fu colto di sorpresa e cadde subito. Gli altri assalirono la marmaglia, con gli scudi alti sulla testa e le spade scintillanti pronte ad affondare. Si scontrarono urlando e molti Dimòrla precipitarono dalle scalinate, schiantandosi sul fondo della Torre.

    I soldati conquistarono il primo livello e salirono ancora, con meno uomini e meno forze. Èriondor combatteva con valore, forte della sua centenaria esperienza, sbaragliando i guerrieri Dimòrla con fendenti e affondi letali. La sua bianca spada si ritraeva e trapassava, s’innalzava e calava, e così frantumi di armatura schizzavano distrutti, ticchettando per le scale e giù in fondo alla Torre; spade e mazze volavano via dalle mani dei loro portatori e sparivano nel baratro sempre più alto che si apriva sotto di loro. Giunsero a metà della Torre, sporchi dello scuro sangue dei Dimòrla, stremati dalla fatica, mentre i sibili e gli schianti delle frecce si susseguivano senza sosta. I loro scudi ne erano ricoperti, simili al manto di aculei degli istrici.

    «Capitano non arriveremo mai lassù!», gridò uno dei suoi soldati, sfregiato in volto da un brutto taglio. «Ritiriamoci e ordinate di mandare altri rinforzi!».

    «Ne restano pochi ormai! E sono tutti arcieri!», rispose Èriondor salendo l’ennesima rampa. «Fuggono e tremano per la sconfitta imminente! Non ci sarebbe ragione di mettere tante guardie in un luogo dove non occorre protezione. Un ultimo sforzo e forse Mid-Èknor sarà salva!».

    Fu in quel momento che Tànantos attaccò il cancello sud. Tornando visibile riversò una valanga di fiamme sulla guarnigione che presidiava il cancello e le mura, scaricando loro addosso ogni tipo d’incantesimo. Raffiche di dardi magici, frecce acide, scariche elettriche, schegge di ghiaccio. Quando nessuno combatteva più si rivolse ai pochi che erano sopravvissuti, feriti e rannicchiati sotto l’arco del cancello. «Aprite», disse imperativo tra i fumi magici che gli aleggiavano attorno, mentre al di fuori si sentivano i pugni e le urla bestiali dei mostri che aspettavano impazienti di entrare. I soldati scossero la testa terrorizzati, mentre cercavano di ritrovare il coraggio per attaccarlo.

    «Aprite!», urlò con maggior furore, generando un’onda d’urto che scosse le grandi ante di legno borchiato. Perfino la marmaglia al di là dei cancelli fece un balzo indietro, spaventata.

    «Razza di idioti», ringhiò stendendo la mano. Usò molto del suo potere per far girare le pesanti catene, che torchiandosi fecero uscire i pioli dai loro alloggi. Udendo quel rumore l’orda di guerrieri e mostri si pigiò tutta insieme sulle ante, schiudendole, e dilagò all’interno, avventandosi subito sui pochi sopravvissuti.

    Mid-Èknor perse il controllo dei cancelli sud e di tutti i rioni su cui si aprivano. Guerra e saccheggio si riversarono per le strade, e mentre nuovi distaccamenti sopraggiungevano a dar battaglia, molte case furono violate e saccheggiate. Scoppiarono numerosi incendi, e torri e abitazioni conquistate si trasformarono in roccaforti nemiche, colme di arcieri Dimòrla e di immondi esseri alati. L’invasione si spinse tutta verso i cancelli ovest, intenzionata ad aprire una nuova breccia nella città, con il grosso dell’orda Dimòrla che si faceva largo con grande fatica. In gran numero furono sterminati nell’attraversamento della città, e alti cumuli di cadaveri ingombravano le vie e le piazze, specie laddove avevano trovato fiera resistenza. Vi erano anche molti soldati nymoriani caduti, sepolti sotto i corpi orrendi dei Dimòrla.

    Lontano, i portali di fuoco brillarono ancora e tra vampe di fiamme ruggenti nuove orde si gettarono all’assalto, varcando in massa le soglie sguarnite e silenziose dei cancelli sud. Seguendo la scia dei cadaveri si apprestarono a raggiungere il resto dell’orda che trovarono mentre dava battaglia a un ennesimo distaccamento. Trombe sonore squillarono disperate, chiamando un immediato aiuto, mentre i rinforzi del nemico si abbattevano come un’onda nera sulla linea difensiva, rompendola tra schianti assordanti di armature e cozzare sordo di scudi contro scudi, clangore di spade contro spade, in un volteggiare furioso di lampi metallici alla luce verdognola, uniforme e stremante irradiata dai portali.

    Nel frattempo il capitano Èriondor era giunto all’ultimo piano della Torre d’Ombra, dove, sporgendosi, si sarebbe potuto vedere tutto il paesaggio circostante. Solo quattro soldati erano sopravvissuti al lungo assalto e, giungendo estenuati sull’instabile passerella di lastre di ferro, videro solitario un ultimo Dimòrla, ritto a fissare la città. Era molto più alto e corazzato dei semplici soldati, con un elmo imponente, colmo di corna e lunghi spunzoni, su cui stavano impalati molti teschi. Per certi versi poteva assomigliare alla Torre stessa. Ne era l’emblema e l’ultimo difensore. Carnefice dell’Oblio era il suo nome. Si voltò e imbracciando lo spadone immenso che portava sulla schiena li sfidò ruggendo.

    Èriondor vide scintillargli al collo un pesante medaglione, oscuro, increspato di onde circolari che si muovevano sotto lo spesso vetro, e ciò che conteneva era tanto simile alla materia di cui erano fatti i portali.

    «Dobbiamo tentare di distruggere quel medaglione», disse ai suoi, scorgendoli sfiniti, grondanti di sangue dalle molte ferite. Lui stesso era ferito e stremato, ma l’ardore di poter salvare la sua città gli infondeva forze impensabili. «L’ultimo!», gridò alzando la spada lucente.

    Il colossale Carnefice muggì imbestialito, caricando il gruppo d’invasori. Èriondor lo affrontò e, schivando il primo micidiale colpo, diede inizio al duello, rispondendo con un fendente velenoso. Scivolò vicino al collo e strappò al metallo rugoso una cascata di scintille dorate. I capelli finissimi di Èriondor, una chioma argentata e splendente lunga fin sotto l’elmo, ruotarono per la violenta torsione e tornarono subito lisci lungo la schiena. Il gigantesco Dimòrla vibrò un colpo netto e basso, mirando alle gambe, ma fu lento ed Èriondor riuscì a saltare e ribattere menando un secondo fendente che colpì e incrinò il grande elmo, spaccando due corna e liberando molti teschi. Schizzarono via oltre la balaustra, cadendo poco lontano dalla zuffa giù al portale.

    Kìren, distesa sul terreno bruciato, guardava con occhi velati la battaglia lassù sulla Torre d’Ombra. Era una visione confusa, piena di nebbia fitta e angosciante, che non si diradava. Sentiva il sangue sfuggirle via da ogni parte, e tutto stava diventando inerte e gelido. Sollevò con immensa fatica il braccio sinistro, trovandolo pesante come un tronco, e ormai del tutto insensibile. In un tremito convulso avvicinò l’anulare alla bocca e baciò l’anello. E i suoi occhi si fissarono in alto, verso Èriondor l’Elfo, capitano di Nymor, che senza tregua respingeva l’ira del Carnefice, tentando di raggiungere il grande amuleto.

    «A me, soldati!», gridava annerito di sporcizia e rigato di sudore, arretrando sempre più stanco. I quattro sopravvissuti infatti non avevano mai cominciato a combattere, e tuttavia non se ne erano ancora andati.

    «A che servirebbe sacrificare le nostre vite?», gridò uno di loro, tenendosi un braccio malconcio. «Dieci capitani servirebbero per abbattere un tale avversario! Non ti seguirò questa volta, Èriondor!», e barcollante prese a scendere la rampa di scale, seguito furtivamente da altri due.

    «Traditori!», gridò l’unico che intendeva restare.

    «No!», risposero piangendo i due. «Andremo a chiamare aiuto! Torneremo!».

    «Non tornerete!», replicò infuriato. «Se tanto coraggio vi fu chiesto per entrare la prima volta qui dentro, non ne avrete mai abbastanza per tornarci una seconda! Spendetevi fino alla morte per la nostra città!».

    Quelli però voltarono le spalle e scesero in fretta, scomparendo nell’oscurità, giù, nella cavità paurosa della Torre. Il Carnefice aveva assestato un potente colpo a martello sul capitano, gettandolo a terra contro la balaustra. Ne sferrò un secondo, ma la bianca lama lo intercettò, bloccandosi sulla ringhiera. Tale fu la potenza che il metallo cedette e si schiantò, spargendosi in tante schegge taglienti. La bella spada di Èriondor fu spezzata, e con essa l’elmo lucente. Il capitano lo fissava spento, stringendo in mano il troncone rotto. Il Carnefice demoniaco respirò rauco, profondamente compiaciuto, voltandosi indietro verso i passi pesanti dell’unico soldato rimasto. Lo affrontò senza esitare, e mulinando un colpo spiovente dall’alto verso il basso lo travolse, facendolo stramazzare a terra. Lo colpì ancora mentre era disteso e si lamentava, trapassandolo da parte a parte. Senza accertarsi che fosse morto tornò su Èriondor, osservandolo mentre tentava di rimettersi in piedi. Gli sferrò un tremendo montante, dal basso verso l’alto, trafiggendolo e sollevandolo in alto, oltre la balaustra. Lo appese a uno degli spunzoni come monito per altri possibili invasori.

    La luce si offuscò e fuggì dai limpidi occhi elfici del capitano, punteggiati di chiarore, e

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