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Le spose sepolte
Le spose sepolte
Le spose sepolte
E-book350 pagine4 ore

Le spose sepolte

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Info su questo ebook

Sono molte più di quello che immagini. Nessuno sa dove sono, ma io so come trovarle.

Dove sono finite quelle donne misteriosamente sparite da anni, mogli e madri di cui i mariti sostengono di non sapere nulla? Uno dopo l’altro, i loro corpi vengono ritrovati grazie a un killer implacabile che costringe chi le ha fatte scomparire a confessare dove si trovano le loro ossa e poi uccide i colpevoli, sempre assolti dai tribunali per mancanza di prove. Il rituale è feroce e spietato: l’assassino vuole così rendere giustizia alle spose sepolte. I pochi indizi lasciati sulla scena del crimine conducono a un piccolo paese, Monterocca, soprannominato la Città delle Donne, un territorio nell’Appennino bolognese circoscritto da mura ed elementi naturali, governato da una giunta completamente al femminile. Il team investigativo, in cui spicca la giovane ispettrice Micol Medici, si trova catapultato in una realtà di provincia quasi isolata dal mondo, con una natura montana che fa da contorno e molti misteri avvolti nella nebbia. Un inquietante enigma conduce gli inquirenti al Centro Studi Rita, un’azienda farmaceutica che sta sintetizzando un anestetico speciale: lo stesso utilizzato dal serial killer come siero della verità per far confessare i colpevoli. Ma quanti altri segreti si nascondono dentro i confini del piccolo paese? Solo Micol ha l’innata capacità di scoprirli, anche se questo potrebbe costarle la vita…
Con Le spose sepolte Marilù Oliva ribalta il genere giallo e ci regala un’indagine mozzafiato che sconfina nel thriller, intrisa di terrore e mistero. Un'ambientazione unica, dove niente è come sembra. Un romanzo con una protagonista indimenticabile, Micol Medici, costretta a farsi largo in un universo di uomini. Una storia che si sviluppa intorno a una domanda: come sarebbe il mondo se al potere ci fossero le donne?
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2018
ISBN9788858980149
Le spose sepolte
Autore

Marilù Oliva

Marilù Oliva Nata a Bologna, è scrittrice e insegna Lettere alle superiori. Autrice di due trilogie noir, ha vinto il Premio dei Lettori Scerbanenco con Questo libro non esiste (2016). Si occupa da sempre di questioni di genere. Ha curato le antologie Nessuna più – 40 autori contro il femminicidio e Il mestiere più antico del mondo?, entrambe patrocinate da Telefono Rosa. È caporedattrice di Libroguerriero.it e cura un blog su Huffington Post.

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    Anteprima del libro

    Le spose sepolte - Marilù Oliva

    madre.

    1

    A Monterocca la chiamavano la Circassa per il suo volto caucasico. La Circassa, infatti, aveva la pelle scura, un elegante naso aquilino e due occhi neri da lupa che nemmeno la matita dorata rendeva più mansueti, occhi che, oltre le lenti degli occhiali alla moda, puntavano l’anima di chiunque entrasse nella sua Farmachìa Artemisia: anche se stava parlando con un altro cliente, trovava sempre un secondo per avvolgere il nuovo avventore con lo sguardo e decifrarlo. Spesso indovinava il suo bisogno prima che parlasse e lo faceva leggendo in primis la postura, quindi i movimenti e la pelle del viso. «La pelle svela tutto di noi. È la carta sulla quale è scritta la nostra storia passata e presente» sosteneva.

    Sapeva riconoscere al volo alcune categorie di sofferenti: chi aveva avuto una colica, chi era piegato in due dall’ulcera, chi era schiavizzato dall’ansia, chi aveva il cuore infranto, chi covava un brutto male e chi sarebbe morto di lì a tre giorni. Senza contare che conosceva abitudini e problemi di tutti gli abitanti del paese – aveva una memoria di ferro – ed era solita risolverli coi suoi metodi naturali. Per chiunque fosse scontento, c’era la medicina tradizionale, da non snobbare, anzi: preziosissima quando le cose si mettevano male. Aveva chiamato Farmachìa Artemisia la sua erboristeria proprio perché lei non proponeva medicine – verso le quali non aveva nulla in contrario, vi era ricorsa abbondantemente l’anno in cui si era ammalata di una brutta polmonite – ma rimedi, soltanto rimedi, quelli che gli antichi greci chiamavano φάρµακοι. Grazie alle piante officinali, il suo laboratorio si colorava di profumi di foresta e bastava che lei aprisse anche solo una delle boccette metalliche in cui erano custodite le radici, le foglie, i petali o i rametti o qualsiasi parte vegetale essiccata, per far venire voglia al cliente di metterci dentro il naso e inspirare fortissimo. Raccoglieva personalmente tutto ciò che poteva, il resto lo ordinava. La gente sapeva che alle sue doti di erborista poteva accostare altre qualità meno terrene e più… non soprannaturali, ma telepatiche, forse collegate ai suoi profondissimi occhi neri. Per questo i cittadini nutrivano nei suoi confronti una sorta di timore reverenziale, frutto di un doppio sentimento che si sovrapponeva: la certezza che prima o poi avrebbero avuto bisogno di lei e la paura dei suoi presagi. La rispettavano e la temevano. Tutti tranne una persona, sua figlia Cecilia. Che in quel momento entrò con la sua divisa da guardia ecologica, si sfilò i roller e si diresse scalza verso un’anfora, la stappò e si accinse a versare un po’ di liquido in una boccettina metallica che aveva al collo.

    La Circassa la guardò con disapprovazione, ma era intenta a imbustare un vasetto di pomata di santolina, estratto da lei preparato per alleviare il prurito delle punture di insetto. Era aprile, già qualche zanzara cominciava a manifestarsi e la signora di fronte a lei si era presentata con due bubboni da puntura sulla guancia. La Circassa procedeva con gesti veloci. Le sue mani, dalle unghie dipinte con uno smalto rosso forte, erano solite gesticolare. E intanto non perdeva di vista Cecilia, che si era lasciata prendere troppo la mano e aveva inavvertitamente versato del liquido sul pavimento.

    Nemmeno il tempo che la cliente uscisse e la Circassa l’assalì: «Non potevi aspettarmi? Sei la solita menefreghista! Che bisogno hai di questa roba?».

    Effettivamente era da qualche settimana che Cecilia aveva sviluppato quella piccola dipendenza, ma non voleva dirle che di motivi per avere il morale a pezzi ne avrebbe potuto elencare diversi. Al momento, quello più impellente riguardava Bizé, l’alano che le arrivava all’anca e che le allietava le giornate da otto anni, quello che tutti gli abitanti erano abituati a vederle scorrazzare accanto, anche senza bisogno di guinzaglio e museruola, perché era un cane assai mansueto, quasi un fratello per lei. Ecco, dalla sera prima, durante il solito giro nei boschi, era sparito. E Cecilia temeva il peggio. L’aveva cercato invano dappertutto, chiamandolo a squarciagola, ma nulla, lui non aveva risposto correndo verso di lei come al solito. A Cecilia non interessava farsi consolare da sua madre; nei momenti di difficoltà detestava i suoi occhioni indagatori incollati addosso, pertanto cercò della carta assorbente per pulire, e non rispose alla Circassa. Il che la mandò su tutte le furie: «Sai quanto costa l’assenzio? Questo assenzio, in particolare, è uno dei più puri e cari. D’ora in avanti me lo pagherai, così imparerai a non sprecarlo».

    La figlia si limitò a fissarla con una faccia da schiaffi. Non sapendo in che modo reagire, la Circassa cominciò la sua rassegna di minacce, che, come sempre, avrebbe finito per non portare a termine.

    «Guai a te se tocchi ancora quell’anfora. Sai cosa faccio? La travaso. E ci metto della piscia di gatto al posto dell’assenzio, ahahah!»

    Alla ragazza scappava da ridere. Vedere sua madre tanto concitata, con quello sguardo così teatralmente minaccioso, le scatenò un impeto di ilarità. La Circassa se ne accorse. «Che cazzo ridi? Vattene da qui, mi fai solo disperdere energie, cretina!»

    Cecilia raccolse i suoi roller e uscì mandando al diavolo la madre. Fuori dal negozio si sedette su un basso pilastro e si infilò i pattini per riprendere la corsa lungo la via principale, quella che spezzava il centro urbano in due parti non proprio uguali. Da un lato, le abitazioni. Dall’altro, ancora abitazioni, poi gli orti e, a chiudere, i calanchi. La planimetria si sviluppava come un ovale lungo circa tre chilometri che da un lato terminava nelle porte, dall’altro in un bellissimo lago artificiale – alimentato in piccola parte da un torrente che si scorgeva sulla destra – le cui profondità erano state progettate da due architette norvegesi: rocce e acqua di provenienza sorgiva gli conferivano un aspetto fiabesco. Chiunque vi si accostasse, fin dai primi caldi, era tentato di bagnarsi nelle sue acque – e molti lo facevano, nelle zone in cui era permesso. Si poteva accedervi solo attraversando Monterocca, perché era inanellato da boschi che terminavano in cocuzzoli impervi e rocciosi, uno spettacolo fotografato compulsivamente dai turisti.

    Cecilia si diresse verso il lungolago con tutta la forza che aveva nelle gambe. La corsa impressa ai roller le dava uno slancio e un’eleganza che pochi pattinatori avevano, la grinta gliela conferivano le sorsate di assenzio appena mandate giù e la rabbia che sua madre le suscitava ogni volta. Sapeva di essere ingiusta con lei. Sapeva di offenderla con i suoi modi tremendi, ma una presenza ingombrante come quella della Circassa finiva per spingere a un bivio chi le stava accanto: costui poteva solo soccombere o rivoltarsi.

    Mentre l’erborista imbracciava l’anfora della discordia per occultarla, sua figlia, ormai lontana un chilometro e mezzo, si fermava di fronte all’incanto del lago Duse – a vederlo restava senza respiro ogni volta, nonostante d’estate vi si tuffasse fino allo sfinimento – e si sedeva sul bordo del pontile, i piedi liberi dai roller, senza calze, a penzolare sopra l’acqua.

    Alle sue spalle sopraggiunse Juana, luogotenente dei carabinieri del paese. La pelle morena e i tratti del viso tradivano le sue origini messicane. Aveva qualcosa di mascolino nel volto, un’espressione da dura; i capelli corti erano stirati ad arte, ma restavano dritti in modo un po’ innaturale, e l’effetto artificioso era aumentato dal biondo ossigenato. Aveva circa trent’anni, la bocca carnosa e una voce da baritono che le conferiva un’aria virile. Ciò non interessava agli uomini fissati con le nere, quelli che la sera arrivavano a Monterocca per corteggiarla e che ogni volta si ritrovavano come risposta un due di picche.

    Juana si accostò a Cecilia e dall’alto del suo metro e ottanta, guardando in basso verso la ragazza seduta, le chiese: «Non è un po’ presto per fare il bagno?».

    «Non ne ho nessuna intenzione.»

    «Brava. Non vorrei doverti venire a salvare.»

    «Be’, nel caso mi buttassi, tu lasciami là.»

    Si sorrisero.

    «Scherzi? Poi chi la sente tua madre?»

    Cecilia tramutò il sorriso in una smorfia amara. «Magari ti ringrazia.»

    «Non dire sciocchezze. Lo sai che ti vuole un gran bene.»

    «Forse ha qualche problema a dimostrarlo.»

    In quel momento la ragazza si accorse di una sagoma che galleggiava, vicino alla sponda sinistra del lago. Si alzò di scatto e la indicò: «Cosa c’è là?».

    Juana aguzzò la vista, ma non si capiva cosa fosse. Qualcosa di scuro e largo ondeggiava a fior d’acqua, come un grosso sacchetto della spazzatura. Le due si lanciarono in quella direzione, la messicana anticipando l’altra tanto che, quando la vicinanza le fece capire cosa affiorava vicino alla sponda del lago, si arrestò di colpo, si voltò verso Cecilia che arrivava di corsa, e la bloccò con le braccia.

    Quella la guardò con gli occhi sbarrati. «Che succede?»

    «Cecilia…»

    «Che cazzo c’è, perché mi stai trattenendo?» gracchiò presagendo qualcosa di brutto.

    «Cecilia, non guardare, vai via! C’è Bizé nel lago.»

    Juana era sicura, la sagoma era quella grigio scuro dell’alano bellissimo sempre accanto a Cecilia, tranne quando, talvolta, sfuggiva al suo controllo e se ne andava a bighellonare in cerca di cibo. Ma nessuno lo temeva, era un pezzo di pane. E adesso Bizé galleggiava sull’acqua senza vita e senza collare. L’urlo della ragazza risuonò tra le cime dei boschi, penetrò nelle cortecce, fece alzare in volo i rapaci, morì infine nelle sue ginocchia che non ressero: e lei si accasciò a terra, piangendo a dirotto dentro l’abbraccio della carabiniera.

    2

    Ludovico l’aveva portata sui colli prospicienti il versante ovest della città. L’idea era raggiungere un crinale e da lì perdersi con la vista nell’orizzonte, così forse sarebbe arrivato attenuato il peso delle parole che si sarebbero scambiati. Quell’incontro non prometteva nulla di buono rispetto alla loro storia, Micol se lo sentiva. E non in virtù dell’intuito che la caratterizzava anche al lavoro – era ispettore capo da un anno –, piuttosto per via di un presentimento profondo, quasi viscerale. Anche se lei non credeva alle premonizioni e a tutte quelle fantasiose manifestazioni fatte di segnali e pseudo-avvertimenti con cui le persone ricamano le possibilità della vita: era troppo concreta e votata al raziocinio per abbandonarsi a tali suggestioni. Eppure, quel pomeriggio strano, su quell’altura che non aveva mai visto, nella solitudine verdeggiante del vigneto accanto al quale lui aveva parcheggiato, le parve di essere immersa in una luce troppo tenue, troppo insidiosa e surreale. Qualche chilometro sotto, oltre a decine di discese che digradavano con dolcezza di curve e colori, Micol scorse le torri, marchio della città: la Torre Garisenda e, più alta, la Torre degli Asinelli. Bologna le sembrò distante anni luce.

    Ludovico le chiese di aspettare, doveva darle una cosa. Estrasse un pacco dal sedile posteriore dell’auto e glielo porse. Di nuovo quel presentimento: fosse stato per lei, non avrebbe mai sciolto il nastro blu, né strappato la carta regalo fantasia. Ci trovò dentro una scatola azzurra e subito le parve strana quella sensazione di bagnato sulle mani, quando la toccò. La sollevò: una macchia scura si stava diffondendo alla base della scatola, impregnandola di viola. Micol deglutì e la scoperchiò, gli occhi rassegnati.

    Lo sapeva che sarebbe stata una brutta sorpresa.

    Dentro c’era un cuore. Batteva ancora. E perdeva sangue. Tanto sangue, talmente tanto che le stava imbrattando le mani.

    Era da moltissimo tempo che Micol non si sentiva così triste: «Non devi darmi il tuo cuore, non voglio che…».

    «No, amore mio, non hai capito» aveva replicato lui, serafico. «Questo non è il mio cuore. È il tuo.»

    Micol si alzò di soprassalto nel letto. Aveva puntato due sveglie: quella sul comodino e quella del cellulare. Sapeva che ne avrebbe avuto bisogno, perché era andata a letto alle due di notte per colpa del suo fidanzato Ludovico che, proprio in vista di quella missione per lei tanto importante, le aveva fatto fare innumerevoli giri dei viali che circondavano il centro storico di Bologna per discutere della loro relazione e di cosa non funzionasse. Ecco perché faceva quegli strani incubi. La sera prima, lui guidava e parlava, ma senza guardarla negli occhi, e le ripeteva parole inconcludenti. Non è più come una volta. Stiamo assieme da cinque anni e non ce ne siamo mai andati in giro per il mondo. Quando ti cerco e non rispondi, poi non ti preoccupi di richiamarmi. Non ti trucchi mai, non ti vesti mai sexy.

    Lei aveva ignorato le ultime due proteste e aveva trascorso ore a giustificarsi, a rassicurarlo che certo, gli voleva bene, ma ogni tanto aveva la testa tra le nuvole e quello era un momento così delicato, lui lo sapeva benissimo: il suo superiore, il commissario Elio Maccagnini, aveva scelto lei come compagna di missione – oltre a un sovrintendente –, e nei giorni seguenti si sarebbe giocata tutto: carriera, autostima personale e rispetto del capo. Se il suo fidanzato fosse stato un po’ meno insofferente, avrebbe potuto mettersi da parte per un attimo e lasciarla lavorare, e le cose poi si sarebbero sistemate. Lui si fermava ai semafori, sospirava, replicava che gli atteggiamenti di lei erano consolidati, si trattava di una certa abitudine a trascurare la dimensione di coppia con tutti gli annessi e connessi. Nessun entusiasmo quando si incontravano, nessun pensiero carino, niente di niente; e più lei cercava di difendersi, più lui avanzava esempi di piccole mancanze quotidiane. Che avesse ragione? Così, si erano fatte le due di notte quando l’aveva riaccompagnata sotto casa, lasciandola con quel quesito che le ronzava in testa e il proposito di ripensarci con calma, appena avesse avuto un po’ di tempo per sé. Così, spossata e dubbiosa, aveva puntato la doppia sveglia per essere sicura di alzarsi e avere tutto il tempo di presentarsi lucida all’appuntamento con il commissario Elio Maccagnini che, eccezionalmente, sarebbe passato da casa sua a prenderla assieme al sovrintendente, Antonio Iacobacci, dal momento che la loro missione prevedeva tre giorni di trasferta e la sua abitazione era sulla strada.

    Ma la sveglia del comodino si era bloccata per colpa della pila che aveva deciso di scaricarsi proprio quella notte. E la suoneria del cellulare con cui si era illusa di destarsi – una sinfonia di Bach – anziché farla saltare in piedi l’aveva cullata nel sonno fino a che il commissario, stanco di aspettarla sotto casa, si era attaccato al campanello.

    Micol raggiunse il citofono del suo miniappartamento in pochi balzi e, appena sentito il suo «Sì?» tra il disperato e l’assonnato, Maccagnini indovinò come se l’avesse avuta di fronte: «Eri ancora a letto?».

    Lei si schiarì la voce: «Scusami. Cinque minuti. Dammi solo cinque minuti e scendo».

    Fu una furia di corse, vestiti infilati in fretta, cassetti lasciati aperti, il trolley riempito alla rinfusa e fuga giù per le scale.

    «Non capiterà più» furono le prime parole che Micol proferì appena entrata nella volante, dopo aver depositato il piccolo trolley nel bagagliaio. Nessuno aggiunse altro.

    Da via dei Lamponi imboccarono via Benedetto Marcello, direzione Murri, lasciandosi pian piano alle spalle Bologna, mentre lei si sistemava in una coda i lunghi capelli ricci, legandoli con uno dei laccetti neri che teneva al polso. Abbassò il parasole per guardarsi allo specchio. Non si era nemmeno lavata la faccia e si notava: gli occhi erano assonnati.

    «Sei riuscita a prepararmi un dossier sul posto in cui stiamo andando?» le chiese il commissario.

    «No, mi dispiace.»

    Lui le aveva chiesto un dossier stampato completo e lei aveva sprecato la serata a litigare col fidanzato, anziché fare il suo dovere. Mannaggia. Quanto le seccava essere presa in castagna. Tanto più che Antonio Iacobacci, il sovrintendente, ne approfittò subito per sciorinare al capo tutto quello che lui aveva imparato su Monterocca. Disse che si chiamava così per via di un antico bastione trecentesco arroccato su un pendio, di cui ora non era rimasto quasi nulla, anche perché era stato fagocitato dal bosco. Intanto a Micol veniva il nervoso, perché le informazioni che stava dando il sovrintendente Iacobacci le conosceva. Lui gerarchicamente era al di sotto di lei, eppure cercava ogni volta di pestarle i piedi, forse perché gli dava fastidio prendere ordini da una donna. Lei ancora non gliene aveva dati, ma prima o poi sarebbe successo. Così quando lui, continuando a ignorarla, spiegò al capo che il paese era circondato da mura o da elementi naturali, Micol riprese la parola interrompendolo: «Certo che ci sono le mura, il luogo è circoscritto. E c’è un solo punto di accesso, custodito, perché nei giorni più trafficati l’ingresso viene limitato».

    Si stavano immettendo in una provinciale fiancheggiata da un lato da un filare di pioppi, dall’altro da case basse in successione, una identica all’altra. Una Volvo li superò, nonostante una doppia linea continua, e Micol riprese: «Si tratta di un municipio come un altro, ma ha fatto scalpore perché giunta e consiglio comunale sono composti in maggioranza da donne. La sindaca è una vecchia volpe della politica. Quando si sono proposte le liste, le candidate erano in prevalenza femmine e hanno chiesto ai cittadini di votarle, certo, in maniera sotterranea, spargendo la voce, del resto il paese è piccolo e si conoscono tutti – ma qualcuno, su un forum che ho trovato in internet, si è lamentato di questa procedura non proprio corretta – per permettere loro di dimostrare quanto le donne fossero in grado di realizzare un buon governo, visto che, nel resto d’Italia, all’altra metà del cielo non vengono date molte possibilità professionali e politiche».

    «E i cittadini le hanno accontentate?» chiese Maccagnini.

    «Non tutti, ma la maggioranza sì. Ha prevalso il rosa e dal momento in cui si sono insediate, quindici anni fa, sono riuscite a farsi riconfermare, pur con le dovute rotazioni.»

    Il commissario meditava; intanto svoltò sulla strada che li avrebbe portati verso i colli.

    Micol notò le sue mani nerborute, i capelli biondicci brizzolati rasati ai lati con una leggera cresta in alto che, insieme agli occhi azzurri dal taglio netto, gli conferivano un’aria scandinava. Sembrava molto sicuro di sé. Una sicurezza che talvolta Iacobacci tentava invano di imitare: Micol sapeva bene che gli sarebbe piaciuto diventare un professionista come il loro capo. Era con questi sogni in testa che si era trasferito dalla Lucania, ma ne aveva ancora di carriera da macinare.

    Maccagnini riprese il discorso: «E gli uomini sono banditi?».

    «Macché. Certo credo che gli uomini lì siano abbastanza avanti.»

    «In che senso?»

    «Non penso che ci vivano dei maschilisti. Saranno ben diversi dalla media italiana, lì.»

    «Perché, secondo te in Italia siamo maschilisti?» domandò Iacobacci con piglio ironico.

    «Un pelino.»

    «Esagerata.»

    «Esagerata? Se io studiassi medicina e volessi diventare primario, nella società italiana avrei molte meno chance di un uomo. I numeri parlano. Idem se volessi entrare in qualche consiglio di amministrazione.»

    «Una donna fa più fatica di un uomo ad affermarsi? A me non pare, vedi che tu sei un gradino sopra Antonio?» le rispose il suo capo, e Iacobacci fece un ghigno di sostegno.

    Infatti. Vedi che lui non sembra essersene accorto?, avrebbe voluto rispondere lei. Ma tacque.

    3

    Un’ora e mezza dopo lasciarono la volante in un parcheggio all’aperto, poco distante da Monterocca, dove erano posteggiate molte auto, e si avviarono in direzione della grande porta trecentesca. Sotto la volta, in cui era ricavata la guardiola che fungeva anche da ufficio turistico, i tre sbirciarono verso l’interno: la cittadina si dispiegava davanti a loro mostrando un ampio viale affiancato da casette in prospettiva, oltre a una piazza tinteggiata da alberi in fiore, cespugli tondeggianti, aiuole colme di margherite. Su una panchina un vecchio leggeva un giornale.

    Riconoscendo i poliziotti dalle pettorine, l’addetto uscì dalla guardiola. Era un uomo magro e alto che, dall’abbigliamento, si sarebbe potuto inquadrare come un artista: calzoni a quadretti colorati, camicia fashion e scarpe arancioni. Avrebbe voluto trattenersi, ma bruciava di curiosità: «Buongiorno, agenti, ma… è successo qualcosa?».

    «Buongiorno, vorremmo parlare con la sindaca. Da che parte è il municipio?» rispose il commissario pacatamente. Non gli disse che erano lì per l’omicidio di Mario Cionti, rinvenuto cadavere in una pozza di sangue dieci giorni prima a Villanova.

    Fabio, l’informatore turistico, moriva di curiosità. Si passò una mano nei capelli a spazzola scuri e indicò davanti a sé: «Sempre dritto per viale Martini, questo qui. Posso chiedervi perché la cercate?».

    «Vogliamo solo farle qualche domanda.»

    Micol non poté fare a meno di pensare alla mattina del ritrovamento.

    Era molto presto, nemmeno le sei, e il sole non si era ancora levato. Alcune pattuglie, già presenti, le avevano confermato la sensazione di essere arrivata in ritardo, sebbene si fosse precipitata al primo allarme. Quando era scesa dalla volante, una brezzolina pungente le aveva fatto venire la pelle d’oca. Ricordò i suoni delle sirene, la percezione di ineluttabilità che la avviluppava ogni volta che stava per avvicinarsi a un morto, l’immenso senso di solitudine che la intristiva quando, ancor prima di calarsi nei panni di detective, osservava in quelli impotenti di spettatrice. Ciascun agente restava solo di fronte alla morte, ciascuno con la sua torcia illuminava lo scempio, all’interno di un cortile privato, e il macabro spettacolo pietrificava gli attori, fissi sulla scena: un uomo supino sopra una pozza di sangue. Il cadavere con la gola sfregiata da un taglio netto. Era stato infilzato con una trentina di spilli, nelle parti morbide del corpo: occhi, bocca, gola, cuore, polmoni, genitali. Grossi spilli da sarta con la capocchia tonda di plastica colorata, di quelli lunghi circa sei centimetri. Micol ricordò di aver distolto un attimo lo sguardo: in posa su un balcone non troppo distante, una gazza ladra aveva gracchiato.

    In quel momento spuntò un ometto sulla trentina che la distrasse dal flashback raccapricciante. Micol lo classificò subito come l’altro informatore turistico, nonché partner dell’addetto vestito da artista: squadrandolo, pensò che è vero che gli opposti si attraggono. Questa coppia ne era la dimostrazione: uno alto e dinoccolato, vestito con un look bizzarro. L’altro piccolo e tozzo, in divisa quasi da pizzaiolo: T-shirt e pantaloni leggeri, con una patacca di unto grande come una bistecca sulla pancia prominente.

    «Che succede, Fabio?»

    «Niente, Dario: i poliziotti vogliono vedere Adele.»

    «Avete già parlato con la nostra sindaca al telefono? Perché è molto impegnata…»

    Il commissario annuì, anche se non era proprio sicuro che Micol avesse preso un appuntamento. Lei, infatti, distolse i suoi occhioni color ambra virante al nocciola e cominciò a preoccuparsi: telefonate ne aveva fatte parecchie. Ma non aveva parlato direttamente con la prima cittadina; ora restava solo da incrociare le dita e sperare di aver trovato i contatti giusti.

    Sospirò, osservando in alto, sotto la volta, la targa col nome della porta. Mimma, nome di battesimo Irma Bandiera – c’era scritto – Partigiana uccisa dai nazisti il 14 agosto del 1944.

    Ricevute le indicazioni per il municipio, ringraziarono e si avviarono lungo la strada maestra. La prima cosa che notarono era l’assenza totale di automobili: Micol ne approfittò per consultare internet e appurare quello che avrebbe dovuto scoprire la sera prima, se il suo fidanzato non le avesse impedito di prepararsi, ovvero che lì non si poteva entrare con alcun veicolo a motore. La cittadina era munita di tre pullmini da attivare in caso di bisogno, ma gli abitanti, che per spostarsi esternamente lasciavano le loro automobili nel grande parcheggio fuori le mura, preferivano percorrere le distanze a piedi o in bicicletta o coi pattini. La via principale, infatti, era un ampio viale sia pedonale che ciclabile ombreggiato da ciliegi e castagni. Con un’atmosfera così pittoresca e accogliente, si faticava a immaginare che proprio da lì era forse partito l’omicida che stava inquietando l’opinione pubblica.

    Mentre procedevano studiando l’ambiente con colpi d’occhio veloci, li raggiunse in bicicletta una donna sui quarant’anni, bionda, il volto amichevole e la divisa da carabiniere. Frenò, scese presentandosi come Giovanna Geremicca, impugnò il manubrio con entrambe le mani e si avviò insieme a loro, dal che tutti e tre capirono che dalla porta qualcuno l’aveva avvisata e che ora lei si sentiva autorizzata a chiedere spiegazioni.

    «Come mai dovete parlare con la sindaca?»

    Visto che era una collega – di un ordine diverso, certo: da poliziotto il commissario era abituato a considerare i carabinieri come cugini di secondo grado – Maccagnini giunse subito al sodo: «Stiamo indagando sull’omicidio di Mario Cionti».

    Lei lanciò un’occhiata rapidissima al volto di Micol, dove una cicatrice scendeva fino al mento dalla parte inferiore della guancia. «Quell’uomo ucciso una decina di giorni fa a Bologna e infilzato con gli spilloni?»

    «Esatto. È stato ammazzato a Villanova: sgozzato, per

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