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La pioggia dentro al cuore
La pioggia dentro al cuore
La pioggia dentro al cuore
E-book118 pagine1 ora

La pioggia dentro al cuore

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Info su questo ebook

Sandro è un uomo, per altri un ragazzo, con diversi amici e una vita piacevole, e con un lavoro sicuro, anche se lui non cerca la sicurezza.... Vive una vita che qualcun altro, forse tanti altri, vorrebbero vivere al posto suo.
Ma gli altri vedono solo quello che si può vedere...solo quello che decidiamo di far vedere!

“Prese i soldi e li mise nella borsetta, e dopo aver dato un bel sorso al vino, si alzò dalla poltrona.....”
Mi prese una mano e mi tirò per farmi alzare dicendo:
“Vieni con me”...

“Ripensavo a tutta la giornata e mi rispondevo che mi era davvero piaciuta, tutto quel rischio….cazzo, l'adre­nalina si era impadronita delle mie arterie!”
LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2014
ISBN9786050321081
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    Anteprima del libro

    La pioggia dentro al cuore - Michel Orrú

    Ringraziamenti

    Premessa

    Scorre, come l'acqua nelle grondaie,

    liquida, scivola senza tregua;

    come il sangue, scorre, nel sangue si mischia,

    lo abbraccia e lo accarezza, subdolo.

    Amico veritiero di menzogne,

    compagno prodigo di certezze.

    PARTE PRIMA

    Era il quinto giorno consecutivo che la pioggia veniva giù, nulla di eccezionale in altre parti del mondo, forse, ma non a Cagliari, e nonostante l’inverno fosse comin­ciato da ormai una ventina di giorni.

    Cagliari, capoluogo di una terra bellissima, di una terra vera, forse anche troppo; abitata da un popolo che aveva vissuto e continuava a vivere in continua contraddizione con sé stesso. Un popolo che ha su­bito tante conquiste e umiliazioni, ma che non si è mai piegato alla cultura, alle tradizioni o abitudini degli stranieri, anzi, se ce ne fosse bisogno, ha tratto dai periodi di sottomissione una forza e una consapevolezza delle proprie radici e della propria cultura, che ancora oggi resiste ed esiste. Forse solo la televisione e la stampa moderna, riusciran­no a compiere quel lavoro che consiste nello spo­gliarci della nostra cultura. Ma questo è un altro di­scorso.

    La pioggia non rende onore alla città, la fa apparire come una fotografia sbiadita dal tempo, dalla luce. Na­sconde il suo odore caratteristico, di salsedine, di iodio, la veste con un abito che non le appartiene. Gli stessi abitanti non la riconoscono, non la sentono più così familiare, protettiva, la attraversano con diffidenza, si sentono insicuri, senza più quella baldanza che contraddistingue chi vive in un porto di mare.

    Il porto, con la via che si affaccia su di esso, è il cuore della città, da cui si diramano le arterie principali.

    Cagliari si affaccia sul Golfo degli Angeli, e con il suo hinterland raggiunge una notevole dimensione in quanto ad estensione sul territorio.

    Anche oggi, mentre mi facevo la barba, guardavo dalla finestra del mio appartamento. Iniziavo a vedere, come sempre, colonne di macchine che si impadronivano del­le strade, come se volessero riscuotere un loro diritto, come se si nutrissero di cemento e di chilometri.

    La pioggia continuava a cadere e la radio suonava un noto motivo degli Eagles, per lo meno note liete per la mia anima; istintivamente il mio viso si rilassò in una smorfia piacevole.

    Mentre mi vestivo, completo blu scuro, camicia bianca e scarpe in cuoio marrone, abbinate alla cintura, e tutto italiano, accesi il cellulare con un gesto che oramai era diventato automatico. Subito il cellulare dimostrò il suo stato di salute emettendo un suono che contraddistin­gueva l’arrivo di un messaggio. Non lo lessi, come era mia abitudine la mattina appena alzato, in più in quell’istante ero attratto dal mio viso allo specchio;

    mi osservai per qualche istante, immobile, come se guardassi qualcuno che non riconoscevo più, eppure ero sempre io, forse con qualche ruga in più, ma pur sempre io: Sandro

    Durante la colazione, iniziai a ripassarmi mentalmente le cose che avrei dovuto fare durante la giornata, di que­ste la quasi totalità mi risultarono, solamente al pensar­le, di una noia insignificante. L'unico pensiero che die­de motivo agli angoli della mia bocca di fare un movi­mento piacevole, fu quello di sapere che la sera di quel giovedì mi sarei incontrato con i miei amici.

    Preso da un poco consueto senso di gioia, uscii di casa tirandomi dietro la porta.

    Infilatomi nell'ascensore che porta al garage, improvvi­samente squillò il cellulare, e senza guardare chi fosse, risposi

    Sii?

    Ciao Sandro, sono Luca, sei già in ufficio?

    No, sto prendendo la macchina proprio adesso, che succede?

    No, niente, è che sono rimasto improvvisamente a pie­di e…

    Ok, passo a prenderti tra cinque minuti

    Grazie, ah ascolta....

    Non fece in tempo a dire altro che ormai avevo riattac­cato.

    Luca era un mio collega, Luca Serra, ma non eravamo amici, almeno per come intendo io l’amicizia. Lavora­vamo nello stesso ufficio della stessa Pubblica Ammini­strazione, il classico lavoro al quale quasi tutti ambisco­no, ma che di speciale ha ben poco. A questo lavoro ci sono arrivato grazie a un concorso, dopo la laurea in Giurisprudenza, per la contentezza dei miei genitori.

    Il tempo di accostarmi al marciapiede che mi ritrovai con il mio collega in macchina, inondato dal suo profu­mo e dalla sua parlantina, due tra le cose che mi infasti­discono maggiormente la mattina.

    Luca era un bravo ragazzo, un po’ noioso e invadente. Subito mi mise al corrente del guasto che si era verifica­to alla sua macchina, non tralasciando nessun particola­re, come da sua abitudine.

    Terminato il suo rendiconto, chiese:

    Beh, ieri che hai fatto?

    Nulla, sono rimasto a casa, mi sono noleggiato un dvd.

    Ovviamente conoscevo il suo modo di fare, sapevo che non vedeva l’ora che fossi io a chiedere la stessa cosa a lui, e anche se la cosa non mi interessava minimamente, ma sapendo che tanto non mi avrebbe risparmiato, allo­ra rivolsi la stessa domanda anche a lui.

    Fu come dare a un bambino il permesso di fare qualco­sa, leggevo la gioia nei suoi occhi.

    Mi raccontò che aveva invitato una ragazza a cena a casa sua, una tipa che aveva conosciuto qualche tempo prima in un locale. Ogni tanto interrompeva il suo rac­conto per rivolgermi qualche domanda, e avere delle ri­sposte ovviamente di approvazione da parte mia, e sulla ragazza, e su quello che aveva preparato per cena, e sul­la musica che aveva messo e sul vino che aveva scelto. Per non tirare la cosa troppo per le lunghe, lo feci con­tento e gli dissi che era uno che ci sapeva fare con le donne, poi finalmente arrivammo in ufficio. Provai un senso di libertà, e ciò era un paradosso, ancor più marcato dal momento che in genere l’ingresso in quel palazzo era per me come entrare in una gabbia, forse una gabbia dorata, come diceva qualche amico mio, ma pur sempre una gabbia.

    In mio soccorso giunsero degli altri colleghi, con i quali Luca non possedeva la stessa confidenza, e insieme prendemmo l’ascensore. Una volta arrivati al piano, uscimmo e senza dare repliche dissi:

    Ci vediamo più tardi

    Ok, a dopo.

    Sollevato, mi infilai nella mia stanza, appoggiai la vali­getta sulla scrivania, e mi diressi verso la finestra che aprii. Osservai il panorama, e non potei fare a meno di vedere che il mare aveva lo stesso colore plumbeo del cielo, istintivamente richiusi la finestra e mi sedetti alla scrivania, buttando indietro il collo, facendolo schiocca­re in un movimento che ripetevo sistematicamente.

    Rimasi in quella posizione con gli occhi chiusi pensan­do a una serie di cose slegate tra loro; era un modo di fare che mi aiutava a focalizzare l’attenzione sulle que­stioni più urgenti, se mai ce ne fossero.

    D’improvviso riaprii gli occhi, mi raddrizzai sulla pol­troncina e presi l’agenda; controllai le cose che mi ero segnato, sia di lavoro, che personali, e iniziai la mia giornata lavorativa.

    Mentre sbrigavo una delle tante pratiche amministrative, tutte così uguali tra loro, squillò il cellulare che avevo lasciato dentro la tasca interna della giacca appesa nell’appendiabiti; mi alzai, presi il telefono e controllai il nome, rispondendo subito dopo:

    Siii

    Ciao vecchio mi sentii dire dall’altro capo

    Ooohh caro avvocato, come andiamo?

    Bene, incasinato ma bene; senti per stasera allora?! Ci vediamo da Angelo verso le 19.30?

    Si, per me va bene, hai sentito qualcun altro?

    No, ma adesso chiamo Giangi e Stefano, e se non ven­gono si fottano... ahahah

    Giusto, dai… allora ci vediamo dopo, ciao bestiaccia!!

    Ciao maledetto.

    L’avvocato era un mio carissimo amico, Piero, ci erava­mo conosciuti al Ginnasio e da lì avevamo iniziato a fre­quentarci, consolidando una simpatia che più tardi si sviluppò in profonda e sincera amicizia.

    Pensando a lui, sorrisi volutamente, senza sforzo, era un personaggio incredibile, schietto, forse anche troppo, ma molto buono; con lui non mi ero mai sentito né a di­sagio né annoiato, si trascorrevano serate all’insegna delle risate, ma capitava anche di confidarci l’un l’altro per questioni molto serie o per una parola di conforto, insomma vi era un’amicizia a trecentosessanta gradi.

    Dopo che conclusi la telefonata, presi una marlboro dal pacchetto sulla scrivania, me la infilai in bocca e le die­di fuoco, assaporando con la prima boccata il suo tabac­co. In quel momento iniziai a riflettere sul fatto di dover smettere di fumare, una volta o l’altra; non tanto indotto dal manifestarsi di sintomi fisici, quanto piuttosto per una consapevolezza che prima o poi ne avrei pagato le conseguenze, leggere o pesanti che fossero.

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