Sulle onde
Di Franco Sorba
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Info su questo ebook
Uno scenario all’apparenza idilliaco, in cui è difficile inserire la ragazza gentile dall’inconfondibile profumo agrumato che pare essere sempre non troppo distante da Cora e dai piccoli talvolta banali incidenti che le accadono.
Un romanzo breve intrigante e piacevole, da gustarsi tutto d’un sorso.
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Anteprima del libro
Sulle onde - Franco Sorba
Epilogo
Prologo
Guardo il mare appoggiata alla ringhiera di vetro del balconcino, ma non vedo nulla. È così adesso la mia vita. Diversa da un tempo, da quando il mare lo vedevo, guardavo la spuma bianca e la sabbia che si inumidiva. Ora sento solo gli spruzzi sul volto. Ma ricordo tutto, ogni piccolo particolare dell’acqua del mare e delle spiagge bagnate.
In realtà vedo ogni cosa dentro di me e la sento amplificata, dilatata.
Il cuore si è inaridito, ma per un altro motivo.
Non so se vi interessa sentire la mia storia, ma ho del tempo adesso e non mi resta altro da fare. Mi fa piacere parlarvi di me.
Tutto iniziò una mattina di primavera, sembrava una bella giornata di sole, ma le nuvole erano dietro l’angolo…
1
Come tutte le mattine Viola era partita per prima: le lezioni all’università cominciavano sempre presto e i mezzi pubblici si bloccavano a lungo nel traffico. Subito dopo era la volta di Edoardo, sempre di corsa e con la ventiquattro ore tenuta sotto il braccio mentre si accendeva una sigaretta. Rigorosamente era obbligato dalle donne di casa a fumare fuori dalla porta d’ingresso, era tollerata la sigaretta accesa nel giardino, ma non i mozziconi. Edo rispettava la direttiva in modo perfetto, un po’ meno funzionava con gli amici di Viola, che lasciavano spesso tracce del loro passaggio. Io avevo ancora qualche minuto, rassettavo la cucina, lavavo le tazze e le posate, guardavo se nel frigorifero mancava qualcosa da acquistare nel pomeriggio. Mi accorsi che era finito il formaggio, dovevo provvedere uscita dall’ufficio. Ricordavo di aver visto in offerta la fontina, che era il formaggio preferito di Edo, con questo e qualche forma di ricotta avrei accontentato tutti. Al primo piano finii di rifare il letto, Viola si occupava del suo da tempo. Lasciai la finestra aperta. Le previsioni davano sole per tutto il giorno e poi anche al primo piano avevamo installato le inferriate di ferro per protezione: eravamo abbastanza tranquilli e mai in effetti avevamo avuto brutte sorprese al rientro.
Quindi eravamo la classica famiglia italiana felice e piena di programmi sul futuro.
Fino ad allora.
Fuori l’aria era fresca ma luminosa. Riempii di crocchette la padella di Chef Manolo, il pit-bull di Edo: aveva il nome di un cuoco che avevamo conosciuto in Spagna e di cui avevamo apprezzato i piatti. Il micio di Viola, Signorino, venne a strusciarsi contro le gambe. Viola era di corsa e non gli aveva dato da mangiare. Aprii una bustina e riempii il suo contenitore di plastica. Poi vidi la tazza dell’acqua: era mezza vuota. La presi e ne aggiunsi un po’. Avrei fatto bene a lasciarla com’era. La mia vita e quella della mia famiglia non sarebbe cambiata.
L’auto era parcheggiata vicino alla casa, la raggiunsi in fretta mentre leggevo le carte che dovevo portare in banca dove lavoravo da ventiquattro anni. Era la documentazione di un mutuo che non mi convinceva. Il richiedente Salvatore Cuoscolo, un piccolo impresario edile, non mi era piaciuto per il modo di fare arrogante, inoltre risultava protestato, anche se oltre dieci anni prima. Ne avrei parlato col direttore, ma il mio parere era negativo. Con quel compito sgradevole accesi l’auto e mi diressi verso la strada provinciale che collega Poirino a Torino. Un raggio di sole mi accecò prima di immettermi sulla via principale: non sapevo ancora che sarebbe stato l’ultimo sole che avrei visto.
Dopo la piazza, un camion si inserì davanti a me con una manovra azzardata. Suonai il clacson in segno di disapprovazione. Il camionista mi rispose con una strombazzata da gran cafone. Il suo mezzo era carico di lastre di materiali bianchi, mi sembrava cartongesso. Alla rotonda in uscita da Poirino, prima frenò con un acuto stridio, poi partì quasi con rabbia, di colpo e facendo fare un sobbalzo al mezzo. Vidi stampato sul retro, sopra la targa, il nome della ditta costruttrice del camion: Pillon. Quel nome fu l’ultima cosa che mi rimase impressa.
In cima al mucchio di materiale piatto vi era una lastra di vetro non fissata. Alla ripartenza scivolò all’indietro e, superando di qualche centimetro il bordo del camion, uscì silenziosamente dal mezzo per finire pesantemente contro il vetro della mia utilitaria che si frantumò in mille pezzi. Anche la lastra si ruppe in schegge, poiché non era un vetro doppio con l’adesivo in mezzo.
Mi resi conto dell’incidente, ma non compresi cosa stesse accadendo. Ricordo che qualcosa mi aveva colpito gli occhi e cercai di spostarlo tagliandomi le mani, ma sicuramente feci dei danni irreparabili. Poi per fortuna persi conoscenza.
Il camionista forse non si accorse di nulla e proseguì senza fermarsi, facendo perdere le sue tracce. Non