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BOBINE: Antologia di racconti brevi a cura di Silvia Fraccaro
BOBINE: Antologia di racconti brevi a cura di Silvia Fraccaro
BOBINE: Antologia di racconti brevi a cura di Silvia Fraccaro
E-book253 pagine3 ore

BOBINE: Antologia di racconti brevi a cura di Silvia Fraccaro

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Info su questo ebook

a cura di Silvia Fraccaro
Bobine
, come la bobina di un film, il rocchetto di un filo da cucito, o un rotolo di lenza da pesca che si srotola di storia in storia. Ventisette racconti uniti da un filo che dipanato ricostruisce un multiforme, intenso, emozionante viaggio nell’immaginario dei giorni nostri.
I ricordi di una bambina “cattiva” attraverso cui viviamo la sua realtà oscura; una donna ferma al semaforo e una ragazzina in fuga da casa senza meta; un giovane uomo sulla riva di un fiume con in mano la foto del padre morto in guerra; un marito geloso e ossessivo, la riabilitazione in un centro specializzato e il divorzio dalla moglie; un cuoco vegetariano che ammazza le aragoste per mestiere; una coppia messa alla prova dal trauma di un terremoto; una giovane donna che soffre di disturbi d’ansia; un coraggioso bambino africano su un’imbarcazione clandestina in un viaggio carico di morte e speranza verso le coste italiane; un ex partigiano che fugge dalla povertà del dopoguerra e tenta la fortuna in America; un’anziana creduta da tutti una strega e che “vive felice perché non cerca nulla oltre ciò che ha”; una donna che si costituisce ai carabinieri sostenendo di aver ucciso il marito violento e dispotico, e ancora: uno spaccato dei Quartieri Spagnoli a Napoli; una donna sola che si sente minacciata da uno sconosciuto sull’ultima corsa della metro di Milano; una chiave segreta lasciata da un misterioso ex collega d’ufficio; un avvocato sospeso dall’albo; l’amore di un padre vedovo per la figlia che soffre di disturbi della personalità.
In questi racconti a “tema libero”, che spaziano anche per genere letterario (non mancano racconti fantastici, distopici, umoristici e che giocano con l’ironia e l’esperimento linguistico), leggiamo di generazioni a confronto, rapporti familiari e di coppia intrisi di amore, potere, sogni e spesso di violenza e di oscuri misteri e di segreti. Bobine ricompone un’ampia geografia sentimentale e umana dislocata in tutta Italia, da nord a sud, dalle isole a sperduti paesi di campagna, fin dentro luoghi immaginari, e anche oltre, dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico.
Giraldi Editore ha sempre puntato sul racconto, creando negli anni una collana esclusivamente dedicata a questa forma narrativa scovando voci talentuose e sorprendenti e pubblicando autori e autrici esordienti e non. Questa antologia è la naturale continuazione di questo percorso di ricerca letteraria. Giraldi Editore ha voluto indire un bando aperto a tutti e a tutte scommettendo proprio sul racconto e su scritti inediti in forma breve volutamente senza indicazioni tematiche, diversamente dalla consuetudine delle antologie.
Racconti di:
Alessandro Albarelli, Giulia Alberti, Anna Ardito, Maria Gabriella Bassani, Beniamino Cardines, Gianni Cascone, Sergio Casoni, Catiuscia Ceccarelli, Marilisa Dalla Massara, Elisa Della Scala, Andrea Ferri, Antonello Maria Giacobazzi, Daria Giuffra, Francesco Locane, Piero Mariella, Gianluca Morozzi, Bruna Orlandi, Onofrio Pagone, Giulia Perna, Luca Petralia, Gabriella Pirazzini, Guido Rojetti, Daniela Rosas, Mario Saccomanno, Giulia Schiavoni, Fausto Severi, Monica Vodarich, Andrea Zuffa.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2020
ISBN9788861558113
BOBINE: Antologia di racconti brevi a cura di Silvia Fraccaro

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    Anteprima del libro

    BOBINE - AA.VV.

    Autori vari

    BOBINE

    a cura di Silvia Fraccaro

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-811-3

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2020

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Prefazione

    di Silvia Fraccaro

    A un certo punto del mio apprendistato mi misi in testa che, se volevo diventare un bravo scrittore di racconti, dovevo imparare a pescare. […] Che cosa si fa, mi dicevo, quando si va a pesca? Si sta da soli in riva all’acqua, che è la vita, cercando di catturare i pesci che ci nuotano dentro, che sono le storie. Da fuori l’acqua nasconde i suoi segreti, ma un bravo pescatore è in grado di capire la profondità dal poco che si vede in superficie, di pazientare mentre tutto sembra immobile e di tenersi pronto a combattere.

    A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti, Paolo Cognetti (minimum fax, 2014)

    Così inizia il libro di Paolo Cognetti che racconta i misteri dell’arte di scrivere racconti: la pesca come metafora della scrittura, l’arte misteriosa e la solitudine della creazione letteraria, la pazienza, l’attesa che il pesce abbocchi all’amo, la concentrazione, la profondità. Da qui ci siamo lasciati ispirare per il titolo: Bobine, come la bobina di un film, il rocchetto di un filo da cucito, o un rotolo di lenza da pesca che si srotola di storia in storia.

    Per molto tempo il racconto in Italia è stato considerato una forma letteraria minore, a differenza della lunga tradizione di cui gode in altri paesi, soprattutto negli Stati Uniti dove i maggiori scrittori e le più grandi scrittrici frequentemente sono passati dalle prestigiose e storiche riviste letterarie quali il New Yorker, Granta, The Paris Review, che pubblicano racconti e fanno scoprire nuove voci facendo da trampolino di lancio per chi vede visto pubblicato un suo racconto. Anche in Italia abbiamo avuto grandi autori e autrici di racconti, tra cui Giorgio Manganelli, Anna Maria Ortese, Italo Calvino, Primo Levi, Matilde Serao, Grazia Deledda, ma solo negli ultimi anni si è vista un’inversione di rotta: il racconto è uscito dall’ingiusta gabbia in cui era stato relegato – il racconto come il fratello minore del romanzo – e vediamo comparire sempre più pubblicazioni di antologie e raccolte, nonché di riviste cartacee e on line, e case editrici specializzate in questo genere letterario. È nata tutta una nuova generazione di scrittori che pubblicano quasi esclusivamente racconti, come Valeria Parrella e Paolo Cognetti.

    Giraldi Editore ha sempre puntato sul racconto, creando negli anni una collana dedicata a questa forma narrativa e pubblicando autori e autrici esordienti e non, scovando voci talentuose e sorprendenti. Questa antologia è la naturale continuazione di questo percorso di ricerca letteraria che sta a cuore alla casa editrice. Rossella Bianco, direttrice editoriale di Giraldi Editore, insieme a tutta la redazione, ha voluto indire un bando aperto a tutti e a tutte scommettendo proprio sul racconto e su scritti inediti in forma breve volutamente senza indicazioni tematiche, diversamente dalla consuetudine delle antologie, quasi sempre tenute insieme da un filo narrativo, che sia il genere letterario o un particolare topic. Bobine invece spazia tra i generi e le tematiche senza congiunzioni logiche, ma solo apparentemente perché leggendo un racconto dopo l’altro ci si accorgerà del filo nascosto che li tiene tutti insieme. Sicuramente la sfida era indagare l’immaginario collettivo e multiforme di questa seconda decade degli anni Duemila, volevamo scoprire di cosa era popolato, e leggere delle gioie e delle paure delle persone, delle aspettative, dei sogni, della memoria e del presente. In questa raccolta quindi troviamo tanta varietà, tematica e di forma, di spazio e di tempo: sono presenti racconti surreali, talvolta grotteschi, vicini ad altri che ci parlano della contemporaneità, come la narrazione di migrazioni, di sopravvivenze, di rottura dei confini, di spostamenti e di viaggi; emergono la questione razziale, di classe, e il grande problema ancora attuale della disparità di genere tra uomini e donne e della violenza sulle donne; ci sono racconti che parlano di disturbi d’ansia (così diffusi in questo particolare periodo storico) e della difficoltà di comunicazione e comprensione tra generazioni diverse. Sono racconti di periferie e di metropoli, di paesi di provincia e di campagna. E non mancano i temi da sempre cari al racconto: la famiglia, la coppia, la malattia, la maternità, le separazioni dolorose, i tradimenti, le grandi storie di incontri e di passione, e il passato sempre così presente.

    Alla fine della lettura è come se avessimo dispiegato davanti a noi un immaginario a mosaico il più variegato e impensabile, un caleidoscopio che ci racconta del nostro presente, del paese in cui viviamo, delle speranze e delle angosce di ognuno di noi, della fantasia e della bellezza della poesia e della scrittura, del potere dell’immaginazione.

    Unica richiesta esplicita per i racconti presentati e proposti era la brevità. Una caratteristica che richiede tempo, talento, attenzione, lima, e un’indagine interiore complessa. Si dice spesso che in tanti siano in grado di scrivere un romanzo, in pochi quelli che sappiano scrivere un buon racconto. La brevità, come la capacità di essere essenziali e precisi, è frutto di un duro lavoro: invenzione, capacità di scrittura e soprattutto di riscrittura. Nelle poche pagine di cui è fatto un racconto tutto deve essere equilibrato, pensato alla perfezione; nulla di inessenziale può trovare spazio affinché avvenga quella particolare magia racchiusa in ogni forma breve: l’arte di raccontare una storia che abbia in sé la rivelazione di un qualcosa di unico attraverso la lacuna e il sospeso, più che il pieno e il visibile.

    Parlando di racconti si cita sempre la teoria dell’iceberg di Hemingway, il quale in un’intervista a George Plimpton, uno dei fondatori della rivista The Paris Review, racconta: I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno. Nel racconto il non detto, la lacuna, l’omesso, sono più importanti di ciò che viene esplicitato e raccontato. E chi legge un racconto partecipa attivamente al disvelamento della storia: ricostruisce ciò che viene prima, ciò che avverrà dopo, dopo l’ultima frase; fa connessioni, riempie il vuoto degli spazi. In poche pagine, a volte in poche righe, avviene la magia della perfezione, ogni frase e ogni singola parola occupano uno spazio e hanno una forma precisi e unici. I gesti, gli occhi, i volti, le espressioni così come il tempo, i colori, la luce assumono una particolare forma di essenzialità, costruiscono un distillato di esperienza umana, come dice David Leavitt nella prefazione alla raccolta di racconti di Mary Robison, Dimmi (minimum fax, 2004). Leavitt aggiunge: Abbiamo trascorso sì o no cinque minuti con queste persone, eppure ce ne stacchiamo con l’impressione di conoscerle da sempre. […] L’essenziale non è, come nella maniera ottocentesca, catalogare l’esperienza umana; si tratta piuttosto di lasciare intendere, attraverso qualche tratto di grande espressività accuratamente scelto, la sua ricchezza. Ci vogliono un buon occhio e un buon orecchio per i dialoghi, la capacità di cogliere il cosiddetto dettaglio espressivo caro alla scrittura minimalista, sapendo che ciò che resterà fuori, fuori dal cono di luce, conta tanto quanto ciò che viene illuminato da chi scrive.

    Lo diceva esplicitamente Flannery O’Connor, una delle più grandi scrittrici di racconti statunitense, ed è quello che rende un racconto un buon racconto: la capacità in breve spazio di svelare il più possibile il mistero dell’esistenza.

    Nei racconti presentati in Bobine gli autori e le autrici hanno tentato di fare proprio questo: sedersi pazientemente sulla riva di un fiume, attendere che il racconto abboccasse all’amo, e con abilità di distillatori e cesellatori creare una storia che a un certo punto regalasse a chi legge un’illuminazione, una rivelazione sulle vite che non sono le nostre ma che in realtà ci assomigliano molto.

    BOBINE

    COSA SALVI?

    di Alessandro Albarelli

    Com’è che proprio adesso mi viene questo ricordo?

    Quei giochi stupidi che si fanno da giovani.

    La mente è strana; in un modo assolutamente casuale, o almeno credo, fa affiorare certi particolari, avvenimenti lontanissimi con immagini così fulgide che sembra di averli appena vissuti, ma totalmente slegati dal presente. Persino gli odori riaffiorano.

    I giochi delle liste: eccomi seduta ai giardinetti, venti e più anni fa, a sperimentare felice i primi tiri di sigaretta, con tosse annessa.

    Vai su un’isola deserta, devi scegliere tre dischi: cosa salvi?

    Ci passavamo interi quarti d’ora con le mie amiche. Forse allora, seduta su una panchina a controllare la ghiaia con i piedi, avrei salvato Arena dei Duran Duran, qualcosa dei Depeche Mode, oppure la canzone di quel fusto di Nick Kamen, Each Time si chiamava? Ci faceva impazzire.

    Domani è l’ultimo giorno della terra, cosa fai?

    Di sicuro sarei andata a svaligiare il negozio del Corso per prendere una quantità di scarpe con tacco dodici, a seguire una scappata in riviera con bagno di mezzanotte, poi un bacio col biondo della quinta F fino alla fine.

    Ora sono dentro casa con mio marito, a tre giorni dal sisma; nessuno sa che siamo qui. È zona rossa e non si può entrare, ma serve qualcosa per passare questi giorni che non si sa bene dove andare. Neppure si sa come andrà a finire perché tutto balla ancora, o sono solo le nostre natiche ad avere una riscoperta sensibilità.

    Questa volta il giochino è reale.

    Hai cinque minuti e poi la casa crolla, cosa salvi?

    Ci muoviamo rapidi tra i cocci e le crepe. Ho tirato su appena un po’ la finestra del salotto e quella della camera. Si intravede quello che è il nostro appartamento e ci muoviamo sicuri giusto perché lo conosciamo bene. È solo una sortita per prendere l’indispensabile. Siamo a giugno, fuori splende un sole caldo e il cielo è di un blu accecante, ma stranamente inizio a mettere nelle sporte solo coperte di lana grossa e qualche maglione pesante. Passo nel corridoio dove da una crepa intravedo l’altra stanza.

    La nostra foto è per terra, il vetro crepato. Due volti sorridenti sotto la pioggia, io e mio marito, bagnati fradici sul parapetto di un ponte. Siamo a Miranda do Douro, in Portogallo, e sotto scorre il fiume che dà il nome alla città. Stavamo facendo il sermone ai pesci, proprio come nel libro di Saramago, e lui mi aveva accontentato in questa follia. Bagnati come i pesci di sotto.

    Le stanze e i cassetti che apro con foga sono pieni di paura.

    Sento la voce di mio marito: Questo lo prendiamo? E questo?

    Io dico sì, senza neanche capire quale sia l’oggetto in questione. Sul tavolo in cucina ci sono ancora le tazze della colazione con strisce di latte e briciole di biscotti seccate. Il trenino di legno di nostro figlio è per terra, un pezzo di qua e uno di là.

    Ci sono, sul bracciolo del divano, i due rotocalchi che mi avrebbero tenuto compagnia durante la settimana. Improvvisamente sento una rabbia ingiustificata a pensare di non poterli leggere con calma. Come se fosse la cosa più tragica che mi potesse capitare. Mi viene anche una voglia insensata di fare le pulizie.

    I miei occhi passano leggeri sulle cose; se mi fermassi a pensare a ogni oggetto alienato dalla sua normale posizione non reggerei, lo sento.

    I cinque minuti sono passati. Con un senso di urgenza scendiamo le scale calpestando la calce tutt’intorno; i passi rimbombano strani nella tromba di un condominio vuoto.

    Alla fine usciamo con due sporte di cose. Cambi intimi, coperte e maglioni sufficienti a un viaggio in Alaska, tutto il mobiletto del bimbo, due libri di favole, fogli bianchi e colori, deodorante per le ascelle, ciabatte, tute, tagliaunghie, rasoio, 500 euro tolti dalla finta mensola, una raccolta di De Gregori, due bottiglie d’acqua e grissini. Ecco a cosa ci siamo ridotti, ecco quali sono le necessità prime di una piccola famiglia in fuga; ripararsi dal freddo che non c’è e sopperire a un vago bisogno di dignità, comunque.

    Sono in fila allo sportello del comune, allestito in una vecchia scuola. Come molti, sto aspettando alcune carte per avere accesso ai contributi. Cambi di residenza provvisori, posticipo di tasse, esenzioni ticket; ce n’è per tutti i gusti, da perdersi.

    Sono passati sette mesi. Apparentemente sembro in forma, ma in realtà sento una parte della mia persona che si sta sgretolando. Come un calanco dell’Appennino. Non sono depressa, sono solo pensierosa. Beh, ogni tanto mi sono riaccesa qualche sigaretta e poi, nella casa provvisoria, si litiga un po’ più spesso, ma niente di grave. Ho sentito dire che gli psicologi si aspettano un’ondata di pazienti a causa di questo sisma. E comunque non sono solo io ad avere questo fastidio, si vede bene. È ormai un marchio sul fondo degli occhi di tante persone. Come i tre anziani qui a fianco. Non so cosa dicono ma con le mani mimano i movimenti del terreno, i segreti insondabili delle faglie, non ne posso più. In molti non vedono l’ora di raccontarti dov’erano e cosa hanno visto e sentito quel giorno; io ricordo solo che all’improvviso mi sono trovata con la bocca e la gola secche; niente più saliva!

    Siamo tutti qui per lo stesso motivo, con lo stesso comune denominatore; come la signora che sventola due carte davanti all’impiegato dicendo che non possono chiudere l’acqua in casa sua; o come quella al suo fianco, che si rifiuta di pagare il canone della televisione per una casa distrutta.

    Oppure l’uomo appena entrato. Avrà circa quarant’anni, come me. Ben piantato, spalle larghe e un viso rude con basette folte che si attaccano al ciuffo castano scuro. Sembra Elvis Presley, ha anche la giacca di pelle. Ricordo quel pezzo di un concerto dove Elvis ride per più di cinque minuti. Una delizia. Ha anche lui dei fogli in mano e si mette in coda vicino a me, lasciandosi scappare un sospiro di noia per l’attesa.

    Mentre lo guardo, lui mi guarda. Dagli occhi passa ai miei fianchi; sì, non sono mai stata un figurino. È anche una vita che non vado a sistemare i capelli.

    Faccio le mie carte in silenzio, sapendo che rimarranno sepolte per molto tempo negli archivi. Non me la prendo, anche dopo aver saputo l’ammontare degli aiuti omeopatici che arriveranno dallo Stato. Esco che piove e mi perdo al telefono con una tata dell’asilo. C’è da abbozzare una festa di Natale per i piccoli.

    Già, mio figlio. Alcune di queste ultime notti l’ho tenuto stretto tanto forte che temevo di fargli male. Mi è venuto quasi da pregare a volte, in silenzio e al buio, con la faccia affondata nel cuscino. Nonostante gli siamo sempre vicini, anche per lui è venuta a mancare la terra sotto i piedi. Ci vede discutere su tutto e perdere le staffe per un nonnulla.

    Arrivo al parcheggio; rimango un attimo sotto la pensilina a decidere di bagnarmi nel tragitto verso l’automobile. Arriva il piccolo Elvis al mio fianco. L’ho capito dall’odore della giacca. Ci guardiamo per pochi istanti in silenzio, poi mi saluta, senza timidezza, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Io ricambio il saluto, perché tanto il mondo è cambiato.

    Breve, veloce, ci scambiamo un bacio furtivo, a malapena le nostre braccia si cingono. Mi stupisco che sia un non fumatore. Abbiamo perso un altro pezzettino di quello che eravamo mesi fa.

    Ci accompagna soltanto la nota fissa di una grondaia al lavoro.

    Lo sto aspettando in un angolo dell’albergo, all’aperto.

    È una sera freddissima e il cielo appare scuro e lattiginoso allo stesso tempo, promette neve. Potrei andare dentro, ma preferisco aspettare al freddo, mi calma. E poi è già lì che parcheggia. Non ho dubitato un attimo sul fatto che fosse un tipo puntuale. Un bacio non è tradimento, ma io sento di aver già tradito in un qualche modo. Se mi sentissero le mie colleghe mi darebbero della stupida. Ho sempre tenuto alla mia integrità e a quella della mia famiglia. A quel mattone dopo mattone che abbiamo realizzato insieme: io, mio marito e nostro figlio. Amo mio marito, anche se non lo sopporto più tanto. Si infiamma per delle sciocchezze, come trovare il rotolo di carta igienica finito; torna a casa e si mesmerizza davanti alla televisione come non ha mai fatto, con gli occhi persi chissà dove. Alcune sere non risponde neanche al mio Buonanotte, rendendo ancora più misera una serata fatta di silenzi e frasi trasparenti. Probabilmente lui avrà da rinfacciarmi altrettante piccole mancanze. Sì, lo amo, è che questa sventura ha preso le nostre vite e le ha mostrate per la prima volta come delle misere e insignificanti storielle da due soldi. Piccole esistenze che hanno bisogno perlopiù di fortuna per non essere spazzate via con un colpo di vento. È veramente come una roulette; a chi va bene e a chi va male, non c’è nessun criterio. È disarmante sapere che tutto si può stravolgere senza il tuo consenso. Certo, ci sono disgrazie ben più gravi che sentire la terra tremare e perdere per un po’ di tempo le proprie radici. Ci sono mille e più modi per vivere una vita infame e disgraziata. Non so che dire; la paura della fine è stata palpabile, ogni piccolo uomo piangerà le proprie disgrazie, e anche ogni piccola donna... cosa mi viene in mente. E poi mica devo giustificarmi con me stessa. Farò quello che sento, c’è stato un cortocircuito; la strada è piena di fumatori compulsivi che sembrano ciminiere, carrette di imprese edili come formicai, i video poker che battono cassa continuamente.

    Vivo questa nuova condizione di equilibrista al buio, ci sono crepe sui muri, ci potrà pure venire qualche crepa nell’anima... qualche cazzata sarà concessa, no?

    Non lo so, sto già male.

    Siamo in camera. Mentre salivamo il portiere e i pochi avventori a malapena hanno alzato lo sguardo. Ci sentiamo in colpa e ci muoviamo come fuggiaschi, ma tutti intorno sembrano infischiarsene.

    Mi siedo sul letto, in camera c’è caldo. Osservo i quadretti con scorci di piazzette anonime appesi al muro e inizio a spogliarmi lentamente. Abbiamo entrambi il cuore in tumulto.

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