Nugolo di ricordi
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Anteprima del libro
Nugolo di ricordi - Umberto Donato Di Pietro
nipoti."
I versi e la vita
Umberto Donato Di Pietro e la forza del vernacolo
di Cinzia Baldazzi
Ogni scrivano pe’ llegge una lettra e ppe’ ffaje la risposta
pijava tre bbajocchi; adesso invece pijeno cinque o ssei sordi.
Eppuro io de ’sti scrivani n’ho cconosciuti certi che a fforza
da scrive’ lettre, hanno fatto furtuna; sso’ aritornati ar paese
co’ quarche mmijaro de scudi, e ffanno li signori.
Giggi Zanazzo
Nel 1975, Bob Dylan fa dire al protagonista di una sua canzone:
Abbi cura dei tuoi ricordi, perché non potrai viverli di nuovo. ¹
L’ammonimento del Premio Nobel per la Letteratura 2016 è da tener presente sfogliando le pagine di Nugolo di ricordi, l’ultima raccolta di poesie in romanesco (con versione in italiano a fronte) di Umberto Donato Di Pietro, articolata in una κοινὴ linguistico-culturale coinvolgente.
È di certo nel giusto Virginia Woolf nell’asserire come ognuno di noi mantenga segreto nel cuore il tempo trascorso:
Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo. ²
Con Di Pietro siamo invece in grado di entrare nel testo, nei suoi messaggi, e di condividerli appieno. Quindi, in L’arberello:
Era bello l’arbero che faceva
mi padre
Sotto la reggìa attenta de mi
Madre
Nun era n’abbete ma un ramo
accroccato
Senza ‘e palle, quarche
portogallo appiccicato
A vorte puro quarche
carammella
e poi:
De lo spirito de sta festa nun
s’aricorda più gnisuno
Magara c’è puro tanta gente
c’arimane a diggiuno
Nel sottotitolo, l’autore precisa: «Quarche vorta… pare ‘n po’ scurile. Ma, tant’è, er dialetto romanesco s’esprime così». In effetti, nel vernacolo romano un posto di rilievo è ricoperto dal frequente utilizzo del richiamo a parti anatomiche e sessuali: ad esempio, in La sculettata, «Ma nun me poi sculettà denanzi»; o, analogamente, i ‘A gallina, «Poi quanno vié la sera, la faccia / sua da culo, / Aritorna da la moje ch’è / l’ammore suo», riferito a un individuo sfrontato, provvisto di faccia tosta - dunque privo di vergogna - con un viso, una personalità, che dovrebbe cercare di nascondere.
Tale ricchezza di vocaboli e frasi licenziose, solo in apparenza offensivi, deriva in modo verosimile da una tradizione linguistica risalente alla Roma papalina, dove il popolo incolto era abituato a comunicare per mezzo di una lingua immediata, pur densa di sfumature. A ben vedere, però, i nobili e il clero non parlavano molto diversamente. Esemplare, a riguardo, l'aneddoto raccontato da Giggi Zanazzo su papa Lambertini, il pontefice parolacciaro
Benedetto XIV:
cciaveva er vizzio, pe’ rinforzà’ er discorso, de dì ogni sempre: «Ca...!». Và con sé che quanno fu ffatto papa, quela parola sempre in bocca nu’ je stava ppiù bbene. Ma ssì, annàtelo a ttienè’! ³
In un simile atto di parole - per citare il grande Ferdinand de Saussure - si trascurava, nel codice della langue, l’asse selettivo dei sinonimi, ovvero delle possibili alternative concettuali. Allo stesso tempo - e Nugolo di ricordi ne è campione esemplare - si tende a enfatizzare il messaggio in un’intelaiatura logico-intuitiva ed espressiva immediata, svincolata da superflue empasses, ossia simmetrica alla dote principale del complesso di unità stilistica inerente il campo semiologico della cultura popolare. Umberto Donato Di Pietro alimenta pertanto, nel suo vernacolo romano, un’autentica spontaneità creativa, delegando l’efficacia delle espressioni più alla scelta fonetico-sonora dei segni-segnali che alla loro preminenza significativa nel contesto globale, evitando, al contempo, di impoverire il contenuto del lessico, potenziato invece da una forza interna, energica, progressiva.
Ne consegue una serie di diverse e distinte riduzioni del narrato nel veicolo dei versi, capace di esaurire la riflessione proposta nella sottile cattiveria di una speculazione schietta e ironica: «Corre la mente, come a volere di vento», suggerisce il nostro autore. In Er bullo de quartiere ascoltiamo:
Se dice chi gallina nasce ‘n tera
ruspa
E tu inutile che penzi d’avè la
cresta
La cresta te la vedo morto
spesso
So’ le corna che porti poro
fesso.
Quando accade di affrontare sentimenti, ma anche convenzioni sociali e interpersonali, emerge nelle strofe di Di Pietro, al contempo e con pari successo, la cultura di scambio di strutture socio-economiche, vicende comuni, cliché individuali tipici del mutevole patrimonio della κοινὴ capitolina: in un insieme così organizzato, il punto di vista pragmatico-operativo della ποίησις profila un orizzonte dove le esperienze illustrate non rischiano di essere falsificate o sottomesse a schemi normativi, precettivi, eterogenei, astratti. Il legame soggetto-oggetto si offre quindi come trait d’union tra l’artista, il poeta e la singolare realtà della ποιητική τέχνη, incrementato in un rapporto poetico raccolto, caldo, immaginoso.
Leggiamo in ‘A città mia:
Se sentiva er profumo d’ogni
staggione
Le solitarie funtanelle messe a
‘gni cantone