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Nugolo di ricordi
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E-book91 pagine57 minuti

Nugolo di ricordi

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Info su questo ebook

Le strofe in vernacolo di Nugolo di ricordi rinviano direttamente alla cultura popolare: la spontaneità creativa si alimenta di unità logico-intuitive ed espressive immediate, spesso affidate all’efficacia fonetico-sonora, in altri casi a una schietta, ironica e sottile cattiveria.

L’antologia è potenziata da una forza interna energica, progressiva, il contenuto lessicale è incrementato in un rapporto poetico caldo, immaginoso, il “volere artistico” è risolto nella funzione che i versi stessi possono svolgere in confronto della vita: il realismo diviene strumento di rappresentazione di un uomo “totale”, intero, completo.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2020
ISBN9788831664608
Nugolo di ricordi

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    Anteprima del libro

    Nugolo di ricordi - Umberto Donato Di Pietro

    nipoti."

    I versi e la vita

    Umberto Donato Di Pietro e la forza del vernacolo

    di Cinzia Baldazzi

    Ogni scrivano pe’ llegge una lettra e ppe’ ffaje la risposta

    pijava tre bbajocchi; adesso invece pijeno cinque o ssei sordi.

    Eppuro io de ’sti scrivani n’ho cconosciuti certi che a fforza

    da scrive’ lettre, hanno fatto furtuna; sso’ aritornati ar paese

    co’ quarche mmijaro de scudi, e ffanno li signori.

    Giggi Zanazzo

    Nel 1975, Bob Dylan fa dire al protagonista di una sua canzone:

    Abbi cura dei tuoi ricordi, perché non potrai viverli di nuovo. ¹

    L’ammonimento del Premio Nobel per la Letteratura 2016 è da tener presente sfogliando le pagine di Nugolo di ricordi, l’ultima raccolta di poesie in romanesco (con versione in italiano a fronte) di Umberto Donato Di Pietro, articolata in una κοινὴ linguistico-culturale coinvolgente.

    È di certo nel giusto Virginia Woolf nell’asserire come ognuno di noi mantenga segreto nel cuore il tempo trascorso:

    Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo. ²

    Con Di Pietro siamo invece in grado di entrare nel testo, nei suoi messaggi, e di condividerli appieno. Quindi, in L’arberello:

    Era bello l’arbero che faceva

    mi padre

    Sotto la reggìa attenta de mi

    Madre

    Nun era n’abbete ma un ramo

    accroccato

    Senza ‘e palle, quarche

    portogallo appiccicato

    A vorte puro quarche

    carammella

    e poi:

    De lo spirito de sta festa nun

    s’aricorda più gnisuno

    Magara c’è puro tanta gente

    c’arimane a diggiuno

    Nel sottotitolo, l’autore precisa: «Quarche vorta… pare ‘n po’ scurile. Ma, tant’è, er dialetto romanesco s’esprime così». In effetti, nel vernacolo romano un posto di rilievo è ricoperto dal frequente utilizzo del richiamo a parti anatomiche e sessuali: ad esempio, in La sculettata, «Ma nun me poi sculettà denanzi»; o, analogamente, i ‘A gallina, «Poi quanno vié la sera, la faccia / sua da culo, / Aritorna da la moje ch’è / l’ammore suo», riferito a un individuo sfrontato, provvisto di faccia tosta - dunque privo di vergogna - con un viso, una personalità, che dovrebbe cercare di nascondere.

    Tale ricchezza di vocaboli e frasi licenziose, solo in apparenza offensivi, deriva in modo verosimile da una tradizione linguistica risalente alla Roma papalina, dove il popolo incolto era abituato a comunicare per mezzo di una lingua immediata, pur densa di sfumature. A ben vedere, però, i nobili e il clero non parlavano molto diversamente. Esemplare, a riguardo, l'aneddoto raccontato da Giggi Zanazzo su papa Lambertini, il pontefice parolacciaro Benedetto XIV:

    cciaveva er vizzio, pe’ rinforzà’ er discorso, de dì ogni sempre: «Ca...!». Và con sé che quanno fu ffatto papa, quela parola sempre in bocca nu’ je stava ppiù bbene. Ma ssì, annàtelo a ttienè’! ³

    In un simile atto di parole - per citare il grande Ferdinand de Saussure - si trascurava, nel codice della langue, l’asse selettivo dei sinonimi, ovvero delle possibili alternative concettuali. Allo stesso tempo - e Nugolo di ricordi ne è campione esemplare - si tende a enfatizzare il messaggio in un’intelaiatura logico-intuitiva ed espressiva immediata, svincolata da superflue empasses, ossia simmetrica alla dote principale del complesso di unità stilistica inerente il campo semiologico della cultura popolare. Umberto Donato Di Pietro alimenta pertanto, nel suo vernacolo romano, un’autentica spontaneità creativa, delegando l’efficacia delle espressioni più alla scelta fonetico-sonora dei segni-segnali che alla loro preminenza significativa nel contesto globale, evitando, al contempo, di impoverire il contenuto del lessico, potenziato invece da una forza interna, energica, progressiva.

    Ne consegue una serie di diverse e distinte riduzioni del narrato nel veicolo dei versi, capace di esaurire la riflessione proposta nella sottile cattiveria di una speculazione schietta e ironica: «Corre la mente, come a volere di vento», suggerisce il nostro autore. In Er bullo de quartiere ascoltiamo:

    Se dice chi gallina nasce ‘n tera

    ruspa

    E tu inutile che penzi d’avè la

    cresta

    La cresta te la vedo morto

    spesso

    So’ le corna che porti poro

    fesso.

    Quando accade di affrontare sentimenti, ma anche convenzioni sociali e interpersonali, emerge nelle strofe di Di Pietro, al contempo e con pari successo, la cultura di scambio di strutture socio-economiche, vicende comuni, cliché individuali tipici del mutevole patrimonio della κοινὴ capitolina: in un insieme così organizzato, il punto di vista pragmatico-operativo della ποίησις profila un orizzonte dove le esperienze illustrate non rischiano di essere falsificate o sottomesse a schemi normativi, precettivi, eterogenei, astratti. Il legame soggetto-oggetto si offre quindi come trait d’union tra l’artista, il poeta e la singolare realtà della ποιητική τέχνη, incrementato in un rapporto poetico raccolto, caldo, immaginoso.

    Leggiamo in ‘A città mia:

    Se sentiva er profumo d’ogni

    staggione

    Le solitarie funtanelle messe a

    ‘gni cantone

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