Un paese da vendere
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Anteprima del libro
Un paese da vendere - Federica Bernardini
Federica
PREFAZIONE
Un paese da vendere
di Federica Bernardini – che nella frase conclusiva aggiunge al titolo l’ultima sua malinconica notazione che nessuno avrebbe comprato
– è un romanzo ricco e composito in eventi e personaggi. Gli uni e gli altri si susseguono ed interagiscono in un topos
indubbiamente memoriale, con efficacia affabulatoria tipica dell’autobiografia o del diario e con una verosimiglianza che esalta l’apporto creativo dell’Autrice nel trasfigurare e oggettivare ambienti, fatti e persone che certo e non solo sono a lei ben noti ma che soprattutto ha attentamente osservato e interiorizzato.
Il luogo in cui le vicende narrate si svolgono, per quanto circoscritto ( o forse proprio per questo ), è significativamente rappresentativo dei profondi cambiamenti socio-economici e culturali intervenuti in Italia negli anni ’50-’60. Il mutamento del tradizionale profilo contadino del nostro Paese si delinea sullo sfondo di Un paese da vendere
, mentre in primo piano si alternano i tanti protagonisti di istanze antiche e nuove: in particolare la difficile transizione da una società chiusa in se stessa, prigioniera di ferree regole patriarcali, complicata dal naturale conflitto intergenerazionale, reso cosi più stridente ed acuto.
Nella folla dei protagonisti, con le figure di Giorgia e Laura di notevole spicco, si avverte l’ampio respiro del cambiamento epocale, evidente nell’impatto sui comportamenti giovanili, sui modelli seguiti, sulla stratificazione sociale, sui ruoli di genere, sui rapporti di potere all’interno della famiglia, sul dibattito politico e ideologico che l’espansione del sistema dei media favorì contribuendo non poco all’integrazione del paese.
Le vicende narrate si muovono nell’accennato background, con suggestive venature di paesaggi e atmosfere in passi ed immagini con cui l’io narrante richiama in echi di memoria il duplice fenomeno delle migrazioni interne dal Sud agreste al Nord in accelerata industrializzazione e delle campagne verso le aree urbane. Con la stessa efficacia l’Autrice interpola la narrazione con rinvii a fatti e personaggi emblematici che irrompono sulla scena mondiale: lo Sputnik e Giovanni XXIII, Nikita Kruscev e Elvis Presley, Domenico Modugno e Gino Paoli, Jacques Prevert e Pablo Neruda, Livio Berruti e le Olimpiadi di Roma.
L’abile regia dell’Autrice nel caratterizzare di volta in volta il campo lungo, verso cui dirige la sua cinepresa mentale e sentimentale, si conferma nei primi piani, quando zuma
sulla variegata tipologia umana, tratto essenziale e punto di forza di Un paese da vendere
: complessa e articolata varietà che porta avanti le azioni del racconto, ne determina i vari sviluppi e ruoli, ne tratteggia le personalità consentendo di analizzarle e contribuendo a caratterizzarle.
Dalle due sedicenni, la bionda Giorgia e la mora Laura, ai rispettivi genitori; dai loro amici Angelo democristiano, Silvio comunista, Cristiano cantante con altri/e alla chiacchierona del paese Matilde o alla bigotta Adele che predica bene ma razzola male; dal sacrestano Giuseppe al non irreprensibile maresciallo dei Carabinieri: è appena la punta di un iceberg umano e sociale che Federica Bernardini con cura scolpisce in aspetto fisico, tratti interiori, estrazione sociale, cultura, modi di pensare, atteggiarsi, emozionarsi e relazionarsi con gli altri.
La vicenda è molto ben costruita e sviluppata, dal punto di vista strutturale, con l’ulteriore pregio, in termini di contenuti, di tracciare in ogni dettaglio l’intenso itinerario memoriale dell’io plurale narrante, abile di volta in volta nell’interpretare i vari personaggi.
Sa infatti riportarli all’epoca degli eventi – e condurvi chi legge – con uso di idonee leve evocative, accennando il motivo di una canzone, richiamandone il titolo o il nome del cantante, ed attivando cosi una sorta di interiore macchina del tempo che fa scattare l’assopimento-estraniamento dal presente del lettore che ha vissuto quegli anni, anche con un cedimento all’inconscio che riaffiora e dà il via all’autoanalisi, attraverso i fatti narrati, con un implicito raffronto tra vita reale e attese sognate ma rimosse, tra percorsi reali (sentimentali, familiari, professionali) e aspirazioni represse e conseguenti scelte mancate.
Le possibili regressioni dei lettori, che ritrovino un po’ di sé nelle storie di questo o quel personaggio potrebbero essere del tutto casuali; ma forse non è cosi, stando a quanto scrisse Elsa Morante (ne La storia
): Si sa che la fabbrica dei sogni spesso interra le sue fondamenta fra i tritumi della veglia o del passato.
In effetti entrambi i tritumi
, Laura, una delle protagoniste, li ha davanti e dentro di sé: alla fine le pesano sia i cocci del proprio presente di donna ormai matura – dovuti all’esito di scelte fatte senza convinzione – sia i cocci del passato di giovane entusiasta di altro cui ha finito per rinunciare.
E’ vero che, sul valore di certi rimpianti, così scrive Paolo Maurensig (ne La variante di Lùneburg
): Ogni scelta implica per sé, l’abbandono di tutte le alternative. Se non fossimo costretti a scegliere, saremmo immortali. E’ però anche vera l’importanza di conoscere e approfondire i meccanismi intimi e i condizionamenti esterni che abbiano inciso sulle scelte.
Non è il caso di tentare una qualche sintesi che, oltre ad essere riduttiva, sottrarrebbe ai lettori il gusto della scoperta. E’ tuttavia opportuno, in sede di prefazione al romanzo, dire dei maggiori aspetti che possano dare significativamente conto dell’opera e dello stile dell’Autrice.
A lei va dato ampio merito ni aver delineato con efficacia sia l’accennata cornice degli accadimenti, sia il modo in cui evolve ogni evento, sia l’azione dei vari protagonisti e comprimari.
In definitiva Un paese da vendere
è un romanzo ricco di spunti di particolare interesse tanto per i lettori più giovani, che non hanno cosciuto quegli anni e quel contesto sociale o familiare, quanto per i lettori che – come chi scrive – li hanno vissuti e sono in grado di fare utili confronti e rievocazioni di personali esperienze con quelle qui narrate.
Federica Bernardini ha certo colto nel segno con questa sua opera, in cui ha affrontato temi di particolare impegno, pur muovendosi lungo un crinale dai precari equilibri. Considerata la materia, avrebbe potuto cedere a tentativi di interpretazioni psico-sociologiche – mai semplicisticamente generalizzabili a partire da vissuti personali – oppure lasciarsi prendere la mano da mielosi amarcord
; ma non ha fatto né l’una né l’altra cosa, offrendo ai lettori un caso
in cui molti potranno ritrovarsi ed ognuno saprà cercare le proprie chiavi di lettura.
Avere scritto – e molto bene – questo romanzo, intriso di vita vissuta e delle sue complicazioni, è forse, in ultima analisi, un modo per esorcizzare le pulsioni dell’inconscio quando si sappia farne il prezioso uso suggerito da Bertolt Brecht (inContro la seduzione
) :
Non vi lasciate illudere
che è poco, la vita.
Bevetela a gran sorsi,
non vi sarà bastata
quando dovrete perderla.
RAIMONDO VENTURIELLO
Un paese da vendere
Dal cielo che si risvegliava a malincuore, scendeva lenta la pioggia, ma nell’aria rigida c’era qualcosa che anticipava la neve.
«Che freddo boia» borbottava tra sé Giuseppe, stringendosi addosso il cappotto consumato, quello lavorativo, ma anche l’altro, quello della festa, non era di molto migliore. Le gambe corte, che reggevano a stento il corpo tarchiato, si muovevano in fretta. Sul viso rubicondo, sempre pronto al sorriso, spiccavano un paio d’occhialetti che si fermavano spesso sul naso.
Giuseppe pettinava i pochi capelli rimasti in avanti cosicché, talvolta, scendevano sulla fronte formando una specie di ricciolo ribelle che suscitava l’ilarità dei ragazzini. Da otto anni l’uomo svegliava il paese con il suono delle campane, da quando sua madre era morta lasciandolo solo, senza una lira e senza un mestiere.
Il parroco del paese l’aveva preso come sacrestano e Giuseppe aveva soddisfatto appieno le sue aspettative. Le case situate lungo la strada principale del paese sonnecchiavano ancora, complice il buio che non si decideva ad arrendersi.
Dall’unica finestra illuminata, una donna, intenta a stendere una coperta a fiori, si sporse e gridò: «Giuseppe, sei in ritardo stamattina».
Non sfuggiva nulla a Matilde, il gazzettino del paese. Era la domestica del farmacista, non era sposata e viveva la sua scialba vita con la famiglia del fratello. Il suo interesse principale? Parlare di chiunque, anche a sproposito, sapere tutto di tutti e spesso, forse involontariamente, in lei l’immaginazione cedeva il posto alla realtà.
«Sei andato a letto tardi ieri sera, eh? Hai visto il Festival di Sanremo a casa di Eugenia? Di sera fai le ore piccole e il mattino non ti svegli…»
L’uomo, ignorando la domanda, ribatté: «Vedi, tu mi dovresti ringraziare, se fossi arrivato puntuale come di consueto, tu non avresti avuto nulla di cui parlare così presto». Si allontanò sorridente, fischiettando un motivetto ascoltato durante il Festival.
La donna, indispettita per la curiosità insoddisfatta, si ritirò sbattendo la finestra.
Pochi minuti dopo, un suono festoso di campane si sprigionò nell’aria. Mentre il parroco si preparava alla celebrazione della prima messa, Giuseppe accendeva le candele e, nella luce fioca, la chiesa rivelava le grandi navate e il soffitto di legno intarsiato. Una chiesa troppo superba per un paese senza importanza. Alcune donne, poche in verità, avvolte in indumenti scuri, s’inginocchiavano l’una accanto all’altra sulle prime panche davanti all’altare. Era freddo lì e forse anche per questo si stringevano vicine, ma lo scopo principale era senz’altro conciliare le preghiere con l’ultima chiacchiera udita il giorno prima da qualche amica poco laboriosa ma ciarliera.
Uscendo la luce del giorno, che a poco a poco aumentava, evidenziava la conformazione del paese, in parte circondato dalle antiche mura di un castello medievale in discreto stato di conservazione. I vicoli stretti, corredati da case sbilenche, erano orfani delle cascate di gerani a edera che coloravano le estati. Alcuni convergevano in una piazzetta che gli abitanti, con orgoglio, definivano il centro storico
, altri si diramavano, contorti, verso la campagna e le colline.
La parte nuova, se tale si poteva definire, si estendeva lungo una strada pianeggiante, a tratti ombreggiata da tigli altissimi. Le costruzioni, grigiastre e deteriorate, erano in netto contrasto con un’abitazione rivestita di mattoni vermigli che donava una nota di colore al paesaggio uniforme.
La neve, che fin dalle prime ore del mattino si presagiva nell’aria, cominciò a cadere: da principio a piccoli fiocchi lenti e distanziati, poi, a poco a poco, una moltitudine di candidi coriandoli turbinò nell’aria.
La terra beata si lasciava ricoprire, quasi volesse nascondere sotto quel candore tutte le sue impurità. I prati e alcuni giardinetti antistanti alle case scomparivano lentamente, mentre i tigli porgevano i loro rami alla morbida carezza, quasi si allungassero per riceverne una maggiore quantità.
Dagli angoli più nascosti del paese che, come per incanto, si trasformava, sbucavano bambini con abiti colorati e tanto entusiasmo negli occhi; le loro voci echeggiavano nel silenzio. I ragazzi più grandi, sopra rudimentali slittini, si divertivano a scivolare lungo la discesa che conduceva alla piazza principale. La nevicata era così abbondante che dopo poche ore si vedevano già degli uomini intenti a lavorare di pala per ripulire i passi che portavano alle case.
Gli abitanti del paese, nei pomeriggi di festa, si riversavano nel cinema locale, chiamato Splendor
. Di splendore quell’ambiente non aveva niente, eppure il pavimento di mattoni sconnessi e le poltrone sgangherate che scricchiolavano una volta la settimana accoglievano una piccola folla. Anche in quell’ambiente così misero si potevano infatti trascorrere due ore diverse dal solito, lasciando dietro le spalle le preoccupazioni e le dure prove della vita.
Quel giorno proiettavano Persiane chiuse, un film piuttosto osé che l’indomani, tra l’acquisto di una pagnotta o della carne tritata per condire la polenta, sarebbe stato motivo di sdegnate critiche da parte delle comari benpensanti. I ragazzi, allettati dalle prime fantasie erotiche, gironzolavano all’interno della biglietteria cercando di convincere il gestore a farli entrare; speranze vane, lo sapevano.
L’uomo, alto e magro, leggermente calvo, dalla voce stridula e dalle maniere un po’ effeminate, era il classico tipo che si nasconde dietro la religione secondo il proprio tornaconto. Certamente avrebbe fatto entrare i ragazzi per ottenere maggiori incassi, ma le critiche che si sarebbero scatenate il giorno dopo e il giudizio del parroco avevano la meglio sulla sua avidità.
Si avvicinavano le feste natalizie e, come tutti gli anni, ogni dopo cena del sabato e della domenica lo si trascorreva al bar della signora Elena giocando a tombola.
Come tutte le mattine