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Inoculum
Inoculum
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E-book647 pagine9 ore

Inoculum

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Inoculum è un romanzo fantasy dai toni dark che vi immergerà nelle vicende che portarono alla lunga notte di Greendale. Le vicende ruotano intorno a diversi personaggi: c'è Alys, che dopo il furto dell'artefatto affidato alla suo custodia farà di tutto per recupare l'enigmanico oggetto alieno dalle mani dell'organizzazione, ci sono Jester e il maestro Ben, l'esperto di arti arcane che si è scontrato contro la temibile guardiana il primo e un addestratore di schiavi che cerca di scalare la gerarchia dell'organizzazione. C'è anche un gruppo di ragazzi che assiste inconsapevolemente agli effetti dello scontro tra la setta e gli agenti governativi attraverso i lenti ma terribili cambiamenti che iniziano a mutare il volto della città, i rapporti tra le persone e persino loro stessi.

In verità non saprei come classificarlo esattamente, c'è di tutto, uno specchio della mia formazione artistica che spazia da manga, cartoni, film, libri e videogiochi. Aggiungo solo che nell'opera vengono trattati temi che potrebbero urtare la sensibilità del lettore quali: sesso non consensiente, schiavitù, uso di droghe, etc.

Greendale, una tipica cittadina tranquilla dove niente dà nell’occhio più del dovuto, niente, a parte una strana usanza che si ripete una volta l’anno: la Festa del solstizio d’inverno. Un giorno in cui tutto sembra essere possibile, nel quale perfetti sconosciuti condividono qualcosa di fuori dell’ordinario, in cui semplici giovani in cerca d’avventure si mescolano a ben più noti ed eccentrici personaggi.

Chi sembra diverso dagli altri, in quel giorno, non lo è.

Ma accade qualcosa d’imprevisto: quello che pare essere un incidente si rivela la scintilla che mette in moto una catena di eventi che in breve sfugge al controllo di chiunque.

Prima che si riesca ad arginare il pericolo un'oscurità silenziosa avvolge la città trascinando ogni essere vivente in un vortice di malsana follia.

Tutto sta per cambiare e mentre i valori e gli ideali iniziano a sbriciolarsi agli abitanti di Greendale non resta che imparare a sopravvivere in un mare d’oscurità o lasciarsi cadere verso il fondo.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2016
ISBN9788822867407
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    Anteprima del libro

    Inoculum - Lorenzo Gaetani

    INOCULUM

    Autore: Lorenzo Gaetani

    Pagina facebook ufficiale: www.facebook.com/cantastoriemaledetto

    A cura di: Roberta Volpi

    Sito: http://www.robertavolpieditor.it/

    Copertina realizzata da: Jason Nguyen

    Sito: http://www.jasonnart.com/

    Opera tutelata dal plagio su www.patamu.com con numero di deposito 39313

    Tutti i diritti riservati

    Capitolo 1

    Mancava solo la spada. Doveva finire di colorare l’arma d'argento e la miniatura di Kadwill Lama di Vento sarebbe stata pronta; era quasi un'ora che dipingeva con cura. Aveva applicato un primer spray e poi, pian piano, aveva dato vita e colore a quel piccolo tesoro che gli era costato dodici e novanta: era il suo personaggio preferito e ne aveva ordinato una versione personalizzata. La spada sguainata e minacciosa nella mano sinistra, l'agile pugnale nella destra; il mantello fisso in un moto fluttuante sospinto da un vento immaginario. Lo sguardo era fiero e sicuro, incastonato sul bel viso leggermente teso; i capelli corvini raccolti dietro la testa con delle bacchette per capelli. Era uno degli eroi della fazione caotica neutrale del gioco di guerra tridimensionale Tactic War: Fantasy Edition. Lo rilassava così tanto dipingere le sue statuine; cercava di inserire sempre qualche piccolo dettaglio che le rendesse uniche: uno strappo su un pantalone, una cicatrice, una scheggiatura su una lama, insomma, qualcosa che gli desse una sorta di storia, come se avessero già combattuto molte battaglie. Ma in quel caso no; non aggiunse nulla alla fiera immagine di Kadwill Vento Sinuoso.

    Ecco. Era finito. Lo lasciò ad asciugare.

    Le miniature e i giochi di guerra tridimensionali erano una sua piccola passione; in questo spendeva abitualmente buona parte della paghetta che gli davano i suoi. Il loro malcontento a riguardo era cresciuto in maniera direttamente proporzionale al numero di miniature che possedeva: doveva mentire sul prezzo di quelle per non farli arrabbiare anche se, il padre in particolar modo, iniziavano a essere stanchi di quello che definivano un passatempo per bambini.

    Lo avevano espresso molto chiaramente una sera, dopo cena. Pensando che il figlio non li sentisse il padre aveva attaccato con tono scocciato:

    «Se li spende così allora non gli servono.»

    La madre, aveva cercato di imbonirlo anche se d'accordo: «Dài, caro, vedrai che quando sarà tempo di esami lascerà stare e quando andrà all'università saranno ad ammuffire in cantina o, magari, li darà via.»

    «Io, alla sua età, ne avevo uno e uno soltanto di pupazzetto e ho smesso di giocarci a sette anni.»

    «Sì, ma lo sai com'è oggi, i tempi si sono allungati. Ho letto l'altro giorno che l'aspettativa di vita di chi nasce quest'anno è di quasi quindici anni in più di quella della nostra generazione!»

    «Sarà meglio che si dia una raddrizzata; non gli pagherò certo l'università per trovare altri scemi come lui che perdono tempo con i pupazzetti.»

    «Sono sicura che si metterà d'impegno a studiare.»

    «Già, a studiare cosa? Quello vuole studiare storia, ma come fa un ragazzo a voler studiare storia? E poi che farà? Il maestro alle elementari? Non capisco proprio che problemi ha; suo fratello ha quattro anni di meno ed è già più adulto di lui.»

    «Dài, caro, non alzare la voce che poi ci sente.»

    Steven sbuffò e bofonchiò qualcosa di incomprensibile chiudendo così la conversazione.

    I minuti successivi trascorsero riempiti soltanto dal rumoreggiare della televisione, poi, i coniugi si scambiarono le solite chiacchiere serali, raccontandosi a vicenda della propria giornata.

    Non era la prima volta che Dylan fingeva: di andare verso la sua stanza, di aprire e richiudere la porta spegnendo le luci per poi tornare quatto quatto in cima alle scale; lo faceva ogni volta che avvertiva il nervosismo dei propri genitori durante la cena. Quella volta, niente di nuovo tra le solite critiche. Ottusi e chiusi giudicavano la sua passione infantile e non facevano che dirgli di piantarla.

    Lui non la vedeva affatto così: la preparazione, la pianificazione prima della battaglia, la scelta delle truppe fino ad arrivare allo scontro; era una delle poche cose che lo rilassava. Sia quando le dipingeva che quando studiava le battaglie si sentiva sereno e imperturbabile. Adorava sentirsi così.

    Anche se ci doveva spendere qualche soldo cercava sempre di non esagerare e non intaccava i suoi voti scolastici. A volte si chiedeva perché tanto accanimento verso quell'innocente passione.

    Sicuramente, suo padre avrebbe preferito vederlo dedicarsi a qualche sport: football, baseball o calcio, magari; non faceva differenza: gli bastava poter andare al campo e incitarlo dagli spalti e, quando vinceva, poter gridare: Quello è mio figlio!. Ma Dylan non gli aveva mai dato queste soddisfazioni: lui si era messo a giocare con quei pupazzetti. Nonostante avesse diciassette anni continuava a giocare con i fottuti pupazzetti invece di darsi da fare sul serio, di trovarsi una ragazza e iniziare a renderlo orgoglioso, finalmente. Steven Grinkit, ormai, stava perdendo le speranze sul suo primogenito; riponeva molta più fiducia nel secondo dei suoi figli: Harold.

    Harold non aveva mai dato nessuna grana, non si era cacciato in nessun guaio, anche da piccolo era sempre stato tranquillo e piangeva poco. Aveva buoni voti a scuola e gli piaceva il basket. Non vedeva l'ora di andare a tifare per lui.

    Non c'era molto altro sul padre, a dire il vero. Un uomo semplice senza troppe pretese. Poi c'era la madre, l'amabile signora Grinkit.

    Jennifer era una donna buona con tutti e così tutti la definivano ma, ogni volta che le rivolgevano direttamente simili complimenti, lei civettava risposte come: Ma dài, non esagerare! o Dài, che mi imbarazzo se mi dici così! o anche: Grazie cara, troppo buona! mentre dentro ribolliva di soddisfazione. Adorava quel genere di attenzioni, non poteva farne a meno; se fosse stata una pillola a indurle quello stato di puro compiacimento ne sarebbe sicuramente stata dipendente.

    Era dolce e premurosa con tutti, tutti eccetto i suoi stessi figli; forse, solo uno di loro era l'eccezione. Dylan a malapena ricordava una parola o un gesto di affetto nei suoi confronti. Per Harold era diverso: ogni tanto, la sera, riceveva la buonanotte; talvolta, la madre preparava la sua colazione preferita nei giorni speciali. Cose stupide davvero. Chi le vorrebbe?

    Così il quadro della famiglia Grinkit si chiudeva con il più piccolo, Harold, un ragazzino sveglio e amabile. Aveva tanti amici e tutti lo volevano come compagno: era il tipico ragazzo scelto sempre fra i primi quando si dovevano fare le squadre. Andava bene a scuola, specialmente in matematica e latino e aveva iniziato a giocare a basket da qualche mese. Anche se non faceva nulla di male, Dylan iniziava detestarlo. Non sapeva perché o, meglio, non lo avrebbe mai ammesso. In fondo, voleva solo la cosa più semplice e naturale che vuole un figlio dai genitori; qualcosa che sembrava non essere destinato a lui. Pian piano il rapporto con loro si deteriorava: sembravano non preoccuparsi di ciò che lui voleva e il ragazzo, di conseguenza, non capiva i loro comportamenti. Nessuno riusciva a mettersi nei panni dell'altro. Come ci fosse un piccolo ruscello che continuava a scavare lento e inesorabile. Invece, per Harold, era diverso; per lui c'era ancora speranza. Dopotutto, era contento, contento che non provasse la sua stessa angoscia.

    Il bravo Harold, il figlio che li rendeva orgogliosi, che li avrebbe resi ancor più orgogliosi un giorno. Già immaginava: avrebbe conseguito ogni titolo scolastico con il massimo dei voti, sarebbe stato il capitano di qualche squadra e avrebbe coronato il tutto con una brava e bella ragazza. Gli rodeva, anche se non lo avrebbe mai ammesso.

    Vivevano nella grigia città di Greendale. Una tranquilla cittadina, con le sue scuole, la sua piazza centrale, il suo parco pubblico, il suo monumento al valore e i suoi bar. Vicino alla città c'era una riserva naturale che aveva inizio con la montagna, Icewind Peak, dalla quale zampillava allegramente la sorgente del Green River. Il fiume aveva un andamento tortuoso con qualche rapida e una cascatella, detta cascata del bacio. Nome che veniva da una leggenda o, forse, un racconto mitizzato dal passaggio di generazione in generazione: tutti sapevano quella storia.

    Un racconto che narrava la vicenda di due innamorati: un classico amore proibito. In questo caso, quello contrario era il ricco padre di lei che non avrebbe dato sua figlia in sposa ad un umile garzone; progettava di offrirla al rampollo di qualche famiglia importante e danarosa. Tra molte vicende i due si erano nascosti sotto la cascata. In un bacio avevano espresso il desiderio di essere liberi e tramutatisi in pesci erano fuggiti fino al mare.

    Leggenda o no, quel luogo sembrava attirare le attenzioni di molti, e non tutti erano turisti ambientalisti: due volte l'anno si riuniva una stravagante comunità di eccentrici, la maggior parte credenti di una strana religione moderna che venerava la natura, spiriti, fantasmi e altre sciocchezze.

    Si riunivano là per celebrare il solstizio d'estate e quello d'inverno. In verità venivano anche per gli equinozi ma in numero più esiguo. Quei raduni duravano tre giorni e ogni volta si riducevano a una festa chiassosa dove scorrevano alcol e droghe di tutti i tipi. Si diceva che la notte del terzo giorno concludessero la celebrazione con una grande orgia degna dei baccanali dei popoli antichi; tutto questo tra i boschi a ridosso della montagna. Sostenevano che in quel punto confluissero diversi flussi energetici, per questo era speciale. Nei momenti di particolare allineamento dei corpi celesti si poteva attingere all'energia della natura e dell'Universo.

    In città pochi gli davano peso; bastava che non si avvicinassero troppo ai loro pargoli e alle loro case e potevano starsene nei boschi come i cani rognosi che erano. Ovviamente, tra i giovani l'evento aveva un'aura di fascino e mistero ma anche di pericolo, insomma, al limite dell'irresistibile. Qualcuno c'era andato ed era tornato stordito e confuso, con la testa intorbidita dall'emicrania per giorni. Dylan conosceva solo di nome la gente che diceva di esserci stata ma, spesso, erano più balle che altro; i resoconti si rivelavano spesso inaffidabili. Tanti li gonfiavano di conquiste ed epiche scopate con bellissime donne di ogni forma e colore; altri, ricordavano a malapena cos'avessero realmente fatto. Il posto era comunque lontano, isolato e pieno di sconosciuti; un’avventura troppo audace per la gran parte dei giovani. Troppo invitante per un pugno di temerari.

    Il cellulare abbaia il solito suono composto da poche note.

    Un messaggio. Il suo amico Brian gli chiede a che ora si sarebbero incontrati il giorno dopo. Quella domenica dovevano vedersi tutti alla stazione e partire per l’IntoTheCaveCon. Un evento che si teneva a Bronkville, la città più grande e vivace nel raggio di cento chilometri. Si erano preparati a lungo per il torneo di Tactic War. Erano carichi. Gli rispose con un altro messaggio:

    – Domani ci vediamo alle sette e un quarto alla stazione.

    – Boh, OK.

    – Perché boh?

    – Nah… è che non so se siamo pronti.

    – Macché, ci siamo preparati un sacco, vedrai che ci arriviamo ai quarti.

    – Non lo so, non sono sicuro che siamo pronti contro la strategia spread dei Lizard o dei Diavoli.

    – Ma non le usa nessuno, comunque abbiamo le chimere e gli elementali in side ce la caviamo.

    – Boh se lo dici tu.

    – Dài che domani facciamo terra bruciata!

    – Boh OK a domani.

    In buona parte condivideva quelle preoccupazioni ma ormai non ci voleva più pensare, sarebbe andata come doveva andare.

    Non voleva fare troppo tardi ma voleva anche finire di leggere il decimo capitolo dell'ultimo libro che aveva comprato: Synchronia. Una storia fantasy semplice ma piacevole da leggere e con descrizioni molto suggestive. Il protagonista aveva il potere di controllare l'acqua a suo piacimento, poteva persino congelarla o trasformarla in vapore. Voleva assolutamente leggere la descrizione di Meldaja, la mitica città scrosciante. Le parole intrecciavano immagini oniriche nella sua testa: lo stile delle abitazioni era un vago steampunk che ben rendeva l'avanzamento tecnologico di quel piccolo regno. Ma non era quella l'attrattiva principale nella capitale: ciò che la rendeva tanto unica era l'essere stata costruita su un'enorme cascata circolare posta al centro di un grande lago. Le case erano posizionate su isolotti sospesi che spuntavano proprio dalla cascata come speroni di roccia. Al centro era collegata da una serie di vie in metallo sorrette da accurati studi ingegneristici e un pizzico di magia.

    Come al solito si era perso un po' troppo in quegli scorci mozzafiato. Era tardi doveva andare subito a dormire.

    I calzini sono l'emblema della società. Hanno le cuciture dentro che danno fastidio per apparire più eleganti fuori. Proprio come le persone non si preoccupano di stare a proprio agio con se stesse concentrandosi solo sull'immagine da mostrare agli altri.

    Capitolo 2

    Alle sette e venti era già alla stazione. Non che fosse una persona così puntuale ma quella notte non aveva dormito bene; ora, era leggermente stanco e assonnato. Quasi nervoso.

    Tirò fuori della tasca una gomma della Birkbubble e la spinse fra i denti. Gusto di cocco. Sapeva che masticare gomme non era molto salutare ma non riusciva a farne a meno, lo rilassava. Quando era da solo adorava masticare in modo poco più rumoroso del normale solo per sentire bene il suono di ciancichio.

    Faceva fresco la quella mattina; a settembre il venticello estivo veniva pian piano rimpiazzato dai venti più freddi provenienti da Est e da Nord. Le prime piogge sarebbero arrivate entro la fine del mese. Non gli piaceva la stazione. I treni erano rumorosi e c'era troppa gente che correva. Il secondo ad arrivare fu Brian.

    Indossava dei jeans larghi e una maglietta anonima sotto a un maglione scuro col collo a V. Portava i suoi soliti occhiali da sole a goccia che risaltavano la sua carnagione leggermente abbronzata.

    Sulle spalle lo zaino sballottato dall'andatura rapida e decisa. Anche se dietro a quegli occhialoni, Dylan intuiva che era contrariato, immaginava benissimo il perché.

    «Dài, no, cambiamo.» disse quando gli fu vicino con tono supplichevole.

    Dylan si voltò a guardare i binari facendo finta di non sapere di cosa stesse parlando.

    «Cosa vuoi cambiare?»

    «Non fare il cretino, non ci voglio stare con Grishwold. Quello è strambo. Manda Lonny da lui e noi giochiamo insieme.»

    «Dài, non ricominciare, abbiamo estratto le squadre a sorte, è andata così.»

    «Che palle! Perdo sicuro con quello, fa sempre le strategie che non ci si capisce niente!»

    «Se collaborate ce la fate. Certo, se parti così! Se la cava.»

    «Sì, beh, la prossima ci vai tu, allora.»

    Quelle situazioni lo mettevano sempre un po' a disagio.

    Brian era il suo migliore amico ma non era esattamente un campione con Tactic War. Diciamo pure che era una schiappa dichiarata. Per non ferirlo non aveva mostrato troppa euforia esternamente ma dentro di sé, al momento dell'estrazione, era esploso di gioia. Lonny andava benissimo, anche Grish sarebbe andato, bastava semplicemente non avere proprio lui in squadra. Brian e Grishwold non sarebbero andati lontani mentre lui e Lonny potevano davvero arrivare in finale.

    Prima che la discussione potesse proseguire arrivò anche quest'ultimo. La folta chioma riccia gli avvolgeva la testa come una nuvola bionda. Aveva una maglietta a maniche corte del film Watching Man piuttosto fica. Anche lui portava uno zainetto sulle spalle. Teneva il pollice tra la fascia dello zaino e il petto all'altezza delle ascelle e le altre quattro dita di ogni mano raggomitolate su se stesse. Aveva un anno meno di loro e ne dimostrava anche meno per l'esile corporatura. A volte poteva sembrare infantile e svogliato ma era un tipo a posto, tutto sommato. Gli ci era voluto un po' per capirlo ma da due anni erano buoni amici. Li salutò entrambi allegramente stringendo loro la mano in stile Yo, bro!.

    Era parecchio su di giri anche se tentava di dare l'impressione di essere calmo. Mentre parlavano chiacchierando di cosa avrebbero fatto oltre al torneo saltellava sul posto o si guardava nervosamente intorno o, ancora, oscillava le braccia avanti e indietro. Dopo appena tre minuti arrivò anche Grishwold. Lonny lo salutò calorosamente come faceva con tutti nonostante i due avessero poco o niente in comune.

    «Ehi, amico! Sei lentissimo, quanto ti ci vuole?! Forza, andiamooo!»

    «Ehi, Grish!» Il tono di Brian era basso e cupo.

    «Ecco Grish! Pronto a fare il fuoco, oggi?»

    «Ciao, ragazzi! Scusate, il pullman era in ritardo di due minuti e trentasette secondi.»

    Sì, Grishwold era fissato con gli orari e il conteggio dei secondi. Dylan e Brian stavano cercando di dissuaderlo dall’essere così rigido, per farlo sembrare più normale.

    «Non ti preoccupare, l'importante è che ci siamo tutti quanti e siamo pronti a partire!» Lonny tratteneva a stento l'eccitazione. Avrebbe voluto urlare.

    Carichi di queste emozioni presero il treno che arrivò col fischio graffiante dei freni strappando loro di dosso gli ultimi residui di sonno.

    In viaggio scherzarono e risero a più non posso per mascherare il nervosismo che cominciava a farsi sentire: non erano particolarmente inquieti per quell’evento, tuttavia, quando si sta tra i perdenti basta poco per fissarsi su un piccolo traguardo, perciò, alternarono momenti di ilarità a lunghe pause in cui gli sguardi si perdevano fuori del finestrino, lungo il vagone, per terra, senza mai incrociarsi gli uni con gli altri.

    Quando arrivarono riuscirono a distendersi un po'. Il clima allegro e chiassoso dell'evento, la gente in costume che faceva cosplay più o meno riusciti e la presentazione della più svariata merce e di nuovi prodotti li avvolse e li trascinò come una spirale ovale di colori e suoni.

    Il logo che troneggiava ovunque rappresentava il nome dell'evento: le lettere erano ritagliate sul fondo di una caverna rischiarata da una luce verde-azzurrognola.

    All'inizio fecero un giro scattando foto con i cosplayer dei loro personaggi preferiti, ammirando le immancabili guardate-le-mie-tette o anche le so-che-il-personaggio-è-più-vestito-barra-uomo-ma-meno-vestiti-meglio-è che si trovavano nei punti più affollati o vicino a stand importanti.

    Dylan ci pensava ogni volta che ne vedeva una: razionalmente le criticava, soprattutto quelle che riducevano all'osso i costumi solo per mettersi in mostra sfruttando la platea di nerd sbavanti, però l'istinto tornava spesso a gridare, nella sua testa: WOW, che bona, quella!.

    Gli uomini sono proprio stupidi, pensò.

    Dopo un'oretta si avviarono verso la zona che avevano accuratamente evitato: era meno affollata rispetto alle altre aree: da una parte bambini sui dieci anni che provavano giochi di carte o semplici giochi di ruolo organizzati e aiutati da addetti con la maglia arancione; dall'altra, c'erano adulti dai venticinque fino ai quarantacinque che giocavano ad altri giochi di carte, di ruolo o di miniature ma con toni molto più seri e impegnati. Sembrava che alcuni stessero decidendo le sorti di battaglie con persone vere.

    Per i giochi di guerra tridimensionale era stata preparata una sezione apposita: avevano posizionato le mappe su due grandi tappeti rettangolari: uno, era verde con motivi di foglie e fiori in varie sfumature di verde più chiaro, l'altro, era marrone e arancione con un motivo di rombi, rettangoli e cerchi accavallati. Le mappe di gioco erano quattro: Risveglio Glaciale, Passo Infernale, Guglia Decaduta e Fossato di Rocciaguzza.

    Odiava Passo Infernale, non gli era mai piaciuta se non esteticamente. Le altre, rappresentavano i grandi classici che tollerava di buon grado.

    Il torneo sarebbe iniziato alle dieci e un quarto, mancavano poco più di trenta minuti. Fecero un altro giro non badando troppo alle bancarelle per via del poco tempo a disposizione ma, poco prima dell'inizio del torneo, decisero che sarebbe stato meglio fermarsi e mettere qualcosa nello stomaco: Grishwold mangiò due panini al burro d'arachidi con pancetta e banana. Quel ragazzo, a volte, dava una brutta impressione. Li divorò voracemente, con le gambe incrociate e la schiena curva; sembrava che non volesse mostrarli ad altri o nascondere se stesso; per vergogna, forse, data l’eccessiva quantità di cibo, o per paura di esserne privato. Dylan immaginò che stesse pensando: È mio non guardatelo nemmeno. L’osservò completare il pasto con una bibita gassata di un giallo acceso.

    Gli altri tre, invece, si erano tenuti leggeri: un panino con tonno, lattuga e pomodoro per Lonny mentre Brian sbocconcellava un doppio sandwich con burro e gelatina di frutta. Dylan, gustava un insolito panino con burro d'arachidi e cipolle cotte.

    Da lì in poi la giornata scorse rapidamente. Al torneo partecipavano sedici squadre per un totale di trentadue giocatori. Il loro incontro sarebbe stato nella seconda mandata, alle undici e mezza. Gli incontri in genere duravano una quindicina di minuti fino a un massimo di quaranta al termine dei quali l'arbitro stabiliva il vincitore con un sistema di punteggio.

    Decisero di andare fuori a prendere un po' d'aria visto che avevano ancora un po’ di tempo e lì dentro si iniziava a respirare un’aria viziata.

    Brian accese una sigaretta e, anche se Dylan si era ripromesso di non fumare, quel giorno gliene chiese una. Forse, semplicemente il gesto di accenderla lo rilassava, così come fare la prima tirata. Grishwold sbirciava con la coda dell'occhio facendo finta di guardare verso il parcheggio.

    «Ne vuoi una, Grish?» fece Brian.

    «Uhm... no, no, grazie...»

    «Come vuoi, basta chiedere» ribadì dondolando il pacchetto tenuto tra l'indice e il pollice.

    L’altro lo guardò per un attimo ipnotizzato poi lo distolse respingendo l'idea. Da quando avevano iniziato a fumare, circa un anno e mezzo prima, Brian di tanto in tanto lo stuzzicava. Grish li guardava in modo strano, quasi dubbioso, quando fumavano: da una parte, non approvava quel passatempo ammazza salute, dall'altra, li vedeva come coraggiosi e ribelli, piccoli eroi.

    Lonny arricciò il naso e si allontanò di qualche passo; non gli piaceva l'odore di sigaretta. Preferiva un altro odore, più dolce, accogliente e fruttato; non era il momento adatto anche se avrebbe aiutato con la tensione.

    E così tra una sigaretta, una battuta e qualche risata si fece l'ora di affrontare il primo incontro.

    Ritornarono alla piccola staccionata che racchiudeva l'area giochi di carte, da tavolo, di ruolo e i wargame tridimensionali fino all'angolo con le mappe. Dei quattro incontri precedenti, due erano già finiti; degli altri due, uno, era estremamente noioso visto che si trovavano in campo truppe speculari. L'altro, stava regalando alcune belle mosse ma nulla di che. Quando furono finalmente sgombrati i campi di battaglia si avvicinarono.

    Dylan e Lonny iniziarono a disporre le proprie miniature sulla mappa che era stata loro assegnata: dovevano scontrarsi su Guglia Decaduta. I loro avversari erano un duo che utilizzava le fazioni Armate Non-morte e Domatori di Caos-Bestie. Una bella accoppiata, sulla carta, ma piuttosto prevedibile nelle strategie. Lo scontro durò circa diciannove minuti: un risultato schiacciante. Vinsero di brutto grazie a un paio di errori degli avversari. Anche Brian e Grishwold la spuntarono; ci misero ventidue minuti. Grish aveva tirato fuori un paio di mosse davvero niente male a inizio scontro tenendo a bada i suggerimenti di Brian.

    Dopo le partite vittoriose fecero un altro giro di panini. Si fermarono pure in un chioschetto che vendeva dolciumi vari per celebrare il momento: l'elemento più invitante era la fontana di cioccolato liquido ma la loro scelta ricadde su alcune ciambelle e delle cialde su cui il cioccolato abbondava tanto da colare formando una pozza di dolcezza nei piattini di plastica. Un’esagerazione a vedersi, ma c'erano due vittorie da festeggiare. Discussero di un eventuale scontro diretto tra le loro squadre: si erano allenati insieme, ne avevano fatte di partite con i loro piccoli eserciti.

    Fecero varie ipotesi sulle mosse che avrebbero utilizzato, sulle tattiche e i vari espedienti; immaginarono colpi di scena e uno scontro memorabile da cartone animato. Con la pancia piena tornarono al torneo convinti di scontrarsi in finale.

    GG: good game. L'incontro di Dylan e Lonny durò diciotto minuti. Una sonora sconfitta: i loro avversari li avevano travolti con una strategia iperaggressiva.

    A Dylan bruciò. E non poco. Ritirò mestamente le miniature. Rallentò quasi fino a fermarsi quando arrivò a Sylvos Furiamante e Kadwill Lama di Vento: erano le sue unità più potenti e gli eroi a cui era più affezionato. La bocca si mosse in uno scusatemi privo di suono, come se avessero abbassato a zero il volume delle sue corde vocali. Sentiva gli occhi umidi. Cercò di bloccare il flusso di pensieri tristi. Anche Lonny era dispiaciuto ma lui non reagiva male per questo genere di cose; gli bastava un po' di tempo e tornava spensierato come prima.

    Bruciò ancora di più quando dovette esultare alla vittoria dei suoi amici. La partita di Grish e Brian era durata più del doppio vedendo una spettacolare conclusione a trentotto minuti di gioco.

    L’incontro sembrò essersi svolto a senso unico in favore degli avversari: avevano continuato a conquistare piccoli obiettivi uno dopo l'altro ma al momento giusto Grish, con una mossa geniale a dir poco, aveva rovesciato la partita. Gli avversari, sebbene forti si erano convinti troppo presto di avere la vittoria in pugno. Grish aveva lanciato una combinazione di incantesimi devastante; le truppe nemiche in due turni erano state dimezzate, tre eroi uccisi. Avevano provato a riorganizzarsi ma Grish e Brian li avevano pressati senza pietà vincendo clamorosamente.

    Si sentì davvero sporco. Avrebbe dovuto essere felice per i suoi amici.

    Dovevo essere io quello a passare alle semifinali, non loro. Scacciò in fretta quel brutto pensiero dalla mente. Doveva essere contento per loro.

    Grish aveva vissuto quei momenti concentrato e teso ma anche molto eccitato. Alla conclusione si era sciolto in sorrisi e strette di mano. Persino i suoi avversari si congratularono sinceramente con lui per la brillante giocata; Brian gli diede diverse pacche sulle spalle, Dylan e Lonny lo applaudirono sorridendo. Anche gli spettatori esultavano facendo chiasso per la vittoria. Era davvero una bella sensazione. Non vedeva l'ora di affrontare il prossimo scontro. Era così su di giri che non lo sfiorò nemmeno il pensiero di mangiare, stavolta. Fecero un giro fuori per fumare e poi di nuovo dentro. Grish vide una cosplayer molto bella che non aveva avvicinato in precedenza per timore di disturbarla; era il personaggio di un gioco online a cui giocava frequentemente e gli sarebbe piaciuto moltissimo fare una foto con lei.

    Il costume blu e viola le aderiva come una seconda pelle mettendo in risalto le sue forme prosperose. Una tuta in lattice dai toni scuri con ricami a forma di fiori in argento, una lunga frangia le correva sul viso in diagonale con la punta sulla guancia destra; dietro alla nuca i capelli nerissimi erano ripiegati su se stessi a formare una dolce curva che faceva capolino sopra la testa. La parte più appariscente restava il generoso décolleté che catalizzava gli sguardi dei passanti.

    L'aveva guardata più volte e forse, lei, se n'era anche accorta.

    «Ehi, ragazzi, un attimo» disse agli altri. Doveva trovare il coraggio, adesso.

    «Sì, che c'è, campione?» disse Brian con tono amichevole.

    «Puoi farmi una foto con lei?» Indicò la ragazza.

    «WOW! Mica male… però! Te ne intendi, allora, di ragazze!» rispose Brian in modo giocoso. Grish arrossì.

    Il gruppo si avvicinò. Lui le chiese timidamente di fare una foto insieme. Lei sorrise, un sorriso piuttosto esausto, e si mise in una posa da combattimento. Grish le andò accanto cercando di sfoderare il migliore dei suoi sorrisi e soprattutto di staccare gli occhi dalla scollatura. Flash. La ringraziò e salutò tutto contento, lei gli sorrise di nuovo salutandolo con un movimento delicato della mano. Provò una vampata di calore.

    Anche se la giornata procedeva bene e gli altri tre scherzavano allegramente, Dylan restava più silenzioso del solito. Era forse troppo infantile prendere così male la sconfitta a un gioco ma, in quei momenti, ne sentiva l'amaro. Probabilmente, crescendo e ripensandoci avrebbe capito cos'era quel gusto così sgradevole.

    Venne il momento della terza partita. Brian e Grish in semifinale.

    Grish, in particolare, era tesissimo, concentrato e immobile. Si muoveva lentamente ma con eccezionale fluidità. Era in una sorta di trance, un flusso di concentrazione costante. Il compagno di squadra gli lasciò decidere quasi tutte le mosse.

    La partita durò trentaquattro minuti: Grish ne uscì sudato e stanco, al contrario di Brian che praticamente non aveva fatto nulla affidandosi all'amico. Vinsero anche questa. Dylan, anche se sentiva ancora quel retrogusto amaro, stavolta applaudì con più foga.

    Non era stata spettacolare come la seconda ma, comunque, una bella partita.

    Ritornarono all'aperto. Grish aveva bisogno di prendere un po' d'aria, aveva un cerchio alla testa. Brian accese una sigaretta. Iniziavano a sentire il peso della giornata e delle lunghe camminate mentre il pomeriggio volgeva al termine e il cielo si scuriva.

    Din-Don. Suonava l'ultima campana. La finale attendeva Grish e Brian. Andarono una mezz'oretta prima del dovuto per parlare e decidere una strategia; anche Lonny e Dylan avrebbero dato il loro contributo.

    Pianificarono quella che sembrava la migliore delle tattiche; presero in considerazione anche le strategie più probabili degli avversari. Discussero animatamente su questi argomenti quasi non accorgendosi dello scorrere dei minuti. Tornarono giusto in tempo.

    Les jeux sont faits. Dylan augurò buona fortuna ai due amici.

    Questa si preannunciava una partita piena di emozioni. Entrambe le squadre seguivano tattiche precise e ben studiate. Niente era gratis: chi danneggiava l'avversario sacrificava qualcosa. L'invidia di Dylan scomparve davanti all'avvincente scontro; cercava di capire quale sarebbe stata la prossima mossa. Dentro di sé ruggiva un inno di incoraggiamento verso i suoi amici. Voleva vederli sul podio, a questo punto.

    Ma non andò così. Dopo trentasei lunghissimi minuti Grish e Brian si congratularono con i loro avversari per la vittoria. Grish con gli occhi umidi di un bambino.

    Dopo qualche minuto, dopo che si furono allontanati, Grish disse che era comunque contento di aver passato una bella giornata a divertirsi con i suoi amici.

    «Sai che ti dico? Hai ragione, ci siamo divertiti ci rifaremo alla prossima, amico!» rispose Brian allegramente; anche Lonny annuì sorridendo. Decisero che potevano tornare a casa soddisfatti.

    Il viaggio in treno trascorse velocemente; la stanchezza li aveva resi sonnacchiosi. Tornarono alle loro case salutandosi alla stazione. Dylan tornò per l'ora di cena.

    «Allora, com'è andata?»

    «Ci siamo divertiti, abbiamo incontrato tante persone. Non era male quest'anno, devono ancora migliorare un paio di cose ma sono sulla buona strada.» Aveva provato a rispondere il più decentemente possibile ma la madre l'aveva ascoltato senza porre attenzione, era sempre così. Gli faceva domande e a malapena ascoltava anche solo l'inizio della risposta. Non gli importava proprio. Si chiedeva se con il fratello facesse lo stesso; con lui la vedeva più affettuosa e interessata ma, forse, sbagliava. Forse, lui era solo più bravo a far buon viso a quello stupido gioco.

    Mangiò la cena. Minestra con carote e piselli e formaggio grattato sopra. Non era così male, non gli dispiaceva. Almeno quella, era calda.

    «Dov'è papà?» chiese Harold finita la minestra.

    «Tuo padre è a cena con i suoi colleghi.»

    Capitava una volta al mese. Suo padre guidava autobus; era un modesto conducente di veicoli pubblici da quattordici anni. Non amava particolarmente quel lavoro, non lo odiava nemmeno. Era un'occupazione tranquilla che gli aveva permesso di crescere una famiglia senza troppe preoccupazioni. La loro situazione economica era migliorata quando la madre era stata assunta in uno studio legale come segretaria; un’assunzione inaspettata, lo ripeteva sempre: Buona volontà e impegno danno sempre buoni risultati, alla fine. Già, buona volontà e impegno. Dylan aveva il sospetto che ci fosse dell'altro. Non aveva nemmeno qualcosa di preciso in mente, solo una vaga sensazione.

    Nessuno sapeva veramente quanto e soprattutto come si impegnasse Jennifer per tenersi stretto quel lavoro che la faceva sentire tanto importante, che le dava un buono stipendio, che le permetteva di comprarsi ogni tanto un abito elegante e grazioso. Un gioiello che non fosse bigiotteria. Lo teneva stretto quel posto, si impegnava molto, sempre ligia al dovere.

    Dylan era stanco. Andò a dormire presto.

    Parlo seriamente di ogni argomento, per questo, la maggior parte delle persone mi reputa uno che scherza sempre.

    Capitolo 3

    La mattina preannunciava una tipica giornata invernale di Greendale. Le nuvole formavano un manto grigio con piccoli buchi da cui faceva capolino l'azzurro. Versò i cereali e il latte appena tiepido nella sua tazza con i nani. I nani erano stilizzati in forme arrotondate e colori pastello, avevano barbe rosse o arancioni.

    Il fratello si era alzato poco prima di lui e faceva colazione con il solito muesli. Bah, non avrebbe mai fatto colazione con quella roba; cereali al cioccolato tutta la vita, lo mettevano di buon umore appena alzato. Lo aspettava la scuola e, anche se come a tutti non piaceva, era contento di andarci. Le prime settimane a settembre erano sempre uno strazio, poi migliorava. Almeno, non doveva stare troppo tempo a casa. Se stava alla larga dai brutti voti si risparmiava la maggior parte delle lagne per i nove mesi di scuola.

    Era sempre stato compagno di classe di Brian mentre Lonny e Grishwold frequentavano sezioni diverse. Il primo era di un anno più giovane, lo avevano conosciuto tramite hobby comuni. Grish lo avevano incontrato al negozio di fumetti che era un po' il punto obbligato per i nerd di mezza città, il Green Dawn. Trovandosi bene insieme erano diventati un affiatato quartetto. Da circa un anno si frequentavano assiduamente.

    La campanella lanciò lo strillo acuto, tanto odiato, che invitava gli studenti a entrare nelle rispettive classi.

    Quella mattina scorse lenta. L'unica lezione che aveva apprezzato era stata quella di storia, perché gli piaceva, soprattutto quando si parlava di battaglie. Spesso andava a studiare per conto suo le tattiche di guerra. Non solo le tattiche di combattimento ma la scelta degli obiettivi, le operazioni economiche, le manovre politiche. Non lo affascinavano così le altre materie del giorno: matematica, letteratura e chimica. La campanella lanciò poi l’ultimo richiamo della giornata. Quello era il momento che preferiva: le lezioni alle spalle e quei minuti di spensieratezza con gli amici aspettando il pullman.

    Vicino alla fermata dell'autobus c'era Brian che aspettava di già. Dopo nemmeno due minuti arrivò Lonny districandosi dalla marea di ragazzi. Poi, come al solito, Grish insieme agli ultimi gruppi. Era sempre lento a fare la cartella.

    Dylan si fece due risate con Brian mentre prendevano in giro la nuova acconciatura del professor Glammer: ormai, lo spiazzo che aveva in testa si avviava verso lo stadio landa desertica; per questo, durante l'estate si era lasciato crescere i capelli ai lati della testa. Il riporto era semplicemente osceno: quattro fili di capelli attraversavano quella piazza convessa da una parte all'altra. Erano quasi del tutto bianchi. L'effetto era davvero imbarazzante. Brian sottolineava il fatto che ci voleva sicuramente un gran coraggio nel guardarsi allo specchio la mattina. Addirittura essere soddisfatto di un simile risultato e uscire di casa per andare a lavoro.

    Si divisero come al solito: prima Grish, poi Dylan e gli ultimi due.

    Richiuse la porta di casa. Solita routine di domande di circostanza sulla scuola. Solite risposte monosillabiche. Harold prese il piatto con il bicchiere e le posate e li portò al lavandino.

    «Bravo, tesoro» disse la madre, guardandolo amorevolmente. Jennifer aveva preparato una minestra la mattina stessa che poi aveva riscaldato a ritorno dal lavoro. Il resto era cibo precotto. Dylan ripulì per bene il piatto e lo portò al lavandino. Silenzio. Salì in camera sua.

    Chissà come doveva essere avere una madre amorevole e premurosa, pronta a sostenere nei momenti difficili e orgogliosa di fronte ai successi. Dylan non riusciva a immaginarlo; forse, ne aveva una vaga idea. Non doveva essere male.

    Decise di sfogarsi un po' al PC. Fece doppio click sull'icona con il coltello e la pistola di Black Cry 4; si sarebbe sfogato ammazzando un po' di cattivi e magari qualche animale aggressivo. Nella realtà virtuale era facile: nella vita vera sarebbe stato problematico uccidere persone giusto per scaricare un po’ di stress. No, non avrebbe funzionato, probabilmente, poi, si sarebbe sentito in colpa per quelle persone anche se, ogni tanto, faceva un pensierino a un futuro come assassino professionista. Camicia bianca, divisa elegante e cravatta rossa. Freddo e spietato. Una vita piena di pericoli e pianificazioni studiate per giorni e giorni. Sarebbe stata una carriera davvero eccitante. Quella sì che era solo una fantasia.

    Avrebbe trovato un lavoro tranquillo che gli avrebbe assicurato un buon sostentamento senza affanni. Una casa tranquilla. Un'auto tranquilla. Amici adulti, tranquilli. Magari, anche una moglie tranquilla. Un cane tranquillo e, per finire, un figlio tranquillo. Anche se i suoi sogni erano un po' diversi: più grandi e sgargianti, pieni di successo e di viaggi. Pieni di tante altre cose. Quelli irrealizzabili sono i migliori.

    Un pomeriggio tipico. Mezz'ora di videogiochi, quindici minuti di studio, un'ora e mezza di videogiochi fingendo di studiare. Questa giornata tipo si era ripetuta molte volte quell'autunno. Il fine settimana risultava leggermente più vario grazie ai suoi amici. Almeno, gli restava quello.

    Dylan era annoiato. Avrebbe voluto fare qualcosa di diverso, di assurdo, ma che poteva fare? Non aveva inventiva per quel genere di cose, nella vita vera. Se fosse stato nei mondi irreali in cui si addentrava di continuo sarebbe stato facile prendere una quest e partire per risolverla. Un'avventura ai limiti dell'assurdo in cui avrebbe combattuto avversari temibili e superato prove difficili.

    Sarebbe stato bello con un tocco di soprannaturale: un incontro con una ninfa del bosco o una pericolosa e seducente vampira notturna. O, forse, avrebbe conosciuto una misteriosa ragazza che l'avrebbe invischiato in loschi affari della malavita. Magari, avrebbe provato per gioco ad evocare un demone, una succube e poi... Tutte storie con ragazze, eh? Dylan, ma che fai? Te le inventi? Non dovresti magari provare a conoscere quelle reali? Sembrò quasi la voce di un altro, quella nella sua testa. Sorrise. Un sorriso di bile. Faceva male. Stava diventando un chiodo fisso, ultimamente.

    Non aveva mai concluso un granché con le ragazze; non sapeva come rapportarsi con loro. Era impacciato, goffo e passava inosservato nei casi migliori. Nei casi peggiori risultava strambo in maniera un po’ inquietante. Alle medie era stato sfottuto di brutto, una volta; aveva fatto lo strano in modo inquietante. Un'idea veramente stupida.

    In prima media aveva offerto un bicchiere di succo di mela a una compagna che gli piaceva, e non sarebbe stata una cattiva idea se solo non vi avesse mescolato la pipì. Aveva letto poco tempo prima che nelle zone più a Sud in antichità l'uomo donava la propria urina alla donna che desiderava sposare. Era andata quasi bene ma, quando le aveva svelato l'atto e le motivazioni che c'erano dietro, lei aveva violentemente espulso tutto. Non gli rivolse mai più la parola. Quella storia lo perseguitò per tutte le medie. Un giorno glielo farò vedere. Lo vedranno tutti... quanto valgo.

    Quell'anno l'autunno era stato più mite del solito ma, come spesso accadeva, era stato previsto un inverno più rigido del solito. Proprio mentre i venti invernali iniziavano ad accarezzare le guance dei passanti iniziò a maturare quell'idea quasi folle. Perché non andarci? Ne parlò con Brian. Anche se l’amico non era del tutto sicuro sembrava abbastanza curioso da appoggiarlo. Non serviva chiedere a Lonny cosa ne pensasse: era sempre stato a favore. Grishwold, beh, probabilmente non sarebbe andato e loro, forse, non glielo avrebbero nemmeno chiesto: troppo cocco di mamma per fare certe mattate.

    Quell'anno sarebbero andati al raduno che si teneva nei boschi intorno alla montagna. Venivano da ogni dove per quella roba. Si diceva che fosse pericoloso ma che bastasse stare attenti ai tipi dall'aspetto losco: drogati, a sentir la gente, che si ammucchiavano come capitava. Le signore di una certa età guardavano con disgusto quelle ragazze quando venivano in città a comprare acqua o cibo; gli uomini, sfoggiavano occhiate più furtive che disgustate alle suddette donzelle. I ragazzi erano per la maggior parte magri con leggere occhiaie violacee; non sembravano malvagi, solo sbandati.

    Alcuni avevano deciso di stabilirsi in città tanto per rimanere nei paraggi o dopo aver trovato l'anima gemella. Ormai, erano rispettabili adulti integrati al resto della comunità. Si sospettava che qualche contatto lo avessero ancora con i loro ex-colleghi giramondo; ad ogni modo, tutta la cosa aveva perso molto della sua aura di mistero: vederli esercitare come giornalai o commessi placava le bollenti fantasie sulla dissolutezza della festa del solstizio. Ma i divieti e le proibizioni si sa, da sempre, restano la calamita più potente per i ragazzi. E loro si sentivano abbastanza sicuri da andarci. Erano grandi e sapevano badare a se stessi; cosa poteva succedere di male? Al massimo, ci scappava una scopata. Risero tutti e tre, pensandoci. Anzi, si sbellicarono proprio; ci vollero un paio di minuti per ritornare a un quasi silenzio interrotto da risatine singhiozzate.

    Avevano deciso di non dirlo a Grish, alla fine; ne avevano discusso a lungo prima di arrivare a quella conclusione. Sarebbero andati. Niente li avrebbe fermati. Lonny rollò la canna e li seguì verso la via di casa. Si salutarono eccitati come non mai.

    L'autunno infreddoliva e i caducifoglie mostravano i loro scheletri legnosi. Mancava appena una settimana alla grande festa e già in città si iniziava a percepire quell'aria di attesa. Dapprima, c'era quel vago ricordo degli anni passati: nonostante il rischio di incontrarvi gente poco raccomandabile, quello, era l'unico evento che scuoteva la monotonia di Greendale; per quanto si potesse detestare l’avere in giro per la città tutte quelle strambe figure, non si poteva non considerare l’aspetto eccitante di tutta la faccenda. Archiviato il raduno del solstizio, era ufficialmente finito l'anno lavorativo e iniziava la pausa vacanziera.

    Dylan fece una passeggiata nel parco.

    In teoria doveva correre per smaltire la ciccia; aveva preso anche questa decisione: iniziare a fare qualche corsetta di tanto in tanto per dimagrire. Non che fosse grasso ma pensava che con un po' di pancia in meno e muscoli in più avrebbe avuto più chances con le ragazze. Con le ragazze in generale ma, soprattutto, con una in particolare: Myranda.

    Era la ragazza più carina della sua classe, aveva ottimi voti e suonava il violoncello. Lunghi capelli castani: li portava sciolti e spesso tingeva le punte di biondo. Aveva gli occhi azzurri e un fisico leggermente abbondante con forme morbide. Poteva pensare a lei per ore, dettaglio per dettaglio.

    Aveva persino le orecchie carine, arrotondate e rosee. Le adorava. L’adorava.

    Differentemente, lei, non lo aveva mai notato: non che lui avesse fatto molto perché accadesse. Giusto in un paio di occasioni, l'anno precedente: aveva riso a una sua battuta e, accidenti, era stata una bella sensazione. La conservava gelosamente ripensandoci ogni volta che si sentiva giù. Quell'anno era determinato a conquistarla: ce l'avrebbe fatta, sicuramente.

    Già, in teoria doveva correre ma la sua blanda andatura si era ben presto trasformata in una placida camminata. Aveva calzoni di tuta grigi molto larghi e una felpa verde smorto; teneva il cappuccio sulla testa per proteggersi le orecchie dal leggero vento quasi autunnale. Riprese a corricchiare con la nuova canzone dell'MP3: Last Resort; gli dava la carica.

    Mantenendo il ritmo rimase fuori fino all'ora di cena.

    Mentre mangiavano, il padre commentò l’evento della stagione, dicendo: «Ma è possibile che ogni anno prima di Natale dobbiamo avere in giro 'sta gente?!»

    Dylan disse la sua: «Ma scusa, non fanno male a nessuno, che fastidio ti danno?» Ma si pentì subito di aver parlato. Discutere con loro era peggio che prendere a testate un muro.

    «Che fastidio?! Sono dei drogati che si accampano nei boschi per… – Steven lanciò un’occhiata al piccolo Harold – Beh, so che non fanno niente di buono, sono sporchi e puzzolenti.»

    «Sono così promiscui! Quelle ragazze che cambiano ragazzo da un giorno all'altro, magari da un'ora all'altra, sono solo dei poco di buono.» Aggiunse Jennifer con malcelato disgusto, come se il solo parlare di loro la sporcasse.

    «Sì, okay, mica dico che sono perfetti, ma che se ne stanno per conto loro e non danno fastidio a nessuno e voi in città sempre a parlarne male come fossero i peggiori tra i delinquenti.»

    «Perché sono dei delinquenti, drogarsi è un crimine, lo sai?»

    «Sì, ma...»

    «Senti, Dylan, non è che magari stavi pensando di andarci, vero?»

    Sbam! Beccato! Sapeva che l'avrebbe detto in ogni caso ma, in quell’occasione, era come sentire una sirena di prigione squillare nella notte cogliendolo nel bel mezzo dell'evasione.

    «Macché andare, non stavo dicendo questo. È solo che non...»

    «Toglitelo proprio dalla testa! Tu lì non ci vai, discussione chiusa.»

    Dylan provò a continuare a parlare ma il padre aveva rivolto lo sguardo al televisore, la madre lo guardava con occhi pieni di apprensione. Fece un sospiro e continuò a mangiare.

    Discussione chiusa? Lui ha detto la sua, io ho provato a dire la mia e non mi hanno nemmeno ascoltato. Voi avete ragione, io no, discussione chiusa. Non mi pare una discussione.

    Si chiuse in camera, cuffiette nelle orecchie e musica alta. Canticchiò il ritornello di Pannito, il rapper incallito: «Sul muro che coagula, sputo rosso con l’ugola che mugula, pullula di fuego…»

    Harold aprì la porta. Dylan tolse gli auricolari e abbaiò un che vuoi.

    «Ho bussato ma non rispondevi.»

    «Okay, sì, che c'è?»

    Harold entrò e chiuse la porta.

    «No, ecco... ti volevo chiedere una cosa.»

    «OK, chiedimela.»

    «Ma ci vai davvero alla festa del solstizio?»

    Oddio, anche lui, adesso. Pensò.

    «No, che non ci vado, sono i tuoi genitori a essere pazzi.»

    «Sicuro?»

    «Oh! Ho detto di no, sparisci!»

    «Perché il fratello di un mio compagno di scuola c'è andato e pare che quest’anno lo porti con sé.»

    «Seh! Come no!»

    «Il fratello gli ha raccontato che sono tutti allegri e fanno una festa fichissima, e ballano e cantano, e un sacco di cose divertenti!»

    «Senti, non so cosa fanno ma non ci vado, non ci pensare proprio, e nemmeno che ti ci porti io!»

    «Perché?! Pure tu hai detto che non fanno niente di male! Allora, perché no?»

    «Perché sei piccolo, ci potrai andare quando sarai più grande.»

    «Tu sei grande, se vengo con te va bene.»

    «Oh, porca pu... Io non ci vado e non ti ci porto, nano. Ora torna in camera tua.»

    «Ma io voglio andar...»

    «Pussa via!»

    Harold si ritirò finalmente sconfitto. Se lo avesse portato al Solstizio i genitori lo avrebbero spolpato vivo fino a bruciargli le ossa: Vuoi rovinare anche tuo fratello? Non ti basta essere un somaro patentato? Vuoi che anche lui diventi come te? Che passi le giornate a non fare niente, a giocare coi pupazzetti come i bambini piccoli? Avrebbero detto.

    Si rimise le cuffie. Andò a dormire dopo una mezz'ora.

    Era un giorno tiepido, il sole brillava nel cielo limpido.

    Routine mattutina e via verso la scuola. Frequentava il principale istituto superiore di Greendale: la Bible White Academy. Niente di speciale da dire sul suo conto: una comunissima scuola superiore come tante altre.

    Prima lezione, matematica: due ore. Un tempo, in verità gli piaceva quella materia; aveva avuto buoni voti, poi, era diventata troppo difficile. Troppe lettere mischiate ai numeri, troppe leggi da ricordare a memoria. Adesso, era solo una delle materie in cui sfiorare il sei.

    L’attesissimo suono dell’intervallo. Uscirono nel cortile della scuola, Grishwold non era con loro, Lonny arrivò poco dopo.

    «Allora, raga, è deciso?» Brian si avvicinò chinando un po' il capo con fare circospetto.

    «È fatta, bello, se Lonny ha la macchina non ci manca niente.»

    «Sì, me la lascia sabato sera. Non è stato facile; ho dovuto pulire tutta casa e cucinare per una settimana e sbam, la macchina è nostra.»

    «Sei un grande! Io ho trovato l'erba, c'è un tipo che ce la mette a dodici, ne ha quanta ne vogliamo.»

    «Cazzo, dodici è tanto, però! Ma non c'era quel tuo amico, Lonny? Quel negro che ce la metteva a sette?»

    «Ma cosa dici! Facciamo una cosa seria: quella che ti ho trovato è erbona di prima qualità, outdoor baby, non qualche cacatina indoor seccata di merda!» Replicò Dylan.

    Lonny annuì con lo sguardo incerto sul terreno mentre si accarezzava il mento.

    «Mmmh... dài, prendiamo questa. Tre, quattro o cinque, quanta ne prendiamo?»

    «Tu porta quanto hai e non ci pensare.»

    «Sì, sì, poi vediamo! Dài, ci vediamo dopo, Lo'.»

    «Ciao, raga, a dopo!»

    Lonny salutò gli amici e tutti tornarono in classe;

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