Brivido all'italiana. La grande paura
Di Franco Enna
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Brivido all'italiana. La grande paura - Franco Enna
2018
LA GRANDE PAURA
1
Lì per lì non riuscii a spiegarmi che cosa mi avesse svegliato. La notte era tranquilla. Attraverso i vetri della finestra, dal mio letto potevo scorgere le luci del Monte Brè disposte a catena sui binari della funicolare che saliva fino alla vetta, le tre grandi lettere luminose che scrivevano il nome della montagna nell’oscurità e la macchia nera del lago tagliata, poco oltre Campione d’Italia, dalla linea sottile del ponte di Melide.
Mi piaceva quel silenzio di gente e di strade, nella notte, dopo la consueta vertigine di Milano. Mezzanotte doveva essere passata da un pezzo, ma laggiù, nella casa da gioco di Campione, la roulette certamente vorticava ancora.
Nell’albergo qualcuno faceva scorrere dell’acqua in una vasca. Ne udivo lo scroscio costante proprio sulla mia testa e una sensazione di attesa mi colse, come se da un momento all’altro il soffitto si dovesse sfondare e l’acqua cadermi sulla faccia.
Forse era stato quel rumore a svegliarmi, ma non ne fui convinto. La camera era imbottita di oscuro tepore. Alla mia destra, lo specchio dell’armadio rifletteva le luci riflesse nella parete tappezzata a scacchi.
L’acqua finalmente cessò di scorrere. Poi cominciò uno sciacquio. Qualcuno faceva il bagno.
Richiusi gli occhi ma il sonno rimase a ronzarmi sotto la fronte senza decidersi a scendere fino alle palpebre. Udii dei passi nel corridoio. Quasi dietro la mia porta, una donna fece una risatina soffocata, poi i passi, attutiti dalla guida di fibra vegetale, si spensero verso il piano superiore.
La persona che stava facendo il bagno sopra la mia testa probabilmente era una foca, perché ora lo sciacquio aveva assunto le proporzioni di una mareggiata. Chi sa perché le attribuii la faccia singolare del signor Quintavalle. Signor Chintavaglie
, lo chiamava Minou, la cameriera svizzera-francese dal corpo delicato come un violino. L’idea del signor Quintavalle che si bagnava mi fece ridere a occhi chiusi. Lo vedevo distintamente, alto, corpacciuto, timido come un pettirosso, untuoso nel modo di fare e nella voce, tanto che, pensai, se veramente era lui a fare il bagno, in quel momento l’acqua della vasca doveva presentare larghe chiazze di olio.
Negli ultimi quindici giorni ero venuto sei o sette volte a Lugano, e sempre avevo trovato il signor Quintavalle all’albergo Rivagaia, tutto inchini e sorrisi, gentile quanto buffo, sempre pronto a offrire da bere, e guai a rifiutare, le eterne borse nere sotto gli occhi e le mani inquiete. Doveva essere persona piuttosto facoltosa, perché più volte lo avevo visto cambiare banconote da cento e da cinquanta franchi, e sempre, in quelle occasioni, i suoi occhietti maliziosi avevano sbirciato nella mia direzione, mentre lui compiva il gesto di porgere il denaro e di prendere il resto, come se avesse voluto dirmi: Sono grossi, eh? Io li spendo per divertirmi, mentre tu per guadagnare un lenzuolo così devi portare oltre frontiera chi sa quanti pacchetti di sigarette e sciocchezze del genere!
Già, perché quello era il mio mestiere. Tutti mi conoscevano a Lugano, e anche alla frontiera, dove più di una volta i doganieri italiani chiudevano un occhio sul contenuto della mia valigetta a mantice. In genere non mi limitavo alla valigetta e, per non far capire che approfittavo un po’ troppo, sparpagliavo i miei pacchetti qua e là nei diversi scompartimenti e una volta in Italia li racimolavo per portarli a destinazione. Certo non era granché, quella roba; i generi erano sempre gli stessi: sigarette, cioccolata, spezie, estratti di carne, tè, ma quel traffico mi permetteva di mettere insieme ogni fine mese una discreta cifra, pari allo stipendio di un capufficio. Mai mi sarei sognato di guadagnare tanto, continuando a fare il rappresentante di tessuti come prima della guerra. Nell’immediato dopoguerra, quando i generi di prima necessità scarseggiavano, il guadagno di quel ridicolo contrabbando era di gran lunga superiore, ma anche oggi, a pensarci bene, potevo ritenermi soddisfatto, visto che parecchi altri uomini della mia età, al ritorno dalla guerra o dalla prigionia, per guadagnarsi da vivere erano costretti a fare salti mortali.
La foca aveva finito di sciacquarsi e, dopo il rapido scroscio dell’acqua nel tubo di scarico, nulla turbò più il silenzio. Avrebbe dormito fresco come una rosa il Quintavalle, ammesso che fosse stato realmente lui a fare quel bagno notturno. Ma perché continuavo a pensare a quel pachiderma? Le sue continue domande sulla mia vita, sulla mia attività, sui miei propositi futuri non mi avevano reso per nulla diffidente. Ne parlavo con tutti. Tutti sapevano che facevo il contrabbandiere
di professione e che con quell’onesto lavoro vivevamo io, i miei genitori, mia nonna paralitica e le mie due sorelle, una famiglia strampalata, se vogliamo, ma che non potevo cambiare. Il signor Quintavalle era stato gentile con me, ecco tutto, e non era la prima volta che mi capitava di incontrare gente cordiale e curiosa. Io, era un fatto, ispiravo simpatia, e inoltre mi piaceva ridere e scherzare. Anche a Chiasso, quando il treno si fermava per far dogana, i finanzieri mi battevano la mano sulla spalla dicendo: Come va, Gino?
Mica male, mica male!
rispondevo sornione, e distribuivo pacchetti di sigarette e cioccolata a destra e a sinistra.
La solita valigetta, eh?
mi dicevano.
Sì, la solita valigetta,
rispondevo e naturalmente non accennavo all’altra dozzina di involti sparpagliati nel vagone.
Una chiacchieratina, una barzelletta, una stretta di mano, e il cuore ritornava al suo vecchio ritmo. Così, quasi ogni giorno. Se, quindi, avevo pensato al signor Quintavalle che faceva il bagno sopra la mia testa, era stato per un vero caso, o forse anche perché quell’omaccione dalla voce oliata mi era simpatico. Ogni volta che ci incontravamo mi trascinava al bar e mi rimpinzava di liquori la cui sola marca mi faceva rizzare i capelli. Tra un bicchierino e l’altro mi parlava dell’Italia con piagnucoloso rimpianto, come se, invece di trovarci a due passi da Como, fossimo stati nel Venezuela. Io mi divertivo ad ascoltarlo, come mi divertivo a vedermi ascoltato, quando gli parlavo di me e della mia vita errabonda. In quelle occasioni, anche Minou dal corpo di violino pendeva dalle mie labbra, e mi fissava con i suoi occhioni blu come se io fossi stato l’ultimo uomo sulla terra.
Il pensiero di Minou, indiscreto, tenace, tentatore, soppiantò quello del signor Quintavalle. A trentasei anni l’idea del matrimonio non mi aveva neppure sfiorato, nonostante le frequenti allusioni delle mie amichette. Non ero pazzo a quel punto! A decine si contavano gli uomini che dicevano corna della moglie e del matrimonio.
Tentai inutilmente di mettere alla porta il pensiero di Minou. Quel suo armonioso corpo di violino mi stordiva. Inutilmente mi voltai e rivoltai nel letto sbuffando come un mantice. E a poco a poco vidi affiorare i diversi oggetti della camera dall’oscurità, mentre il cielo si tingeva di rosa.
Ero furibondo per quella stupida insonnia. Quando udii lo sferragliare del primo tram, andai ad abbassare le tapparelle e mi ricacciai sotto le coperte. Solo i rumori della strada riuscirono a conciliarmi il sonno e, quando la voce stridente della cameriera venne a gridarmi dietro l’uscio che erano le otto, dormivo sodo.
Mi alzai di malumore, sollevai le tapparelle e andai a cacciare la testa sotto l’acqua. Il cerchio che mi stringeva la fronte scomparve. Mentre mi vestivo, gettai un’occhiata nella strada. Gli svizzeri andavano al lavoro ordinati come militari. Il lago era grigio e immobile nella sua cornice di montagne.
Il mio treno partiva alle dieci e ventitré. Avevo tutto il tempo che volevo. La merce, ben riposta nei pacchetti razionalmente equilibrati in senso doganale, mi aspettava nel negozio del signor Bernasconi, il grossista che mi riforniva.
Scesi nel bar dell’albergo, dove i tranvieri che facevano capolinea a Cassarate bevevano il rituale bicchiere di vino. Minou, linda, graziosa, con le treccine avvolte a crocchia sulla nuca, l’immacolato grembiulino bianco sul pancino, allargò gli occhioni vedendomi e, bontà sua, arrossì.
"Bonjour, Monsieur Gino!" mi salutò con la sua vocina di fringuello.
Ciao, pupa!
risposi poggiando i gomiti sul banco. Hai dormito bene?
"Moi? Oh, sì!"
Sapessi io, invece! Le pupe come te sono fatte per tener svegli gli scapoloni del mio calibro.
Non capisco...
Lascia correre. Dammi un caffè all’italiana, e quando dico all’italiana intendo che devi metterci dentro tutta l’anima. Fammelo buono, e che Dio t’aiuti!
Minou rise confusa, imitata da uno dei tranvieri. Fu in quel momento che, voltandomi, lo vidi seduto in un angolo, accanto al biliardino elettrico. Teneva il giornale del mattino sulle ginocchia e mi guardava.
Buongiorno, signor Artieri.
Salve, signor Quintavalle!
Era distinto, il pachiderma! L’abito chiaro lo snelliva, dandogli più che mai l’aspetto di un ricco borghese. Mi parve di scorgere una certa ansietà nei suoi occhi scuri, e mi avvicinai istintivamente, con le mani in tasca, mosso dal mio irrefrenabile desiderio di chiacchierare, eredità sicura del mio lavoro di piazzista.
Si sieda,
mi invitò il signor Quintavalle con uno dei soliti sorrisetti. Come mai così presto, stamattina?
Presto? Sono quasi le nove. Va bene che Lugano invita al sonno, ma non bisogna dimenticare il lavoro. Io non vivo di rendita, caro signor Quintavalle!
Capisco, capisco. È di partenza oggi?
Sì. Prendo il treno delle dieci e ventitré.
Beato lei!
esclamò il signor Quintavalle scrollando il capo.
Perché?
domandai ridendo.
Io non riesco ad abituarmi alla Svizzera, anche se mi piace, s’intende.
E perché non si trasferisce in Italia?
Ormai.
Il signor Quintavalle si strinse nelle spalle malinconicamente. Sono venuto in Svizzera per ragioni di salute e ho finito col restarci. Abito a Lucerna, ma qualche volta faccio una puntatina nel Ticino, tanto per respirare aria di casa... Gradisce un bicchierino?
Perché no?
risposi sedendomi.
Il signor Quintavalle si rivolse a Minou che stava portando il mio caffè e ordinò due gin. I tranvieri uscirono in fretta salutando e, poco dopo, il piccolo tram azzurro ci passò davanti.
Minou portò il gin e, forse perché la fissavo mentre riempiva i bicchierini, mi accorsi che le tremava la mano. Si allontanò con la grazia di una farfalla.
Alla sua!
dissi levando il mio bicchierino.
Alla sua!
rispose il signor Quintavalle.
Ingollai d’un fiato il mio gin, poi passai al caffè. Il signor Quintavalle aveva ripiegato sul tavolo il Corriere del Ticino e ne stava carezzando i bordi pensosamente.
Lei abita a Milano, vero?
domandò a un tratto.
Per modo di dire,
risposi posando la tazza vuota. Ci vado per ragioni di lavoro. Ho una cameretta. Ma la mia famiglia paterna risiede a Cantù. Lì sono nato.
Ah, capisco!... Certo, non può permettersi granché, con la sua attività, vero?
Naturalmente. Vivacchio. E sono libero. Non debbo rendere conto a nessuno. Finché dura, va bene.
Il signor Quintavalle annuì in silenzio, poi trasse di tasca un pacchetto di Laurens e me ne offrì. Fumammo per qualche secondo senza parlare, poi lui riprese: Signor Artieri, avrei una proposta da farle.
Lo guardai incuriosito. Da qualche minuto stavo chiedendomi dove avesse intenzione di arrivare. I suoi occhietti timidi mi studiavano ansiosi. Sorrideva sempre, intanto che si tormentava le pallide mani.
Affari?
domandai.
Possiamo chiamarli affari. Si tratta di un piacere che le chiedo. Naturalmente la ricompenserò. E bene, anche.
Di che si tratta?
Dovrebbe portare un libro a un mio amico...
Se è per questo!
Aspetti, mi lasci finire.
Il signor Quintavalle mi fermò con un gesto deciso. È un libro di Gabriele D’Annunzio. Ce ne sono a centinaia sparsi per il mondo, ma lei dovrebbe portare al mio amico proprio quello che le darei io.
Sorrise. Si tratta di un caro ricordo, capisce?
Certo, certo'...
Per questo servizio le darei duemila franchi.
¹
Cosa?
esclamai saltando sulla sedia.
Ha udito benissimo, signor Artieri,
disse il signor Quintavalle senza scomporsi.
Ma è una somma enorme! Per una sciocchezza del genere non può sborsare tanto. Non dico che la rifiuterei, ma non vedo perché...
Un altro gesto deciso del signor Quintavalle m’interruppe. Il suo sorrisetto, ora, m’incuriosiva stranamente.
Signor Artieri, io sono solo al mondo e ho parecchio denaro. Raramente chiedo un piacere a qualcuno e, quando vi sono costretto, pago profumatamente chi mi serve.
Perché non spedisce il libro per posta? Con meno di due franchi se la caverebbe.
Non voglio correre rischi. Voglio che quel libro arrivi a destinazione.
Il suo sguardo divenne duro un istante. Non le ho chiesto un consiglio, le ho chiesto se è disposto ad accontentarmi.
Certo che sono disposto!
esclamai preoccupato che cambiasse idea. Santo Cielo, duemila franchi! Per guadagnare tanto avrei dovuto sudare tre mesi. Quella era una manna. Soggiunsi: Mi scusi, se ho avuto quello scatto, ma deve ammettere che la proposta mi doveva necessariamente stupire.
Me ne rendo conto,
disse il signor Quintavalle addolcendo lo sguardo. Gli uomini sono così abituati a vedersi maltrattati che, quando incontrano qualcuno disposto a fare del bene, diffidano.
È vero! Ha ragione, accidenti! In questo sporco mondo non s’incontrano che ladri, vampiri... Ce lo beviamo un altro bicchierino?
Quanti ne vuole!
rispose lui, sorridendo.
Gridai a Minou di portare la bottiglia di gin. Mi sentivo tanto elettrizzato che, quando la ragazza mi fu a