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L'uomo alla finestra
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E-book389 pagine5 ore

L'uomo alla finestra

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Tu non lo conosci. Ma lui conosce te.

«Una voce unica e potente.»

«Un livello di tensione mai visto.»

Con il divorzio finalmente alle spal­le, Grace si trasferisce a Saint’s Crossing, certa che sia il posto ide­ale per i suoi due bambini e per lei che, negli ultimi tempi, soffre d’in­sonnia. Il quartiere sembra un luo­go sicuro, vanta ottime scuole e gli abitanti sembrano amichevoli. Ma a Grace basta poco per scoprire il motivo per cui è riuscita ad acqui­stare a buon prezzo una casa così grande: il suo vicino. Leland Ernest è sospettato di essere responsabile della scomparsa di una bambina. Grace potrebbe aver commesso una leggerezza imperdonabile. La polizia, però, così come il giudice, non sembra ritenere Leland una mi­naccia. Sopraffatta dalle voci che girano e dalle notti insonni, Grace sviluppa una vera e propria osses­sione per Leland Ernest. Ma è solo paranoia o quell’uomo rappresenta davvero un pericolo per la sua fa­miglia?

È solo una tua ossessione oppure i tuoi figli sono in pericolo?

«Un thriller oscuro e scioccante, in cui ogni svolta nasconde un vicolo cieco. Semplicemente imperdibile.»
Samantha Downing, autrice bestseller di Il matrimonio dei segreti

«Una trama congegnata con cura e una protagonista che non potrete più dimenticare.»
Mary Kubica, autrice bestseller di Una brava ragazza

«Questo libro mi ha letteralmente lasciata senza fiato. Un capolavoro, è una delle storie più originali che io abbia mai letto. L’ossessione della protagonista diventa l’ossessione del lettore. Che talento, la Doering!»
Hank Phillippi Ryan, autrice bestseller di La verità sul caso Ashlyn Bryant

«Una lettura irresistibile: originale e disturbante come i migliori thriller.»

«Seguire Grace nella sua ossessione per il vicino di casa è un’esperienza adrenalinica.»

«Un romanzo che entra sotto la pelle, da brividi.»
Sharon Doering
Ha conseguito un master in Biotec­nologie presso la Northwestern Uni­versity e, prima di iniziare a scrivere romanzi, ha lavorato come analista di mercato nel settore delle biotec­nologie, collaborando tra gli altri con la CNN e il «Wall Street Journal». At­tualmente insegna Biologia al Co­lumbia College e vive nei dintorni di Chicago con il marito e i tre figli.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2020
ISBN9788822750396
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    Anteprima del libro

    L'uomo alla finestra - Sharon Doering

    1

    Due adolescenti si chinano su di me

    La mia mente è una palla di neve nelle mani di un bimbetto sbronzo di succo di mela. Continuo ad aspettare che i fiocchi bianchi si posino, ma la furiosa bufera non si placa.

    Esausta e tesa, mi lancio attraverso l’oscurità opprimente con il baby monitor in una mano e il cellulare nell’altra. Le scarpe da ginnastica da quattro soldi rimbombano sul cemento del marciapiede e ogni passo si ripercuote sugli archi plantari privi di sostegno. Inspiro a fondo nei miei polmoni anziani l’acre fetore del compost di fine estate. Perché la vita puzza tanto?

    Svolto l’angolo e il ronzio statico del baby monitor tace all’improvviso.

    Non c’è più campo.

    Corro più veloce. Se ce la metto tutta, posso fare un chilometro in meno di otto minuti. È la lunghezza del giro del mio isolato. Il cuore mi martella nel petto, sento sulla lingua il sapore salato delle lacrime. Anche piangere fa parte della mia routine.

    Il quartiere dove abito, Saint’s Crossing, è stato costruito male e in fretta trent’anni fa. Così almeno mi ha raccontato l’idraulico quando l’ho chiamato ad aggiustare la perdita della vasca da bagno del secondo piano che sgocciolava sul tavolo della cucina.

    Le case del mio quartiere sono modeste e accoglienti. Oppure piccole e deprimenti. Dipende dal punto di vista e dall’umore. Alla luce del giorno i loro colori hanno il tipico scialbore del Midwest: beige, verde salvia e giallo tenue. Gli alberi che punteggiano i piccoli prati e i parcheggi sono troppo grandi e troppo numerosi. Di tanto in tanto, tricicli e tavolini da picnic vengono abbandonati sui bordi dei marciapiedi, a disposizione di chi voglia riciclarli. Saint’s Crossing è un quartiere abitato da famiglie, giovani e vecchie, ma soprattutto è un posto sicuro e senza pretese.

    Così almeno pensavo quando mi ci trasferii parecchi mesi fa.

    Raggiungo il punto più lontano dalla casa e in quel momento sento la paura e la colpa affondarmi le unghie nel collo perché ho lasciato a casa da soli i bambini addormentati.

    Be’, con loro c’è Hulk, una piccola Boston terrier con le orecchie dritte e appuntite e gli occhi sporgenti. Naturalmente non ha dita per digitare il 911, ma se qualcuno spacca il vetro per entrare dalla finestra non mancherà di abbaiare sonoramente un paio di volte. Prima che le offra da mangiare.

    Immagino che la mia figlia di tre anni si sia svegliata e stia vagando per la casa, con le lacrime che rigano le sue irresistibili guancette.

    E allora il pensiero di Leland Ernest, il mio vicino, mi assale più ferocemente.

    Una zanzara mi ronza sull’orecchio e la schiaccio.

    Un lampione proietta le ombre degli alberi sul marciapiede. Una leggera brezza fa frusciare le foglie e trasforma i rami in mostri gesticolanti. La mia gigantesca ombra calpesta i mostri sul marciapiede.

    Mi lascio alle spalle il bagliore del lampione e corro verso una lunga fila di case i cui proprietari rifiutano ostinatamente di accendere le luci nel patio.

    Un ramo mi sferza il petto, facendomi mancare il respiro. Non l’avevo visto. Queste corse notturne attorno all’isolato sono sempre un’incognita. Non so mai cosa potrà colpirmi in faccia o se una pietra sconnessa del marciapiede mi farà inciampare e finire a terra.

    Quando sono in dirittura d’arrivo, a quattordici case dalla mia, accelero il passo.

    Davanti a me, un pino obeso ha invaso il marciapiede.

    Lo schivo e un’ombra nera si stacca dalla cima dell’albero, scende in picchiata e mi artiglia il collo.

    L’impatto mi fa perdere l’equilibrio, cado sull’erba umida e mi piscio addosso, inzuppando gli shorts. Suoni statici e ticchettii riecheggiano sopra di me.

    Cosa diavolo mi ha colpita?

    Sembrerebbe uno scoiattolo.

    Ma non è possibile.

    Api. Devono essere state delle api.

    Sento un bruciore al collo e alla spalla, quindi sì, è plausibile. Mi passo una mano sul collo per cercare le punture e mi accorgo che è bagnato. Sudore. O forse sangue?

    Immagino uno sciame di api che si avventa su di me perché qualcuno ha bombardato di pesticida l’alveare che avevano costruito vicino alla porta di casa sua .

    Ma le api non squittiscono.

    Mentre sono seduta sull’erba con gli shorts fradici di urina e inspiro a fondo nel tentativo di prevenire l’iperventilazione, due adolescenti si chinano su di me e mi toccano la schiena e le spalle con le loro dita gialle di nicotina.

    «Ehi, tipo, va tutto bene?», mi chiede uno dei due, in un tono a metà tra il divertito e il preoccupato. Oh, ti prego, chiamami come vuoi, ma non «tipo». Ho forse perso tutti marcatori della femminilità? Cerco di mettere a fuoco il suo viso e la sua sagoma. È un adolescente ossuto con i capelli a spazzola e un’aria sicura di sé con un che di militaresco. «È stato terribile. Davvero terribile!», dice.

    Il suo amico, che indossa un berretto da baseball sopra i capelli cotonati lunghi fino alle spalle, scuote la testa in silenzio con espressione assente. Sotto l’odore di fumo che impregna i loro vestiti sento il profumo di un ammorbidente. Qualcuno si occupa del loro bucato.

    «Va tutto bene. Non ho capito cosa è successo», dico, imbarazzata dal mio disorientamento e grata che sia buio. Anche se sentiranno una leggera zaffata di urina, non riusciranno a vedere i miei shorts bagnati. «Credo di essere stata punta da delle api!».

    «Ehi, quelli erano pipistrelli. Almeno una ventina di piccoli bastardi. Sono spuntati fuori dal nulla. Swoosh. E poi sono andati da quella parte». Indica l’altro lato della strada, come se avesse importanza, come se riuscissimo a scorgere qualcosa nelle tenebre. Come se i pipistrelli stessero attendendo il momento giusto per un altro attacco.

    Pipistrelli? Sta scherzando?

    Se c’è una cosa che non riesco a sopportare in questo momento della mia vita è essere presa in giro.

    Considero la situazione. Qualunque cosa mi abbia colpito, aveva una struttura ossea. Ripenso agli squittii e mi chiedo se avessi sentito anche un battito di ali. Ma non riesco a ricordarlo. È successo tutto troppo in fretta.

    Sollevo lo sguardo verso il ragazzo per controllare se sta sorridendo.

    Nessun sorriso. Mi fissa a bocca aperta, anche lui senza fiato.

    Non ti sto prendendo in giro. Era un branco di pipistrelli. Branco? Stormo? Colonia?

    Il suo amico silenzioso con i capelli cotonati sta ancora scuotendo la testa.

    «Non sapevo che i pipistrelli avessero un verso simile alle scariche statiche della radio», dice Capelli a Spazzola. «Vuoi che ti chiamiamo qualcuno?»

    «Va tutto bene, non serve. Abito a pochi metri da qui».

    Essere stata sbattuta a terra da quei piccoli esseri volanti mentre facevo jogging è piuttosto imbarazzante. Mi fa sentire vecchia e scoordinata, per non parlare delle zaffate di urina sprigionate dai miei shorts. Vorrei scomparire nelle tenebre. Mi alzo, e dopo qualche passo incerto mi metto a correre.

    Alle mie spalle sento la voce di Capelli a Spazzola che mi dice: «Se senti un’improvvisa brama di sangue, saprai il perché».

    Deglutisco, ma la gola secca si rifiuta di far passare la saliva. Il vento caldo mi passa sui graffi del collo facendoli bruciare.

    Merda! I pipistrelli trasmettono la rabbia.

    2

    Quella sacca è stata la peggiore delle sorprese

    Hulk è eccitata dai miei shorts zuppi di urina. Come se finalmente qualcuno capisse le sue disgustose pulsioni.

    Mi faccio la doccia e mi metto i pantaloni da yoga e una T-shirt. Con i capelli bagnati che mi sgocciolano sulla schiena, prendo il laptop e digito su Google attacco di pipistrelli.

    Dopo cinque minuti online ho lo sguardo annebbiato e penso già al mio elogio funebre. Senza una terapia immediata, la rabbia è fatale in quasi il cento percento dei casi, e per qualche strana ragione il quartiere esclusivo a nord del mio ha un problema di pipistrelli. Il volatile notturno dal naso schiacciato è stato trovato all’interno di parecchie case e questa estate sedici pipistrelli sono risultati positivi alla rabbia.

    Decido di chiamare mia madre, ma poi mi fermo, ormai deve essere a letto da un pezzo. Scorro mentalmente una breve lista di amiche. Liz abita a una trentina di minuti da casa mia. Non posso chiederle di venire a quest’ora. Quanto alle altre, da quant’è che non le vedo o non parlo con loro? Settimane? Mesi? Mi dico di non preoccuparmi, di non mettere in dubbio le amicizie. Tutte queste donne sono impegnate con il lavoro, i figli, la cucina, le faccende domestiche, e trascurano le loro amicizie, la loro vita sessuale e, di tanto in tanto, la loro igiene personale.

    Valerie sta a soli quindici minuti da qui e risponde sempre ai miei messaggi.

    Valerie! Lo so che è tardissimo, ma ho bisogno che tu mi tenga i bambini per una mezz’ora.

    Un appuntamento galante?

    Magari! Pipistrelli. Devo vaccinarmi contro la rabbia.

    Stai scherzando?

    No. Devo correre subito al pronto soccorso.

    Davvero?

    A mo’ di risposta, le invio una foto del mio collo.

    Arrivo tra venti minuti. Devo trovare gli occhiali.

    Valerie si presenta alla mia porta con gli occhiali leggermente storti sul naso, i pantaloni del pigiama e le infradito. La logora T-shirt di Eminem tesa sulla pancia mi rivela che non si è nemmeno preoccupata di mettersi il reggiseno. Un capezzolo spunta un buon paio di centimetri sotto l’altro. Conosco benissimo l’asimmetria del suo seno, che me la rende ancora più cara.

    «Mi dispiace toglierti a Dan un sabato sera», dico.

    Lei strabuzza gli occhi e fa una pernacchia, schizzando una goccia di saliva sul mio braccio. «Oh, ti prego», risponde, «sta mangiando hummus a cucchiaiate seduto in mutande sul divano e guarda le repliche della sua serie comica preferita. Non è proprio il mio sabato sera ideale».

    «Grazie».

    Hai visto, l’amicizia è salva.

    Lei fa un’altra pernacchia. «Davvero, non è un problema. Fammi vedere il morso!».

    «Credo siano graffi», rispondo chinando il collo per farglieli vedere. «E comunque penso sia meglio che mi faccia vaccinare».

    «Erano in casa, i pipistrelli?»

    «No, no. Ero fuori. Stavo facendo jogging».

    Lei inarca le sopracciglia. «Hai lasciato i bambini a casa da soli?»

    «Ho fatto soltanto il giro dell’isolato». Mi ha smascherata. La mia negligenza notturna era un segreto. Adesso tutti lo sapranno, e mi criticheranno per questo.

    «Devo andare», dico infilando la borsa a tracolla. «Chloe e Wyatt stanno dormendo nei loro letti». Mi incammino verso la porta e poi mi volto. «Quando esco, chiuditi a chiave». Tiro fuori le chiavi dalla borsa e le faccio tintinnare, chiedendomi come dirlo a Valerie. «Il mio vicino è sospettato di un crimine». Rapimento.

    Anche se a questo punto, dopo cinque mesi, è diventato un sospetto omicida. Ma non voglio pronunciare la parola omicidio. Non sono pronta a dirla.

    La mia rivelazione suona forzata e superflua, ma la criminalità del mio vicino è stata come una nube tossica che mi ha offuscato per giorni la mente e avevo un disperato bisogno di sfogarmi. Valerie deve assolutamente tenere le porte chiuse. Non vorrei mai che si sdraiasse sul divano a guardare la tivù con la porta aperta per godersi la brezza notturna.

    «Di quale crimine?»

    «Il rapimento di Ava Boone».

    «Oh, mio Dio, Grace. Ava Boone? Oddio. Quel povero angelo!». Valerie si stringe le guance con le mani, tendendo la pelle e facendo scivolare gli occhiali sul naso. «Quella povera bambina avrebbe dovuto iniziare il nido come il mio Max. È pazzesco! Perché non me l’hai detto prima?»

    «L’ho scoperto soltanto qualche giorno fa».

    «E perché è sospettato?»

    «Non sono al corrente di tutti i particolari», rispondo, mentendo solo a metà. «Probabilmente è innocente, visto che non l’hanno ancora arrestato. Magari è un errore ed è una brava persona». Sto cercando di essere ottimista, di fare l’avvocato del diavolo, ma la mia voce trema perché so che non è una brava persona. «È solo per stare tranquille».

    «Come fai a stare tranquilla lasciando i figli soli a casa per fare jogging? Cosa pensavi?». Non mi sta facendo la paternale o trattando da stupida, è una domanda più che lecita.

    Ho parecchie risposte, e tutte sincere.

    Pensare? Non pensavo affatto. Negli ultimi quattro giorni la mia mente è stata annebbiata dal cortisolo e volevo soltanto immergerla per undici minuti nella lucidità dopaminica.

    È da quattro giorni che non chiudo occhio e speravo che la spossatezza fisica favorisse il sonno.

    Non faccio sesso da sei mesi e ho bisogno di uno sfogo fisico.

    La scorsa settimana Chloe mi ha fatto una fotografia. In realtà, ne ha scattate venticinque. Mi ha preso il telefono mentre lavavo i piatti e mi ha immortalata impietosamente in una serie di scatti, finita in una gioiosa lotta al solletico sul divano. In quelle foto sembravo una quarantenne. Sono state un pugno nello stomaco, tutte e venticinque. Nelle prime si vedeva il mio sedere cascante avvolto nei pantaloni grigi da yoga, con l’elastico delle mutande parecchi centimetri sotto il punto in cui dovrebbero finire i glutei. Le dieci foto successive mostravano le ascelle così pallide, carnose e cosparse di macchie da farmi venire voglia di praticarmi da sola un intervento estetico con un coltello da burro. Le ultime ritraevano la fronte lucida e rugosa, i capelli unti e una sacca sotto il mento simile a uno scroto, di cui ignoravo l’esistenza. Quella sacca è stata la sorpresa peggiore. Non l’avevo mai notata prima. Il fatto che nelle foto abbia un’aria felice, follemente felice, mentre faccio il solletico alla mia piccola aguzzina non conta niente. La bruttezza messa in risalto da quelle immagini cancella tutto il resto. Mi viene in mente che mamma è la parola più cliccata sui siti porno. Ma non funziona. Non basta a stimolare il mio ego. La conclusione è che devo fare esercizio.

    Scelgo la risposta più facile. «Non dormo da quattro giorni, Val. Stavo cercando di stancarmi a morte».

    «Ci sono dei farmaci per questo. Oppure puoi scolarti una bottiglia di vino. È quello che faccio io». Scuote la testa allibita, come il ragazzo con i capelli cotonati. «Non hai controllato il vicinato prima di comprare casa?». Il suo tono è preoccupato e partecipe, ma implica un giudizio. Che razza di madre snaturata sei?

    «Cosa dovevo fare? Andare a bussare di porta in porta per chiedere se qualcuno era sospettato di rapimento? Non l’hanno accusato di nulla. La bambina non è ancora stata trovata».

    «Lo sai che il settantasei percento delle bambine rapite vengono uccise nelle prime tre ore?», risponde lei.

    Settantaquattro per cento, stando alla mia ricerca su Google. «Lo so, ma adesso devo andare, Val». Mi ha fatto mettere sulla difensiva, una cosa che detesto. E il collo mi brucia. Le immagini del ragazzo indonesiano infettato dalla rabbia che ho visto su YouTube mi riaffiorano alla mente.

    «Hai ragione, è meglio che vai», dice lei. «I bambini lo sanno?»

    «No, non ancora».

    «Okay, va’!». Mi abbraccia, frettolosamente ma con calore, evitando il lato graffiato del collo. Un bell’abbraccio che mi fa capire quanto ho bisogno di contatti con persone adulte.

    Wyatt, che ha otto anni, mi abbraccia di rado, e quando lo fa gira la faccia dall’altra parte, distogliendo gli occhi, come se non riuscisse a sopportare la mia vista e il mio odore. Prima ancora di iniziare, si sta già allontanando.

    Gli abbracci di Chloe, che ha tre anni, sono caldi, le mani che svolazzano come farfalle e la pelle umida, ma hanno anche qualcosa di avido. A Chloe piace prendere la mia faccia tra i suoi sudici palmi e stringere forte. E se non riesce a raggiungere la faccia, mi afferra una coscia e conficca le dita nella cellulite.

    I bambini prendono. Infilano le loro piccole cannucce nel bicchiere della tua anima e succhiano.

    Guido fino al St Joe’s Hospital con il finestrino abbassato. L’aria mi soffia in faccia, raffreddandomi le guance, ma il mio cuoio capelluto suda e prude.

    Gli ospedali mi rendono nervosa. È un’autentica fobia. Sono come le case dei fantasmi al luna park. Ma a differenza di quelle, concepite per deliziare e terrorizzare giovani scolari, gli ospedali impiegano indiscriminatamente trentenni con precedenti penali e usano prolunghe per azionare seghe elettriche vere.

    L’ultima volta che sono entrata in una casa dei fantasmi ho dato una gomitata a uno zombi facendolo cadere in una bara. Spero di riuscire a tenere a freno le mani al St Joe.

    3

    Vorrei rimpicciolire questa donna

    L’odore di sapone metallico del Betadine mi si insinua nelle narici.

    Sono sdraiata sulla schiena, senza T-shirt, in reggiseno, e sto tremando. L’aria condizionata dell’ospedale è gelida. E sono in ansia.

    La carta bianca da lettino, onnipresente, scricchiola sotto di me mentre mi giro. La stanzetta del pronto soccorso è separata da una moderna porta scorrevole in vetro dietro una tenda.

    «Non sembrano morsi di pipistrello. Parrebbero graffi», dice la dottoressa.

    Un minuto fa mi ha detto il suo nome, ma me lo sono dimenticato. Con indosso un paio di guanti blu, mi strofina la pelle con il Betadine, che mi procura una sensazione di freddo, e poi posa su un vassoio il batuffolo di cotone ingiallito.

    La dottoressa è snella e ha lunghi capelli biondi con colpi di sole che sembrano naturali. Come una bambina. La splendida chioma è raccolta in una coda di cavallo così perfetta che mi sento confusa. Non è una bellezza convenzionale e il suo corpo non ha curve, ma la carnagione è chiara, i denti bianchissimi e il naso piccolo. Questi tratti – i colpi di sole naturali, il naso minuscolo e i piccoli pori – sono quelli che le donne come me invidiano quando invecchiano e devono sforzarsi per impedire alla mascolinità di insinuarsi nei loro lineamenti.

    «Sì, graffi», rispondo. «È quello che pensavo anch’io».

    «Può contrarre la rabbia se uno di quei pipistrelli aveva della saliva sulle unghie ed era affetto dalla malattia», dice la dottoressa. «Le probabilità sono molto remote. Soltanto il sei percento dei pipistrelli ha la rabbia».

    Finisce di pulirmi e bendarmi il collo e poi getta nel cestino le garze sporche. «Si sieda, per favore», dice, scostandomi il lembo della gonna dal grembo e porgendomi la T-shirt con le maniche allargate. Obbedisco. Mi siedo e infilo le braccia nella maglietta.

    Lei tira fuori una torcia a stilo dal taschino del camice, l’accende e me la punta negli occhi. «Segua la luce. Ha detto di essere stata attaccata?»

    «Lo so che sembra assurdo», rispondo seguendo la luce. «Dovevo essere sulla loro traiettoria quando sono passati».

    «Mmh». Spegne la torcia e la rimette nel taschino.

    «Due ragazzi hanno assistito alla scena». Perché mi sento come una bambina che racconta una bugia?

    Lei si stringe nelle spalle come se non mi credesse e al tempo stesso non le importasse. Alla fine della visita di routine (respirazione, polso, occhi, orecchie, naso, gola), la dottoressa mi dice: «Una dozzina di pipistrelli in questa zona sono risultati positivi alla rabbia, quindi dobbiamo essere scrupolosi. Le somministreremo questa notte il primo vaccino insieme a degli anticorpi per preparare il suo sistema immunitario. È il protocollo seguito in caso di esposizione alla rabbia. Prima di andarsene dovrà fissare gli appuntamenti per le iniezioni di richiamo. Il ciclo deve essere concluso entro un mese». Mi fissa sgranando gli occhi. Le sue sclere sono bianche come i denti. «Non voglio spaventarla, ma se non viene trattata, la rabbia può essere fatale. Quando avrà finito la serie di quattro iniezioni potrà stare tranquilla. Ha capito?»

    «Sì».

    «Ha mai avuto una reazione allergica a un vaccino?»

    «Non mi risulta».

    L’infermiera che qualche minuto prima aveva inserito i miei dati – nome, data di nascita, motivo della visita – nel suo laptop si rimette a digitare, registrando la mia risposta. Ha la mia età, forse un po’ più vecchia. I capelli sono più ricci e disordinati di quelli della dottoressa, e la pelle del collo è un po’ raggrinzita, ma ha lo stesso sguardo lucido ed efficiente della sua collega.

    «Le è mai stato diagnosticato un tumore?»

    «No».

    «Disturbi cardiaci?»

    «No».

    «Che farmaci sta assumendo attualmente?»

    «Adderall».

    «Per il deficit di attenzione?».

    Annuisco.

    La vergogna si insinua in me come una scheggia sotto un’unghia. Piccola ma pungente.

    Se stessi usando un farmaco per abbassare il colesterolo, proverei la stessa vergogna per le molecole di grasso fluttuanti pigramente nel mio sangue? E se assumessi una medicina per l’asma, mi vergognerei forse dei miei melodrammatici bronchioli?

    Non lo so per certo, ma credo di no. I polmoni e il sangue sono soltanto lubrificanti e guarnizioni. La mente, invece, è una finestra sull’anima, che ci rivela il vero essere di una persona, la sua forza interiore, la sua affidabilità e integrità. E la mia mente, senza farmaci, è inadeguata.

    «Quanto spesso fa consumo di alcol?».

    È una domanda che di regola nel questionario viene dopo, ma lei l’ha anticipata perché ho ammesso il mio deficit di attenzione?

    «Una volta alla settimana, al massimo».

    «E in questi casi quanto beve?»

    «Un paio di bicchieri di vino».

    «Nessun altro problema medico?».

    La sua domanda mi riecheggia nella testa.

    Sarebbe il momento giusto per dirle che non dormo da quattro notti. Per raccontarle che ieri mattina, quando ho guardato fuori dalla finestra della cucina, ho visto la cima di un abete piegarsi di trenta gradi verso terra per poi raddrizzarsi. Che poche ore fa, quando ero seduta sul coperchio del water mentre i miei figli facevano il bagno – con le loro risate e i loro strilli acuti amplificati dalle pareti piastrellate e lo tsunami di acqua e schiuma che allagava il pavimento infradiciando gli asciugamani – qualcosa dentro di me, che avrebbe dovuto rimanere saldo, per un breve istante si era spezzato. Che sento le corde vibranti di cui è intessuto l’universo tendersi fino al punto di spezzarsi.

    Ma se le dicessi queste cose, la dottoressa potrebbe usarle come pretesto per costringermi a sottopormi a una terapia psichiatrica per la quale non ho né il tempo né i soldi.

    Hai solo bisogno di dormire.

    «Ultimamente non riesco a dormire bene, non mi sento più io».

    Lei aspetta nel caso abbia altre rivelazioni e, quando la fisso con l’aria assente e le spalle curve, dice: «Può chiedere al suo medico curante di prescriverle un sonnifero come l’Ambien, ma ci sono effetti collaterali. Se pensa che le sue difficoltà a prendere sonno siano soltanto temporanee, il Benadryl è la soluzione migliore a breve termine. Con me funziona sempre».

    «Anche con me, ma poi la mattina mi sveglio intontita e riesco a malapena a fare i panini per il pranzo dei miei figli».

    Lei mi sorride educatamente, ma il tempo che può dedicarmi al pronto soccorso è limitato e, come una cameriera che pensa già alla prossima mancia, è ansiosa di liquidarmi. Si sfila i guanti blu e li getta nel cestino per farmi capire che il tempo a mia disposizione è finito. «Prima di andare fissi i prossimi appuntamenti e non si preoccupi. Ha altre domande?»

    «Insegno alla scuola materna. Posso andare al lavoro lunedì?»

    «Sì. Prima di lunedì sopra i graffi si sarà formata una crosta. Ma per prudenza non si tolga le bende», mi risponde sorridendo. «Voleva che la esentassi dal lavoro la prossima settimana?»

    «No». L’idea che mi abbia presa per una lavativa mi fa arrossire. «Le iniezioni sono dolorose? Le fanno nella pancia?», le chiedo, memore delle leggende urbane sul vaccino contro la rabbia.

    «No. È dagli anni ottanta che non si fanno nella pancia. È una banale endovena nel braccio. E le inietterò gli anticorpi nello stesso punto. Non ha nulla di cui preoccuparsi», dice dandomi un colpetto sul ginocchio. «Ritorno tra qualche minuto», aggiunge scostando la tenda e aprendo la porta scorrevole. Esce frettolosamente con la grazia di una ballerina.

    I miei figli sono sempre stati vaccinati da un’infermiera e il fatto che sia una dottoressa a somministrarmi l’antirabbica mi fa sentire come se la mia situazione fosse disperata. Nell’aria aleggia l’odore acre del sapone allo iodio. Il mio stomaco è teso, la pelle fredda e appiccicaticcia. L’aria nel pronto soccorso è gelida.

    «Non mi sono inventata nulla», dico all’infermiera.

    Lei sorride e mi picchietta la pelle dell’avambraccio, come se fossimo rimaste sedute insieme per ore in un caffè. «Non immagina quante volte ce lo sentiamo dire dai pazienti del pronto soccorso. Ieri notte è arrivato un tipo con un barattolo di burro di arachidi nell’ano e ha detto che ci era caduto sopra».

    Strabuzzo gli occhi.

    «Era un barattolo da mezzo chilo, mica roba da poco. In giro c’è un sacco di gente malata».

    «I pipistrelli non mi hanno attaccata di proposito, penso di essere finita nella loro traiettoria».

    «Le credo», risponde l’infermiera. «Ho sentito che hanno trovato dei pipistrelli in molte case di Arbor Ridge Ponds. Sono convinta che sia opera di qualche squilibrato amante dei pipistrelli che li sta allevando nel suo giardino con la speranza di trasformarsi in un vampiro. Pensavo che quegli animali si stessero estinguendo per via della sindrome del naso bianco».

    Sorrido e la tensione si allenta. Nonostante gli ospedali e il loro staff mi facciano accapponare la pelle, le persone come questa infermiera mi fanno sentire in grado di gestire i problemi della mia vita. Vorrei rimpicciolire questa donna e mettermela nella borsa, così potrebbe sciorinarmi per tutta la giornata i suoi divertenti aforismi e farmi dimenticare le mie preoccupazioni. I politici e i pannolini dovrebbero essere cambiati spesso, e per le medesime ragioni! Tra quarant’anni, migliaia di vecchie signore se ne andranno in giro coperte di tatuaggi!

    «La gente è davvero malata, glielo dico io. I miei vicini, per esempio, li conosco da dieci anni. Ho condiviso con loro un’infinità di bottiglie di vino, come si fa normalmente tra vicini, e il mese scorso lui si è lasciato sfuggire che si infilano dei ganci nella pelle per praticare la body suspension». Mi picchietta di nuovo l’avambraccio e scuote la testa. «Sono una coppia di cinquantenni. Pensi di conoscere i tuoi vicini, ma in realtà non ne sai nulla».

    Sento una fitta allo stomaco. Nell’arco di una trentina di secondi mi si presentano quattro improbabili ma possibili scenari in cui uno dei miei figli addormentati muore e una quinta alternativa inizia a prendere forma.

    Voglio uscire di qui.

    Afferro la borsa e tiro fuori il cellulare per sentire da Valerie come stanno i bambini.

    4

    La pelle si squamava

    I bambini stanno dormendo come quando sono uscita.

    È naturale, cosa ti aspettavi che facessero?

    Quando Valerie se ne va, mi siedo sul letto di Chloe e ascolto il suo respiro. È rannicchiata in posizione fetale e sincronizzo il mio respiro con il suo. La guardo a lungo, controllando il ritmico sollevarsi e abbassarsi della sua piccola schiena, terrorizzata dall’idea che all’improvviso si fermi e che la sindrome della morte improvvisa me la porti via. Mi allontano a malincuore e sbircio nella camera

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