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Sei solo mio
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E-book247 pagine3 ore

Sei solo mio

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Info su questo ebook

Lisa conosce Dante da una vita. Lui è il migliore amico di suo fratello ed è anche il ragazzo con cui giocava quando era solo una bambina. Ma Lisa ha un segreto: lo ama follemente, fin da allora, anche se non ha mai trovato il coraggio di confessarglielo. Dante, pugile dilettante che aspira a una carriera da professionista, sembra non ricambiare quei sentimenti, e continua a trattarla al pari di una sorella minore. Ma a volte la vita sa essere imprevedibile, mette di fronte a un bivio e costringe a scegliere. Lisa sarà capace di conquistare Dante? E lui, che sembra così deciso a non aprirsi all’amore, sarà disposto a lasciarsi conquistare?

Un libro di passione, lacrime ed emozioni intense

«Ragazzi, questo libro bisogna leggerlo, assolutamente.»
Rita

«Se ci fossero più stelline, Sei solo mio le meriterebbe. Meraviglioso.»
Marianna

«Viviana Leo non è solo una garanzia, ma è una perla rara. Le sue storie sono uniche!»
Antonietta
Viviana Leo
Vive a Calimera, in provincia di Lecce. Laureata in Lettere e filosofia, scrive fin dall’età di dieci anni, legge da quando ha memoria ed è fermamente convinta che libri e animali siano il dono più bello che Dio possa aver fatto agli uomini. Sei solo mio, romanzo già autopubblicato, ha avuto un notevole successo in rete.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2015
ISBN9788854189775
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    Anteprima del libro

    Sei solo mio - Viviana Leo

    Capitolo 1

    LISA

    Questo è per la mia Charlotte». Allungai la mano attraverso le sbarre e un lungo muso da segugio annusò il bocconcino che stringevo fra le dita. Il tartufo si mosse un po’, poi Charlotte sembrò convincersi e decise di spazzolare il cibo dalla mia mano con un colpo di lingua. Mi guardò con i suoi occhi neri, ormai velati dagli anni, e le coccolai il testone con le dita. «Brava bambina».

    «Un altro bocconcino?». Maria si avvicinò scuotendo il capo. «Così la vizierai». Era una volontaria, come me, una donna di mezza età con qualche chilo di troppo ma sempre sorridente. Lavoravo volentieri in sua compagnia, mi divertiva ascoltarla mentre raccontava aneddoti buffi sui suoi due figli maschi e adoravo vederla all’opera con i nostri amici a quattro zampe.

    «È proprio questo che voglio», risposi continuando a osservare Charlotte e i suoi movimenti lenti, mentre girava su se stessa prima di mettersi comoda nella sua cuccia. Appoggiò il muso sulle zampe e sospirò. Sembrava in continua attesa di qualcosa, come tutti i cani rinchiusi lì dentro. Attendevano di ritornare a vivere in libertà, con qualcuno che li amasse. Facevo la volontaria da un anno, ma non mi ero ancora abituata a quello sguardo: un misto di speranza e rassegnazione che colpiva dritto al cuore.

    «Vieni con me?», mi chiese Maria. «Abbiamo dei nuovi arrivi». Annuii e la seguii lungo il corridoio colmo di gabbie e rumori.

    «Oh eccovi qui». Teresa, un’altra volontaria, ci venne incontro. Stringeva fra le mani due trasportini per cani. «Li ha portati stamattina l’accalappiacani. Abbiamo tre cuccioli meticci, due maschi e una femmina. Vagavano affamati per la città». Li sentii guaire piano e mi affacciai, curiosa, tra le sbarre di plastica. Vidi tre musini color panna e tre paia di occhi scuri osservarmi spaventati. Infilai il dito nella plastica e fui subito ricompensata da una leccata da parte di uno dei tre.

    «E lì chi c’è?», domandò Maria indicando l’altro trasportino.

    «Un randagio. È stato raccolto in autostrada ma ha tentato di mordere tutti. Abbiamo dovuto utilizzare una museruola». Mi piegai sulle ginocchia, ma riuscii solo a intravedere uno sguardo che mi fissava in un modo poco amichevole.

    «Povero piccolo», sospirò Maria. «Chissà cos’ha passato. Non sarà facile conquistare la sua fiducia».

    Quella mattina incontrai Alice in centro per fare shopping e distrarci un po’. Ero stata al canile fino a mezzogiorno inoltrato, finché la mia migliore amica non mi aveva chiamato al cellulare e convinto a ritagliarci un po’ di tempo per noi.

    «Ti giuro, credo che ne uscirò pazza», biascicò Alice mentre addentava un tramezzino al tonno. «Il professor Camastra non è mai contento e ogni volta spegne tutto il mio entusiasmo. Sono soddisfatta dell’argomento scelto ma… a volte vorrei non dover avere a che fare con lui». Ci saremmo laureate insieme di lì a qualche mese, con lo stesso relatore, e ormai l’argomento università era fra i più quotati già da quando, un mese prima, avevamo terminato gli esami.

    «Andrà tutto bene, Alice, la tua tesi è fantastica. Il professore pretende il meglio da te perché sa che lo può ottenere. Credo che tu l’abbia scelto anche per questo».

    A quell’ora il centro commerciale era incredibilmente affollato. Il bancone della tavola calda era completamente occupato da persone di tutte le età in attesa di mangiare.

    Stavo per addentare anch’io il mio tramezzino quando squillò il telefono. Diedi un’occhiata veloce al nome sul display e sbuffai. Mio fratello Andrea.

    «Lisa, dove sei? Io e Dante siamo in giro ma conto di tornare a casa fra poco».

    «Sono con Alice».

    «Va bene, ma non tardare. Non ho le chiavi e Dante ha un appuntamento questa sera». Li sentii ridacchiare e mi morsi un labbro, trattenendo una battuta acida. Alice colse al volo la mia occhiata irrequieta e capì immediatamente qual era, o meglio chi, il motivo.

    «Ok», risposi secca, prima di riattaccare. Mi voltai verso Alice e notai subito che mi stava fissando con uno sguardo facilmente interpretabile. «Smettila di guardarmi così», sbottai irritata.

    Era sempre lui il motivo: Dante. Il miglior amico di mio fratello, di cinque anni più grande di me, terribilmente bello. Colui che mi aveva visto quando a otto anni ero scivolata davanti alle scale della scuola, ferendomi la fronte, e mi aveva soccorso insieme agli insegnanti; il ragazzo che trascorreva da noi buona parte delle giornate. Lui c’era sempre. Come il giorno in cui era morto il mio gatto storico, Puppy, quello che lui prendeva sempre in giro tirandogli la coda e facendomi arrabbiare. Avevo diciassette anni e lui mi aveva consolato come nessun altro. Credo di essermi innamorata di lui proprio allora. Erano passati circa cinque anni da quel giorno e il problema era che lui mi considerava una sorella minore. Nessuno era a conoscenza della mia cotta, neppure Andrea, mio fratello; era troppo imbarazzante per me. Solo Alice lo sapeva, e devo dire che non perdeva occasione per prendermi in giro.

    «Avanti, Lisa, come si fa ad amare uno per cinque anni e non dirgli nulla? Sei una stupida». Ecco. Ennesima conversazione su di lui, seconda solo all’argomento università. Buttammo i vassoi e uscimmo da quell’edificio chiassoso.

    «Non posso farlo, lo sai. Non è così semplice», risposi tirando una foglia da un albero ormai sbiadito. Eravamo alle soglie dell’autunno e l’aria fresca iniziava a farsi sentire. Guardai il parco dove io e Alice eravamo andate a passeggiare, e pensai amaramente che un’altra estate era trascorsa, e io, come al solito, mi sentivo una stupida. Avevo assistito a tutte le avventure estive di Dante senza proferire parola, stoicamente, come sempre, ma dentro di me bruciavo per la rabbia. In fondo Alice non aveva tutti i torti. Amare un ragazzo per tanti anni in silenzio era un po’ come avere un macigno sul cuore e portarne il peso ogni istante della vita.

    «Glielo dovresti dire».

    Lei sì che avrebbe potuto dirlo, pensai commiserandomi. Era alta, snella, con due occhi grandi e dei capelli invidiabili. Ma io? Ero anonima. Fisico normale, due occhi di un marrone sbiadito e capelli mossi, spesso intrattabili. Certo, come no, quale chance potevo avere con uno come Dante che cambiava letto così come cambiava mutande e stava sempre con ragazze molto belle?

    Non che io fossi orribile, ero carina, ma non potevo competere con loro. Lui era sempre stato il più ambito della scuola, con quei capelli neri come l’ebano e occhi blu come il cielo di notte. Per non parlare di quel fisico che… Ok, stavo divagando. Il fatto era che tutte le ex fiamme di Dante non erano certo come me. Erano Miss perfezione, e quando dico tutte, intendo proprio tutte. Io potevo al massimo aspirare a uno o due corteggiatori simpatici.

    Come se non bastasse, il mio Dante era un pugile, un promettente pugile, che presto avrebbe intrapreso la carriera da professionista, con tanto di groupie al seguito che gli morivano dietro. Assistere ai suoi combattimenti per me era sempre un’agonia: quando lo vedevo salire sul ring, con il suo fisico statuario, sentivo il desiderio irrefrenabile di correre ad abbracciarlo e implorarlo di non combattere. Ma sapevo che era nato per quello, non avrei mai potuto chiederglielo. E lui non l’avrebbe mai fatto per me.

    «Dirglielo? Per far morire di risate lui e Andrea? No, grazie».

    «Ma se non tenti, hai già perso», sentenziò la mia saggia amica.

    «Preferisco perdere, Alice, davvero». Perché sono un’incredibile codarda. Questo non lo dissi ma si intuì.

    «E allora guarda oltre, prova a dimenticarlo. Che ne dici di vederci con Samuel e Claudio stasera?». Erano mesi che non uscivo con qualcuno. Avevo avuto qualche ragazzo, ma era sempre finita male, per ovvie ragioni.

    «Va bene», sospirai. Dovevo provare a voltare pagina. Al massimo sarei ritornata a casa da sola con la coda fra le gambe, come sempre.

    Mancavano poche ore all’appuntamento organizzato da Alice e io non avevo ancora scelto trucco e abbigliamento. Mi fiondai di corsa in camera mia e aprii l’armadio. Alla fine scelsi una gonna rossa lunga fin sopra il ginocchio, camicetta nera e tacchi alti. Al diavolo la comodità! Volevo essere bella, volevo pensare a me stessa per una volta, volevo godermi quell’appuntamento al buio. Claudio era un amico di Samuel e speravo con tutta me stessa che non fosse un buco nell’acqua come sempre.

    Mi sciolsi i capelli, una massa arruffata sulla testa, sfilai la maglietta e corsi in bagno. Mi ci voleva una doccia rigenerante e un po’ di trucco che valorizzasse il mio viso.

    Non appena aprii la porta, però, sentii qualcosa sbattermi contro, e un imbarazzante «Oh!» sfuggì dalle mie labbra.

    «Ehi, Coniglietta, attenta a dove vai».

    Spalancai gli occhi ancora chiusi per l’urto. Quella voce. Terribilmente sexy, nonostante l’odioso nomignolo affibbiatomi all’età di undici anni, solo perché allora i miei denti erano più sporgenti del normale. Quei pensieri divennero confusi quando notai che non solo io ero in jeans e reggiseno, ma anche lui era a torso nudo, e i nostri corpi erano molto vicini. Troppo. Avvampai immediatamente.

    «Dante, ma che diavolo ci fai qui mezzo nudo?». La mia voce uscì stridula dall’imbarazzo.

    Lui si appoggiò alla porta, completamente a suo agio. Spalla poggiata al muro, addominali in bella vista, capelli umidi sulla fronte e quegli occhi incredibili in cui temevo di perdermi e affogare. Quanto era cambiato da quando era un ragazzino smilzo e con gli occhiali! Avevo assistito a tutte le sue trasformazioni e all’età di sedici anni lo avevo visto sbocciare prepotentemente. Da allora aveva raggiunto quasi il metro e novanta e il suo fisico era diventato tutto muscoli, soprattutto grazie allo sport che praticava. Il suo naso aveva conservato una piccola gobba all’attaccatura, ricordo di un pugno ricevuto da un avversario troppo forte.

    Mi squadrò con un sorriso sghembo. «Potrei farti la stessa domanda».

    «Questa è casa mia». Risposta ovvia.

    «Mi sono macchiato la maglietta e Andrea ha detto che potevo venire a sciacquarla qui», mi spiegò e solo allora notai la t-shirt che stringeva tra le mani.

    «Tu e Andrea quando la finirete di ingozzarvi di schifezze davanti alla tv? Sembrate dei ragazzini». Pura invidia, la mia. Perché i ragazzi possono permettersi di ingollare qualunque cosa senza ingrassare di un etto, mentre io devo stare attenta anche a una carota in più?

    Dante rise. Mi lanciò un’occhiata. Il reggiseno nero era ancora lì, in bella vista, e in quel momento ringraziai il cielo di avere addosso uno dei miei migliori capi di biancheria intima. «Tu invece non sembri più una ragazzina». La frase, inaspettata, mi fece restare impietrita. «Ci vediamo, Coniglietta», disse e andò via, lasciandomi sola e imbarazzata.

    Capitolo 2

    DANTE

    Che ne dici di un ballo, io e te?». La bionda mi guardò con occhi da cerbiatta e io le sorrisi. Perché no? La osservai e giudicai che poteva andare. Top scollato e striminzito che lasciava poco spazio all’immaginazione, minigonna quasi inguinale che lasciava nude due gambe lunghe e perfette, su tacchi vertiginosi. In fondo ero seduto su quel divanetto da almeno un’ora con lei incollata addosso, le sue amichette starnazzanti attorno e quella stramaledetta musica martellante che mi molestava le orecchie. Andrea era in compagnia di quella sua amica, la brunetta sexy, e di certo in quel momento si stava dando da fare. Lanciai un’ultima occhiata alla pista e mi alzai dal divano. Afferrai la bionda per la vita e la aiutai ad alzarsi a sua volta. Sembrò compiaciuta e mi circondò il collo con le braccia, avvicinando il volto al mio. Aveva un buon profumo e anche due occhi da gatta.

    «Vuoi fare due salti in pista prima di farli tra le lenzuola?». Ok, non era una delle mie battute migliori, ma non avevo bisogno di far colpo su di lei. Mi guardava come ipnotizzata e sembrava implorarmi di portarla a letto. L’avrei accontentata presto, senza ombra di dubbio. Sentii le sue amiche ridacchiare ed ebbi la conferma che mi stavo comportando nel modo giusto.

    La musica assordante cessò e finalmente attaccò una più orecchiabile. Sentii il corpo tonico della bionda avvinghiarsi ancora di più al mio e mi lasciai trasportare dalle note. Solitamente non amavo ballare ma finalmente l’alcol stava facendo il suo effetto e il mio corpo si stava rilassando. Durante la settimana avevo accumulato parecchi dolori muscolari. Si avvicinava un incontro e, come sempre in quei casi, l’allenamento era duro e lungo il doppio. Quasi ogni giorno, ormai, tornavo a casa ammaccato, ma allo stesso tempo più forte interiormente. Quella sera perciò avevo bisogno di assoluto riposo e di una pausa mentale che mi rigenerasse. Non volevo tornare in quella casa vuota, preferivo un corpo caldo con cui condividere qualcosa e qualche ora dopo avrei trovato una scusa, a sbornia ed eccitazione passate. Andava sempre a finire così, lo sapevo, ma mi stava bene. Le ragazze protestavano sempre un po’, poi accettavano la scusa del ti richiamerò, anche se era ovvio che non l’avrei fatto. Non lo facevo mai.

    Appoggiai il mento sulla testa bionda e socchiusi gli occhi, annusando quel profumo di shampoo sconosciuto, cercando di prendere confidenza con quel nuovo odore che mi avrebbe fatto compagnia per un po’, e muovendomi fra la folla accaldata e chiassosa, immaginando vagamente quel che sarebbe successo di lì a poco fra noi. Qual era il suo nome? Cercai di ricordarlo… Cristina? Cristiana? Non era importante.

    Un movimento improvviso nella sala attirò la mia attenzione. Fu strano, data la folla presente in quel momento. Fu solo un attimo, ma la vidi. C’era Lisa in fondo alla sala, si dirigeva sola verso il bancone del bar. Aggrottai la fronte. Che diamine ci faceva lì, tutta in tiro, la sorella di Andrea? Non erano affari miei. Distolsi lo sguardo e cercai di rivolgerlo altrove, ma una strana sensazione s’impossessò di me e tornai a cercarla con gli occhi. Sperai di averla immaginata ma lei era ancora lì, che cercava di farsi spazio fra la gente sudata e alticcia. Cazzo, non potevo fingere di non averla vista, Andrea avrebbe spaccato in due il mio prezioso culo se solo avesse saputo. Maledetto fortunato, lui da qualche parte a godersela e io a dover fare da balia alla sua sorellina.

    «Vuoi qualcosa da bere?», chiesi di getto alla mia accompagnatrice. Gli occhi da gatta mi osservarono dal basso, stupiti, poi fortunatamente annuì. «Benissimo. Torno subito». La mollai in mezzo alla pista e raggiunsi il bancone del bar in poche falcate. Lisa mi dava le spalle, ma mi bastò udire il suo: «Dammi la cosa più forte che hai», rivolto al barista, per capire che avevo fatto benissimo a non ignorarla. Tanti cari saluti alla bionda super sexy e disponibile a tutto che mi attendeva con ansia. Accidenti a Lisa! Quando la vidi chinarsi sul bicchierino, riuscii a muovermi velocemente e batterla sul tempo. La sentii borbottare e sorrisi tra me.

    Oh sì, non l’avrebbe passata liscia.

    Capitolo 3

    LISA

    Claudio non era come mi aspettavo, era molto peggio. Qualche volta mi chiedevo seriamente dove diavolo li andasse a beccare, Alice, tipi del genere, e nella mia mente immaginavo mille modi per ucciderla il più lentamente possibile, soprattutto mentre Claudio mi raccontava della sua incredibile passione per i motori.

    Dio, vieni a prendermi, ora! Ero stufa marcia di ascoltarlo. Eravamo in un disco-pub e Alice era andata a ballare con Samuel; dal suo sorriso s’intuiva che si divertiva, eccome. Almeno lei.

    «Scusami, vado a prendere da bere», gli dissi sbuffando. Come diavolo faceva a non accorgersi di essere una noia mortale? Lo piantai in asso e a fatica mi avvicinai al bancone del bar: un’oasi in mezzo al deserto.

    «Dammi la cosa più forte che hai», ordinai disperata al barista. L’uomo mi passò un bicchierino in vetro con un liquido ambrato. Lo guardai speranzosa ma non feci in tempo a portarmelo alle labbra che qualcuno me lo rubò da sotto il naso. «Ma che diavolo…».

    «Una persona astemia non beve certe cose». Dante mi guardò dall’alto e si scolò in un solo sorso il liquido sotto i miei occhi stupiti.

    «Ehi! Quello era mio!». Cercai di riprendermi il bicchiere, ma a Dante bastò alzare di poco il braccio perché fosse fuori dalla mia portata. Quando si dice non essere all’altezza…

    «Sei messa così male?», mi chiese, deridendomi. Sul volto il solito sorriso sghembo e un po’ strafottente.

    «Cavolo, sì. Sono in compagnia di uno che non ha fatto altro che parlarmi di motori per tutta la sera, neanche fossero figli. Voglio suicidarmi e tu me l’hai impedito».

    «Non essere sciocca, Coniglietta, non si muore per un po’ di scotch». Mi scrutò. «Effettivamente tu forse sì».

    «Smettila di infierire. E piantala di chiamarmi in quel modo!».

    Dante scrutò il locale, come se non mi avesse sentito. «Dov’è il tuo cavaliere?»

    «È quello vestito di bianco e nero, alto e biondo». Indicai il punto della sala in cui Claudio mi aspettava, poi guardai Dante a mia volta. «Certo, non alto come te».

    Dante rise lanciando un’occhiata in direzione di Claudio. «Hai davvero buon gusto in fatto di uomini, Coniglietta». Il tono era canzonatorio. Pagò il mio, anzi il suo, drink, e mi prese per un braccio. «Andiamo, ti riaccompagno a casa».

    «Cosa? Perché?»

    «Perché sei annoiata, è evidente, e rischi di ubriacarti per noia. Tuo fratello non me lo perdonerebbe

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