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Alzati fanciulla
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E-book373 pagine5 ore

Alzati fanciulla

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Info su questo ebook

“Talità Kum, Alzati fanciulla”, versetto evangelico che si riferisce a uno dei miracoli di Gesù (non la famosa resurrezione di Lazzaro, ma un analogo episodio, senz’altro meno noto, che vide protagonista una ragazza) è il leitmotiv che percorre l’intera raccolta. I nove racconti hanno infatti per protagoniste donne dimenticate, cresciute con il peso dell’inadeguatezza: non sono mai abbastanza belle, abbastanza intelligenti o ricche. Fin da giovani sembrano dover elemosinare quell’affetto che ad altri è elargito con naturalezza, con generosità e finiscono quasi sempre con il ripetere, come in una maledizione dal sapore antico, gli errori delle madri. Sono donne a volte strappate dalla loro terra d’origine, quel Veneto che riemerge dalla memoria come una terra d’altri tempi, popolata di gente volenterosa e solidale; con grande lucidità, attraverso il ritratto di personaggi vividi e struggenti, l’autrice fotografa il passaggio da una società prettamente contadina ad una a vocazione imprenditoriale, che sembra perdere la sua innocenza man mano che acquista potere: i soldi, i “schei”, soli sembrano valere le fatiche del vivere. C’è chi, inevitabilmente, rimane schiacciato da questa logica; altri, come le eroine che popolano questi racconti, riescono a riscattarsi da un destino che pare segnato, a superare la propria fragilità, dettata il più delle volte dal senso di colpa, e, finalmente, a rialzarsi.

Daniela Pavan Verago nata a San Donà di Piave e cresciuta tra Veneto e Piemonte, ha scritto racconti e romanzi, in parte inediti. Alzati Fanciulla - Talità Kum è la sua prima opera edita. Della stessa casa editrice è stato pubblicato il romanzo Io sono del mio amore e il mio amore è mio.
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2015
ISBN9788891172068
Alzati fanciulla

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    Anteprima del libro

    Alzati fanciulla - Daniela Pavan Verago

    38)

    TALITÀ KUM

    CAPITOLO I

    Aveva solo quindici anni, tante lentiggini, un corpo molto magro e dei meravigliosi capelli rossi, che lei odiava nel profondo dell’animo.

    Li teneva lunghi perché sua madre diceva sempre che erano l’unica cosa bella che le aveva dato, però erano crespi e, con un minimo di umidità, si trasformavano in chioma leonina.

    Così, per non sembrare una pazza, era costretta tenerli sempre raccolti sulla nuca, ma quella pettinatura la invecchiava. I suoi occhi non erano né verdi né azzurri, come lei li avrebbe voluti, bensì grigi e sempre tristi.

    Si chiamava Caterina.

    Sua sorella aveva cinque anni più di lei, si chiamava Federica, detta Chicca, era bella, allegra e aveva sempre tanta gente intorno a sé.

    Caterina, forse per l’età, la grande timidezza o quei capelli rossi, si era sempre sentita un brutto anatroccolo paragonata alla sorella.

    Quell’estate cominciò a pensare d’aver sbagliato nello scegliere di trascorrere le vacanze estive insieme a lei. Più che scelta fu un obbligo imposto dalla madre.

    Sulla spiaggia non erano mai tranquille c’era un continuo viavai di gente che le disturbava, o meglio che disturbava Caterina, Federica sembrava farlo apposta a fare la scema per attirare l’attenzione dei ragazzi.

    Caterina aveva avuto una materia da riparare a settembre e continuava a portarsi i libri in spiaggia, nella speranza di poter studiare. Nonostante l’affluire delle persone ci riusciva, perché nessuno la disturbava. Sua sorella non aveva mai voluto studiare, diceva che era una perdita di tempo ed era riuscita a fatica ad ottenere il diploma di scuola media inferiore. L’impiego che aveva allora, di cui andava fiera, era operaia in una fabbrica di occhiali.

    Tra sorelle andavano d’accordo e a modo loro, si volevano bene, ma in famiglia c’era sempre tempesta, perché Federica e la madre avevano caratteri molto simili e incompatibili tra loro. Sembravano odiarsi.

    Caterina aveva imparato a non intromettersi, non sapeva mai a chi dare ragione, i motivi dei contrasti erano sempre molto banali, così stava zitta; da piccola piangeva, ora guardava la madre e la sorella agitarsi e imprecare e le lacrime e le parole sembravano non essere mai esistite.

    Quando litigavano il padre usciva e andava al bar e Caterina si chiudeva in camera sua a studiare. Dopo una sequenza infinita di grida, strilli e parolacce ogni litigio finiva con la solita frase della madre:

    «Bell’esempio che dai a Caterina!».

    Caterina non voleva diventare come sua sorella; avrebbe voluto solo essere bella come lei, muoversi come lei, dire le battute spiritose senza arrossire, come lei.

    Quell’estate la decisione d’andare al mare fu presa da Federica, e Caterina le venne proposta come compagna dalla madre, la quale sperava di controllare a distanza la figlia maggiore attraverso gli occhi di quella minore. Ma in quell’agosto afoso, la piccola Caterina si scordò di avere occhi, orecchie ed era risucchiata dall’incredibile smania di vivere della sorella. Lei restava in disparte. Si sentiva un peso morto. Non faceva altro che studiare, leggere, guardare la televisione e mangiare gelati. Vedeva però, in ogni ragazzo biondo, il suo Diego. Era suo coetaneo e stavano insieme da più di un mese. Si erano già baciati tante volte. Diego era andato in Corsica, con i suoi genitori.

    Chissà cosa sarebbe accaduto tra loro al ritorno dalle vacanze, forse l’amore... a quindici anni lei non pensava ancora all’amore fisico, viveva in un mondo tutto suo, semplice, pulito, ancora troppo infantile. Certo la gioia di stare insieme era il suo pensiero dominante, Caterina diventava bellissima quando era con lui. Non aveva parlato a nessuno di Diego, nemmeno a sua sorella.

    Era triste ma stava bene, quasi protetta dalla sua tristezza. Federica però si stufò di vederla sempre così disperata e annoiata e una sera la convinse a uscire con lei. La truccò, l’aiutò a raccogliere i capelli, ma il risultato non fu dei migliori. Chiese al ragazzo di turno, Sergio, se aveva un amico per sua sorella. Uscirono insieme e, dopo essere andati a ballare, si recarono tutti e quattro sulla spiaggia. Caterina non voleva rovinare la serata alla sorella, ma il tizio con il quale doveva restare non le piaceva. Oltretutto le sembrava ubriaco. Tentò in vari modi di dirlo a Federica durante il tragitto in macchina dalla discoteca alla spiaggia, ma lei non capì o non aveva voglia di capire. Arrivati sulla spiaggia, sua sorella sparì insieme al ragazzo e Caterina si sentì perduta. Il ragazzo che le avevano presentato aveva dieci anni in più di lei, si chiamava Roberto e era riuscita a capire chiaramente che era ubriaco fradicio. Non sapevano di che cosa parlare ma lui non voleva parlare, la stava stringendo e toccando dappertutto. C’era la luna, l’aria era tiepida, la sabbia calda sotto i piedi nudi, se solo Caterina l’avesse desiderato un po’, se non avesse lasciato spazio solo al suo Diego nella mente, se solo avesse avuto il tempo di sapere chi era quello scatenato che le stava di fronte e la stringeva, la insultava, la baciava dappertutto, forse non sarebbe mancato nulla per una prima volta.

    Roberto era solo e ubriaco su quella spiaggia, pensava alle sue voglie e alla sfortuna che aveva avuto quella sera nel doversi accontentare di una ragazzina stupida, che non ci stava, e anche un po’ bruttina. Lei, con la scusa di una passeggiata, iniziò a camminare e poi a correre, non sapeva dove andare, dove rifugiarsi. Era in una zona della spiaggia che non aveva mai visto e completamente deserta. Chiamò sua sorella, prima piano, per non disturbarla, cercandola tra i cespugli e le dune, poi sempre più forte, gridando e piangendo. Lui prima la seguì, avrebbe potuto raggiungerla se avesse voluto, ma si fermò, aspettò che si stancasse, che crollasse, come il cacciatore fa con la sua preda.

    Caterina si stancò, trovò un ramo o un sasso e cadde. Cercò di nascondersi dietro una barca, ma uscì allo scoperto sulla riva del mare, egli la vide e la raggiunse. L’afferrò e non volle fissarla in volto, prese con violenza il suo giovane corpo così magro, ancora di bambina.

    Tutto avvenne senza un grido, un lamento, un’emozione, in silenzio. Caterina forse svenne, in quel momento, dimenticò parole, lacrime e ogni sentimento, paralizzata dalla paura e da quel forte dolore.

    Dopo Roberto l’allontanò, come un oggetto ormai inutile e lei si alzò. Le gambe le tremavano, come tutto il corpo, si scrollò la sabbia dalla gonna, ma lo sporco rimase.

    Si sciolse i capelli e iniziò a camminare, non sapeva più dov’era e stava camminando in direzione opposta a quella della macchina. Roberto la chiamò per un po’, poi la lasciò perdere. Si girò e tornò alla macchina, imprecando e chiedendosi a alta voce, perché Sergio quella sera gli aveva rifilato quella cretina e vergine, per giunta. Caterina entrò in acqua, non sapeva nuotare, prima nel bagnasciuga, poi cercò di fare qualche passo con l’acqua alle ginocchia, poi oltre. Voleva lavarsi, togliere le macchie di sangue o forse solo morire. Rispetto all’umiliazione, alla violenza, la bestialità che aveva appena subito, cosa poteva essere poi morire?

    Camminò per un po’ con l’acqua che le arrivava alla gola.

    Non pensò più a nulla, la sua mente voleva solo dimenticare.

    Uscì dall’acqua e si buttò sulla sabbia in cerca di calore.

    Tremava dal freddo e le venne da vomitare. Si ricordò il suo nome, si ricordò di Diego, di sua sorella e anche di tornare, in qualche modo, all’albergo.

    Erano le cinque del mattino quando le due sorelle si ritrovarono nella loro stanza. Federica l’aggredì chiedendole dove erano andati a cacciarsi lei e Roberto, era in pensiero e lei e Sergio erano stati dalla polizia. Caterina non disse nulla, la lasciò parlare e andò in bagno. Si spogliò. Si stava preparando un bagno caldo, quando Federica la prese per un braccio e le chiese, a bassa voce, cosa fosse successo.

    Caterina la guardò con lo sguardo che ebbe in quell’attimo soltanto, in quella notte per tutta la sua vita, e bastò. Il nome di sua sorella, gridato e implorato, tutte le sue parole di supplica e di pietà, persino i ricordi di quando erano bambine, erano rimasti là, come sospesi, condannati a ripetersi all’infinito in quell’aria tiepida, in quella spiaggia, in quella notte d’agosto.

    CAPITOLO II

    Rimanevano ancora tre giorni di vacanza e Caterina li passò chiusa nella stanza d’albergo. Federica continuò a uscire, vedere gente, scherzare, come se nulla fosse accaduto.

    A suo modo di vedere nulla di spaventoso era accaduto alla sorella:

    «Ti sei tolta il pensiero della verginità» disse «tanto prima o poi doveva accadere».

    Caterina non la stava più ad ascoltare. Aveva capito che con lei non aveva più nulla da dire, da condividere, era sola.

    Leggeva e studiava per l’esame che avrebbe dovuto sostenere a settembre ma senza convinzione, senza impegno.

    La violenza subita, su quella spiaggia, era stata devastante ma le aveva fatto aprire gli occhi su tante altre ingiustizie che da anni subiva senza quasi accorgersene: le liti in famiglia, la scarsa stima che avevano di lei i genitori, l’assoluta mancanza d’amore e di rispetto, che dimostrò sua sorella nei suoi confronti. Se solo l’avesse amata un po’ l’avrebbe consigliata d’andare a denunciare Roberto per violenza a una minorenne. Invece sua sorella pensava che tutto sommato, le fosse piaciuto e infine si fosse tolta il peso d’una verginità da proteggere, a tutti i costi, come aveva loro insegnato la madre.

    Federica non si ricordava nemmeno come era stata la sua prima volta.

    Non si parlarono più, per il resto delle vacanze.

    Caterina rispondeva solo con monosillabi o scuotendo la testa alle domande che le venivano poste.

    Stava ad ascoltare, in silenzio, tutte le sue avventure: era uscita con Sergio, poi con Nicolò e infine le disse persino d’aver rivisto Roberto e che la mandava a salutare.

    Era troppo!

    Ci fu un attimo in cui sentì d’odiare talmente la sorella da riuscire a picchiarla, forse di più, ucciderla.

    Fu un momento, solo un momento, una sensazione sconvolgente, mai percepita prima, che la spaventò.

    Non provò alcun rimorso, o senso di colpa, per ciò che aveva pensato. Sarebbe stato più giusto se lei avesse pensato ad uccidere Roberto e non la sorella.

    Federica era stupida, molto superficiale e, nonostante fosse la più grande, non pensava mai a quello che faceva, né a ciò che diceva, forse non aveva neppure dei pensieri in quella stupida testa, ma era sua sorella.

    Caterina era molto più saggia e previdente di lei ma troppo paziente e remissiva, tanto che sia la sorella che la madre ne approfittavano; di sicuro era lei stessa a non avere stima di sé, a sottovalutarsi, si sentiva brutta, maldestra, incapace di fare qualsiasi cosa. In casa, per esempio, non la lasciavano fare che i lavori più umili e faticosi, oppure la invitavano a andare nella sua stanza a studiare. Federica invece sapeva cucinare, specialmente i dolci, sapeva cucire a macchina, si confezionava degli abiti bellissimi, tagliando la stoffa su dei cartamodelli che trovava in un giornale, cuciva gonne, camicette, abiti e persino un cappotto.

    Litigavano sempre ma la madre era Federica che voleva attorno, era a lei che chiedeva consigli, solo da lei si faceva mettere i bigodini in testa per la piega. Nel tempo libero non le faceva fare mai i lavori di casa, doveva farli Caterina: lavare i piatti, riordinare la loro stanza, pulire i vetri, stirare le camicie, tutte cose detestabili.

    Quando finalmente, finiti i lavori, si chiudeva in camera sua a studiare, era felice di stare da sola, lontana da quelle due donne che non erano più madre e sorella ma due perfette estranee.

    Se non avesse avuto la scuola forse sarebbe scappata di casa.

    Neanche la scuola le aveva dato soddisfazione, l’avevano rimandata a settembre in Francese.

    Frequentava la prima classe di ragioneria all’istituto tecnico Michele Buniva di Pinerolo. Abitava a Cumiana, che dista circa sedici chilometri da Pinerolo. Viaggiava in autobus insieme a Canale Marilena e Camusso Laura, due sue coetanee, con le quali aveva trascorso tre anni di scuola media scambiando sì e no una ventina di parole.

    Canale e Camusso erano molto amiche tra di loro e non parlavano volentieri con altre persone; entrambe abitavano ai Canali Bassi, una frazione di Cumiana un po’ isolata, tra le colline. Caterina era talmente abituata a chiamarle per cognome che di una si era scordata il nome. Erano in classe con lei a ragioneria, sedevano vicine e non passavano mai un compito né suggerivano alle interrogazioni.

    Caterina era sempre sola, anche in autobus, e fingeva di leggere; la chiamavano el pes, il pesce, perché non parlava mai.

    Di ritorno dalle vacanze la madre sembrò felice di rivederle e, dopo gli scontati baci e abbracci, restò a chiacchierare con Federica e chiese a Caterina d’andare a prendere del pane per la cena. Non aveva voglia neppure di muoversi dalla poltrona, ma non disse nulla, prese i soldi dal tavolo, s’avviò verso l’uscita e chiuse la porta dietro gli schiamazzi e le frasi d’affetto di sua sorella. Federica raccontava per tutte e due, si era inventata dei luoghi che non avevano mai visto e azioni che non avevano mai fatto, come visitare un museo, o andare a messa la domenica.

    Mentre era per strada Caterina pensò che quelle due stessero parlando anche della sua brutta esperienza.

    Fece un respiro di sollievo e si convinse che non era possibile, perché avrebbe anche dovuto spiegare dov’era lei, sorella maggiore, e cosa stesse facendo mentre un ubriaco violentava sua sorella di quindici anni. A ventuno anni doveva sentirla un po’ di responsabilità per la ragazzina che le era stata affidata. Non avrebbe avuto il coraggio di cacciarsi in un guaio simile.

    Era ormai il tramonto e tornando a casa Caterina si sentì felice di rivedere quel cielo, le colline, le nuvole, gli alberi. Amava Cumiana e erano, ormai, nove anni che abitava lì.

    Non ricordava nessun altro paese.

    Era quello il suo angolo di mondo dove avrebbe voluto restare e morire. I suoi genitori, invece, sognavano solo di tornare in Veneto a S. Dona di Piave, paese d’origine di tutta la famiglia. Per lei tornare in Veneto era come progettare di partire per l’America. Suo padre, nonostante lavorasse in fabbrica, non era ancora riuscito a imparare né il piemontese né a perfezionare il suo italiano, parlava solo veneto e tutti si dovettero adattare a capirlo, dal momento che era il dialetto del caporeparto.

    Per strada incontrò Piera, una sua coetanea vicina di casa, e si fermarono a parlare delle vacanze appena trascorse.

    Arrivata a casa con il pane, Chicca e la madre stavano già preparando il tavolo. Di lì a poco sarebbe arrivato suo padre dal lavoro.

    Le chiesero perché ci avesse impiegato tanto a scendere in paese, ma lei non rispose. Non si era resa conto ma, tra una chiacchierata con Piera, un’altra con il panettiere, fermarsi a guardare il panorama e mangiare pane, era passata più di un’ora. In dieci minuti s’andava e si tornava da casa sua al centro del paese.

    Non aveva voglia di spiegare loro che era rimasta a guardare il tramonto, disse solo che c’era tanta gente in panificio.

    Si accorse subito che la madre era cambiata, quasi più brusca nei suoi confronti, e che la guardava in modo strano, forse perché lei era abbronzata e un po’ bella, con i capelli che le stavano lisci, oppure perché aveva voglia di rivederla, le era mancata.

    La madre le chiese se aveva studiato e era preparata per l’esame di francese, si affrettò a rassicurarla ed a minimizzare l’importanza di quella prova, l’avrebbe superata a occhi chiusi, come diceva suo padre.

    Di fatto era lui quello che aveva più fiducia nella sua figlia minore. Quando era piccola le diceva sempre di ricordarsi che stava portando un grande nome, quello della nonna, sua madre, e quello di una illustre zarina La grande Caterina.

    Poi rideva, la prendeva in braccio e l’alzava, in alto, in alto, e la faceva girare e gridava: «Anche tu diventerai una grande Caterina... non è vero? Promettimelo». Lei rideva e rispondeva subito:

    «Sì papà, te lo prometto, diventerò una grande Caterina».

    La madre non c’era mai quando ciò accadeva, non aveva alcun ricordo né della madre né della sorella, né giochi insieme, né liti, era tutto svanito, perché di certo ci doveva essere stato un ricordo, un pensiero, un episodio che le univa, ma perché fosse svanito proprio non sapeva. Col tempo si era imposta di cancellare le cose tristi, di crearsi una corazza, per non soffrire più.

    Arrivò il padre dal lavoro e si misero a cena; egli era sempre stato di poche parole, e anche in quell’occasione fece solo poche domande alle figlie.

    Da quando c’erano stati dei gravi incidenti sul lavoro e proprio al suo reparto, era diventato ancora più triste e chiuso in sé stesso. L’ultimo dramma aveva coinvolto un ragazzo di diciott’anni, Antonio Silanus. Appena arrivato dalla Sardegna, dove faceva il pastore, fu messo subito a una delle presse più pericolose. Pagò molto cara la sua inesperienza, lasciò tre dita della sua mano destra sotto quel meccanismo infernale.

    Caterina guardava suo padre e, dopo soli quindici giorni, quasi non lo riconosceva, gli sembrò molto invecchiato.

    Si assomigliavano moltissimo, anche fisicamente, avevano tutti e due i capelli rossi e, prima di loro, nonna Caterina. Avevano molti interessi in comune, amavano la natura, facevano lunghe passeggiate insieme, tra i boschi di Cumiana, amavano gli animali e sognavano entrambi di poter avere un cane. Era un uomo buono, come buona era sua figlia, contrariamente a quanto si dice di chi possiede i capelli rossi.

    Cenarono quasi in silenzio, e poi Chicca e il padre si spostarono in salotto, a guardare la televisione.

    Caterina e la madre sparecchiarono il tavolo e la piccola lavò i piatti. Sempre così, per lei tutto era dovuto non si era mai seduta a guardare la televisione, lasciando la mamma da sola a sparecchiare e riordinare.

    Si sentiva in dovere d’aiutare la madre.

    Quella sera, per la prima volta si rese conto che era lei che non si voleva bene, non si dava mai un po’ di pace, una tregua. Era stanca del viaggio, era andata lo stesso a prendere il pane, perché doveva lavare i piatti e non sedersi di là a parlare con il padre o guardare la televisione?

    Perché non contava niente in famiglia, quasi non la vedevano. Purtroppo lei non lavorava e non guadagnava, studiava e era solo un peso. I genitori volevano più bene alla figlia maggiore perché portava a casa dei soldi, era in grado di mantenersi, almeno questo era ciò che pensava Caterina. Doveva trovarsi un lavoro anche lei, bastava far andare male l’esame di francese e farsi bocciare.

    La madre si era sempre opposta alla sua idea di continuare gli studi; accettò a malincuore l’iscrizione a ragioneria purché non si facesse mai bocciare, se ciò avveniva l’aspettava solo un duro lavoro. Fu suo padre a aiutarla nella battaglia per lo studio. Di nascosto e con un sorriso le ricordò che poteva fare solo quello per aiutarla diventare La grande Caterina. Non voleva certo farsi bocciare, ma si era convinta che andando a lavorare avrebbe avuto la stima e l’affetto della famiglia.

    Aveva finito di lavare i piatti e stava asciugando le posate quando la madre le si avvicinò.

    Erano sole in cucina. Per un attimo sperò la volesse coccolare o chiedere, come faceva spesso, di dirle tutte le sciocchezze che aveva fatto la sorella al mare.

    Caterina non parlava mai, non faceva la spia, anzi prendeva sempre le parti di Federica e consigliava la madre di fare altrettanto.

    Ma quella sera il mondo doveva ulteriormente cambiare per lei perché la madre le si avvicinò con circospezione, guardandosi alle spalle, dopo di che lasciò partire con una frase tutto il suo veleno:

    «Sgualdrina! Cos’hai fatto sulla spiaggia, con quel ragazzo che aveva quasi il doppio dei tuoi anni?».

    Quella parola, sgualdrina, la immobilizzò più di cento braccia... Fu come se una colata di cemento, piano piano, la stesse ricoprendo, impedendole di respirare. Non riuscì neppure a parlare e ciò fu il male peggiore, perché la madre credette d’aver detto la cosa giusta e d’essersi tolta i residui dubbi che aveva sulla innocenza della figlia.

    «Sei tale e quale a tua sorella, e io che credevo tu fossi diversa, più buona, più coscienziosa».

    «Mamma ti sbagli» riuscì finalmente a dire «non è andata così. Quel ragazzo mi ha violentata, mi ha presa con la forza, contro la mia volontà. Ho tentato di scappare, ma non sapevo dove andare. C’era tanto buio, mamma. Io chiamai Federica ma lei era sparita».

    «Federica ha detto il contrario e che lei e Sergio hanno passato tutta la sera a cercarti. E poi non è questo il punto. Non dovevi andare sulla spiaggia con gli amici di tua sorella. Ti credevo diversa...».

    «Ma allora perché non mi hai lasciato restare a casa, io non volevo andare al mare con Federica, perché mi hai obbligata ad andarci?».

    «Tutte storie, ecco come siete fatte voi figlie! Prima volete una cosa, poi non la volete più, ed è colpa dei genitori. Sei stupida e capricciosa. Non sai neppure tu cosa vuoi, anzi cosa sei».

    Era vero, Caterina, dopo quel dialogo, non sapeva più neanche chi era e vide la madre sotto una luce diversa. Fu come se la vedesse per la prima volta. Nella notte in cui fu violentata vide per la prima volta un uomo, poi nella sua camera d’albergo vide per la prima volta sua sorella, ed ora vedeva sua madre come non l’avrebbe mai voluta vedere.

    Le sembrò un fantasma, una figura irreale che non era più legata in alcun modo a lei.

    Caterina pensava che se mai sua madre fosse venuta a conoscenza del suo dramma orribile, le avrebbe chiesto scusa, per averla buttata così presto fuori di casa, per non averla protetta, per non essere stata lì a dirle che il mondo non era così brutto come le appariva in quel momento, che sono esperienze tremende che comunque fanno parte della vita, che gli uomini non sono tutti come quel Roberto, che la vita non era solo il buio di quella notte. Sia dalla madre che dalla sorella aveva avuto conferma che era tutto cambiato, che alla gente non importava nulla di lei e forse anche Diego le avrebbe detto che era colpa sua se era stata violentata: non doveva andare su quella spiaggia a fare la sgualdrina.

    Finì di lavare i piatti e, quando sua sorella venne in cucina a bere del latte, non le disse nulla.

    Pensò per un attimo a suo padre, lo rivide così com’era, lo amava tanto ma era troppo tardi per parlare con lui. Non parlavano mai di cose serie, loro due, era ciecamente convinto che la sua piccola riuscisse in qualcosa di buono nella vita. Perché deluderlo?

    CAPITOLO III

    Dopo qualche giorno, dal suo arrivo dalle vacanze, Caterina sostenne l’esame scritto di francese e rivide Diego. Davanti a lui il suo cuore sembrò impazzire, un tremendo rossore salì alle guance e le mani iniziarono a sudare.

    Odiava le mani sudate più ancora del suo accendersi, come una lampadina. Una mano calda e asciutta le dava una sensazione di sicurezza, di tranquillità, che lei non aveva. Il rossore poi passava, ma le mani continuavano a sudare.

    Che orrore!

    Non c’era proprio nulla in lei da apprezzare: non il viso, sul quale erano da poco comparsi alcuni brufoli, non le mani, perennemente ruvide e già da vecchia, non i capelli, sempre più crespi ed arruffati: ma cosa ci trovava in lei Diego?

    Lui era bellissimo: biondo, occhi azzurri, un bel corpo, alto, magro, sorriso dolcissimo, voce molto bassa e sensuale e le mani sempre calde e asciutte.

    Era sicuro di sé, sicuro di piacere. Aveva parecchie amiche che gli correvano dietro, ma lui cercava Caterina; le altre erano più belle, più chiacchierone, più simpatiche ma lui vedeva solo Caterina e arrossiva insieme a lei, qualche volta, quando s’incontravano di sorpresa.

    Si fermarono a chiacchierare e, per Caterina, scomparvero tutti i rumori circostanti, sentiva solo la sua calda voce, già di uomo maturo, vedeva solo le sue labbra. Diego, certo, avrebbe capito il suo dramma, a lui avrebbe potuto confidare tutta la sua tristezza, il suo dolore. Preferì non rischiare. Non sarebbe sopravvissuta a un’altra delusione.

    Decise di non dire mai più nulla di ciò che aveva subito né a Diego, né a suo padre o a nessun altro.

    Parlarono del tempo, delle vacanze e dell’esame che lei aveva appena sostenuto, non gli disse però che quest’ultimo era andato male di proposito e che avrebbe volontariamente sballato pure l’orale, così da essere bocciata.

    Lasciava la scuola perché voleva andare a lavorare, guadagnare, portare a casa tanti soldi, solo così avrebbe fatto ricredere la madre sul suo conto. Con i soldi diventava importante come Federica, con il tempo avrebbe anche imparato a mettere i bigodini e a cucire dei vestiti, come faceva sua sorella.

    Avrebbe deluso suo padre ma forse i soldi avrebbero fatto cambiare idea pure a lui.

    A Diego avrebbe pensato in seguito a dire la verità, egli dava per scontato il buon esito di quella sua prova.

    Si salutarono a malincuore e Caterina cercò d’evitare di dargli la mano sudata buttandosi tra le sue braccia: fu piacevolmente sorpreso di quello slancio e la tenne stretta a sé, la baciò tra i capelli e sulla fronte, poi si lasciarono. Tornata a casa pianse a lungo, chiusa nella sua stanza. Lei sapeva che si stava rovinando la vita, ma non riusciva più a fermarsi, a riflettere, accettava ciò che le stava accadendo come un destino ormai inevitabile.

    Si sentì sola nel dover prendere una decisione tanto grave ma non c’era proprio nessuno con cui parlare, sua sorella le avrebbe detto che stava facendo la cosa più giusta e che già aveva in mente un lavoro fatto per lei. Sua madre, dopo aver fatto un sospiro di sollievo, avrebbe detto: «Finalmente!».

    Al padre non voleva pensare.

    Non amava alcun lavoro, in particolare, non sapeva fare nulla. Il sogno della sua vita era di diventare scrittrice.

    Voleva laurearsi in Lettere, oppure fare una scuola di giornalismo o altre stupidaggini del genere. Avrebbe dovuto leggere molto, possedere molti libri, ma in casa sua nessuno amava i libri, e con lo stipendio di un operaio non c’era denaro da sprecare in libri.

    Le tornò in mente il primo libro che vide, a cinque anni: era l’Iliade, un libro enorme, pesante, rilegato in oro e rosso corallo che nonno Giovanni aveva avuto in dono da zia Santina, rimasta zitella, che andò a vivere in Brasile.

    Zia Santina regalò quel libro a nonno Giovanni poco prima di partire per il Sud America, dicendogli che era un libro speciale, che portava la conoscenza e lo pregò di farlo leggere anche alle persone a lui care. Caterina era la sua nipote preferita e l’amava tanto. Un librone spesso, molto grande, l’Iliade di nonno Giovanni aveva delle bellissime illustrazioni, ne ricordava una con due serpenti enormi che uscivano dal mare e guardavano, con ferocia, le persone piccole, piccole, sulla spiaggia.

    Nonno Giovanni, anziché le solite storie, le raccontava le gesta degli eroi: Achille, Ettore, Ulisse, Aiace, Patroclo.

    Egli aveva solo quel libro e pochi altri, non aveva fatto che le scuole elementari ma dell’Iliade sapeva tutto, persino dei bellissimi brani a memoria che Caterina non si stancava mai di ascoltare; quando, da piccina, ancora abitava a S. Donà di Piave, in Veneto, erano inseparabili. Fu proprio quel suo carissimo nonno, che faceva il contadino e che aveva il viso bruciato dal sole, a consigliarle il mestiere di scrivere, l’unico modo, secondo lui, per non farsi dimenticare, continuare a vivere.

    Quando Caterina, con la famiglia, dovette emigrare in Piemonte soffrì molto per la lontananza del nonno, ed egli dopo solo un mese da quel distacco morì.

    Dissero che fu una complicazione polmonare a stroncarlo ma, chi lo conosceva bene, sapeva che non voleva più vivere, senza quella sua dolce nipotina, che voleva solo stargli sempre vicino e ascoltare le sue storie.

    La realtà l’aveva vista ed era tremenda. Un uomo l’aveva violentata e nessuno ci aveva trovato nulla da ridire, né sua madre, né sua sorella.

    La sua vita non valeva più niente.

    Quando si seppero i risultati dell’esame nessuno volle crederci. Persino la madre e la sorella sembrarono dispiaciute ma più di tutti suo padre che le disse, con un filo di voce: «Caterina cos’hai fatto? Perché?».

    Lei subito non rispose, ma cominciò a

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