Sinfonia del terrore
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Info su questo ebook
realtà e incubo, nella leggendaria, bizzarra e antica Boemia. Un caso limite, un salto in oscuri stati di coscienza. Al di là della normalità, fuori dalle consuetudini si trovano esperienze oscure, magiche, spiritiche e occulte, che sfuggono ai nostri ristretti modelli di pensiero e provocano stupore e paura.
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Anteprima del libro
Sinfonia del terrore - Frank Graegorius
Indice
Sinfonia del terrore
F RANK G RAEGORIUS
S INFONIA DEL TERRORE
Copyright
© copyright 2005
by Greco&Greco editori
Via Verona, 10 - 20135 - Milano
www.grecoegrecoeditori.it
ISBN 88-7980-393-X
copertina di Milena Maganzini
Titolo
Frank Graegorius
Sinfonia del terrore
A cura di
Sergio Bissoli
I PERSONAGGI
Jan Hodza
giovane procuratore legale
Simeon Goldstein
mercante sospetto d’eresia
Milan Tocka
faceto contrabbandiere
Masha Goldstein
una soave fanciulla nei guai
Hans Janozs
bottaio pletorico
Kadrina
La Regina degli Zigani
Lelia
la zigana ammaliatrice
Hrska
l’oste del Gotto d’oro
Dmitri
il giovane affatturato
Il golem
realtà o incubo?
Le tenebrose ore della notte! La prima è dei crapuloni, la seconda degli avari, la terza degli ipocriti, la quarta dei fraudolenti, la quinta dei lussuriosi, la sesta dei ricattatori.
Poi la pendola batte la mezzanotte della paura...
Il primo rintocco sorprende i rapaci; alle due fiorisce l’odio; alle tre sogghigna il tradimento; alle quattro trionfa la crudeltà; alle cinque si scatena la violenza.
Alle sei l’alba spande il suo latte sulle piaghe della Terra...
Da un antico manoscritto boemo del XVII Sec.
Seguì il rintocco funebre d’una campana, cui risposero lugubri singhiozzi, grida soffocate, feroci risate...
Da «Gaspard de la Nuit» di Aloysius Bertrand.
Prefazione
PREFAZIONE
Lo scrittore Frank Graegorius: questo autore è considerato un autentico genio della letteratura nera
.
Uomo eccezionalmente colto, dotato di una sensibilità quasi medianica. Possedeva una biblioteca comprendente 6.000 libri di occultismo e di scienze psichiche; e inoltre una collezione di rarissimi grimoires (libri di magia medievale) reperiti nei vari paesi del mondo.
Dai suoi innumerevoli viaggi in Scozia e Boemia, Frank Graegorius ha raccolto leggende, cronache di avvenimenti misteriosi; ha vissuto esperienze insolite, a volte piacevoli, a volte terribili e pericolose. Lo scrittore ha stretto amicizia con personaggi enigmatici: medium, veggenti, occultisti, fattucchiere, sciamani, zigani, stregoni...
I romanzi di Frank Graegorius: durante la sua vita ha scritto oltre 100 romanzi neri, gialli e poi saggi di psicologia e raccolte di poesie. Nei suoi racconti si ode il vento fischiare nelle brughiere, fra il crepitìo dei fuochi di torba. E si sentono le cantilene stregonesche sussurrate dalle vecchie megere davanti alle bamboline di cera...
Nelle sue pagine vivono i sentimenti estremi, le passioni profonde dell’anima, gli oscuri turbamenti dell’eros, l’inquietudine, l’ansia.
La sua prosa ipnotizza il lettore con descrizioni visionarie e paure ancestrali verso l’ignoto.
I suoi capolavori del soprannaturale sono: I sussurri delle streghe, Sudario nuziale, Il castello delle rose nere, L’organo dei morti, L’ululato del lupo, Una fossa bianca di luna, La campana del diavolo.
Questo romanzo: un’antica cittadina della Boemia, sui monti Tatra. Un ambiente suggestivo per antichità e tradizioni.
In questo luogo intessuto di folklore fra czardas (danze ungheresi) e riti magici, un uomo subisce paurose avventure sospese fra realtà e incubo.
Formule cabalistiche e amori stregati; lumi vacillanti e terribili visioni simboliche... I fatti si susseguono con ritmo incalzante, spasmodico. Le passioni dell’anima si scatenano e le forze delle tenebre sembrano annientare ogni cosa.
Trascorsa la notte, l’alba con la sua luce lattea metterà in fuga i fantasmi della paura e ritornerà a fluire la vita.
In Sinfonia del terrore c’è orrore e bellezza; in questo straordinario romanzo serpeggia l’ansia, vibrano erotismo e paura ed è presente tutto il terribile mistero dell’Esistenza.
Solo Frank Graegorius poteva scrivere una storia come questa, perché solo lui sa trasportarci in quei magici mondi dove amore e morte, dove realtà e illusione ci lasciano impauriti e stupefatti.
Sergio Bissoli
Capitolo I - Crapula
CAPITOLO I
Crapula
Jan Hodza gettò un’occhiata fuori dal finestrino della macchina e lasciò che il suo sguardo spaziasse sul tenebroso paesaggio del Tatra.
Milan Tocka, il contrabbandiere, guidava con spericolata perizia, tenendo una sola mano sul volante e con l’altra tamburellava sul cruscotto. La auto, una potente Porsche, affrontava le curve stridendo, divorava i chilometri con la tranquilla cupidigia delle macchine di gran marca.
Jan era quasi pentito d’essersi lasciato allettare dal suo principale ad intraprendere quel viaggio. Giovane procuratore presso lo studio legale J. Ramek & V. Heldin, se la cavava abbastanza bene, tanto che il vecchio Ramek qualche giorno prima l’aveva chiamato e gli aveva detto:
– Ragazzo mio, il nostro cliente Simeon Goldstein vuol vendere la sua proprietà di Poldice. Dovreste recarvi laggiù a dare un’occhiata. Sapete bene che quel vecchio misantropo non esce mai di casa. Del resto, un viaggetto sui Monti Tatra non vi farà male. Una vacanza pagata, eh?
Jan aveva accettato con entusiasmo, perché da anni desiderava visitare quella pittoresca, romantica regione della sua Boemia. Però adesso, mentre si lasciava trasportare da una veloce macchina sulle strade della più misteriosa plaga d’Europa, si sentiva inquieto, oppresso da ricordi antichi e sensazione ereditate, che pian piano soffocavano lo scettico buon senso dell’uomo moderno.
A destra e a sinistra della strada aspre montagne strapiombavano, con speroni di roccia audacemente protesi contro il cielo color zinco, dove nubi tempestose fumigavano, s’inseguivano, si accavallavano, lacerandosi...
Foreste di abeti e larici innalzavano le loro cuspidi frangiate e custodivano nelle loro navate vegetali arcani silenzi turbati solo dal gorgoglio delle sorgenti.
Milan Tocka canterellava sottovoce una canzone zingaresca; la macchina filava verso la mèta ormai prossima; Jan sognava ammirando il paesaggio.
Poi, sulla vetta d’un monte roccioso dalla vaga forma di teschio, apparvero le rovine del castello di Poldice: muraglie sgretolate, archi rampanti, torri smozzicate. Soltanto un torrione conservava il caratteristico tetto conico d’ardesia. Il ponte levatoio, con le sue rugginose catene, sospeso a mezz’aria, sembrava lì lì per rovinare nella lavina sottostante.
La macchina superò una curva e il castello scomparve. Allo sguardo di Jan s’aprì una vallata erbosa dove, tra le pasture, spiccavano qua e là piantagioni di luppolo. Le case di Poldice se ne stavano arrampicate sulle pendici d’un monte, lambite in basso da un largo torrente e dominate in alto dai ruderi del castello. Per un buon tratto l’abitato era ancora protetto dalle antiche mura medioevali, merlate, turrite, spesso ridotte a pochi ruderi anneriti. Una delle porte monumentali della città spalancava la sua bocca ogivale fra due torri sormontate da un tipico tetto aguzzo. L’arcata larga e bassa sembrava ammonire i forestieri che stavano per entrare in un mondo molto antico e misterioso.
Presso il fiume s’era accampata una tribù di zigani: Jan scorse carrozzoni, tende, gente pittoresca, cavalli impastoiati, pigri falò fumiganti.
Le nubi s’aprirono e un ultimo raggio di sole fece scintillare i vetri delle case, accese d’una patina dorata le mura del castello, ravvivò il velluto delle montagne; poi le nubi divennero color fiamma, alte sciabolate di luce divisero cielo e terra in gigantesche quinte.
Il paesaggio boemo tripudiò d’una bellezza tanto solenne e maestosa, che Jan si sentì gli occhi bagnati di lacrime. Un po’ vergognoso d’essersi così intenerito, si scosse e guardò l’orologio da polso.
Erano le sei del pomeriggio.
L’auto fu inghiottita dalla vetusta porta gotica ed entrò a Poldice. Una luce violacea stagnava nelle strette viuzze e illanguidiva i contorni delle cose.
Milan fece percorrere alla Porsche un complicato percorso fino ad una piazzetta dove la fermò.
Edifici plurisecolari si assiepavano tutto intorno. Il suolo era lastricato a selci. In mezzo alla piazza una fontana sormontata da un orso di pietra, gocciava dell’acqua in un bacino tappezzato di muschio. A destra una insegna a bandiera di ferro battuto portava in caratteri gotici a traforo la scritta: Al Gotto D’oro.
Milan Tocka aprì lo sportello della macchina e disse allegramente:
– Siamo arrivati, signor Hodza.
* * *
Jan entrò nella birreria Al Gotto d’Oro e si guardò intorno, sforzandosi d’abituare gli occhi alla semioscurità.
Il fumo verdastro delle pipe e dei sigari sbiadiva la luce di vecchie lanterne boeme, nel cui interno l’oste aveva sistemate anemiche lampadine elettriche. Salvo questa concessione al progresso, la birreria era rimasta come al tempi dell’Imperatore Rodolfo. Capriate dipinte sorreggevano il tetto, vetri a piombi chiudevano le finestrelle ogivali, tavole e sgabelli di quercia erano sparsi qua e là. Il locale sembrava una caverna tanto era vasto, tenebroso e umido. Tozze colonne con i relativi archi dividevano il locale in navate, formando una serie di tetri recessi.
Delle enormi botti, allineate dietro il banco, versavano rivoli di birra bionda o scura nei gotti di porcellana dipinta, che tre camerieri si affrettavano a servire ai bevitori. Il taverniere, Meister Hrska, grasso e monumentale, sedeva davanti alle sue botti.
Teste di cervo e di orso erano appese alle pareti, un po’ da per tutto, insieme a quadri di carattere sacro, che rammentavano le icone bizantine.
Una dozzina di uomini sedevano intorno a una tavola, sulla quale s’affollavano gotti e stivali di vetro a capotavola c’era un tale, vestito di nero, con gli occhiali cerchiati d’oro e la cravatta a farfalla. Di fronte a lui, un omone grande e grosso, il cui collo lardoso formava una piega sopra il colletto troppo stretto della camicia, arringava i commensali agitando il suo gotto di birra e facendo schizzare intorno sbavature di schiuma.
Un ometto rinsecchito, con labbra tumide e occhietti maligni, lo stava ascoltando appoggiato a un bastone col pomo d’avorio.
Tutti gli altri bevevano, asciugandosi ogni tanto le labbra col dorso della mano.
Jan e Milan cercarono un tavolo appartato e si sedettero. Il chiasso diventava sempre più concitato e Milan sogghignava come se ciò lo divertisse.
Hrska s’alzò faticosamente e s’incamminò verso i due nuovi avventori. Intanto Milan aveva abbrancato per una manica un cameriere chiedendogli sottovoce qualcosa. Questi si svincolò con rabbia e si allontanò senza rispondere.
Jan, un po’ inquieto, incontrò lo sguardo del taverniere, che s’era appoggiato con le mani all’orlo del tavolo e aspettava in silenzio.
– Buona sera, – disse Jan; e aggiunse in fretta: – Vorremmo mangiare. Intanto portateci della birra.
– Mi chiamo Hrska, – disse l’oste senza logica apparente. – Sono il proprietario, qui. Serata un po’ burrascosa. Vi servirò della lombata