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Il picco degli angeli
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Il picco degli angeli
E-book561 pagine23 ore

Il picco degli angeli

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Info su questo ebook

Sono passati oltre mille anni dalla grande guerra e la gloria degli angeli perdura, mantenendo la stabilità tra le antiche razze. Ma il mondo sta cambiando e l'equilibrio, sempre più fragile, è destinato ad infrangersi.

Il giovane Joren verrà strappato dal suo mondo e trascinato in un'avventura che segnerà il corso della sua vita e la sorte dei regni.
Come un filo intessuto nella tela della storia, il suo destino si intreccerà con gli intrighi dei potenti, con la crudeltà della guerra e con il valore dell'amicizia e della famiglia.

In un mondo dilaniato dai conflitti, in un tempo in cui intere stagioni scivolano via in maniera innaturale, le scelte di pochi condizioneranno la vita di molti.

È nell'ora più buia che le leggende riprendono vita e nascono gli eroi.

Trame ed Editing: Luca Grasso, Daniele Solfrini.
Autori: Massimo Borio, Mattia Bozzola, Davide Brida, Luca Calderan, Diana Cammarano, Stefano Cavanna, Tommaso Dattoma, Vanessa Facchi, Francesca Fantini, Enrico Frizza, Angelica Gigli, Emanuele Pampalone, Giacomo Petrosso, Loredana Rebuffoni, Elena Remogna, Stefano Sala, Daniele Solfrini.

Cartine: Daniele Solfrini, Alberto Bonis, Massimiliano Feroldi, Stefano Patané.

In copertina: illustrazione di Daniele Solfrini.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2013
ISBN9788868559465
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    Anteprima del libro

    Il picco degli angeli - Luca Grasso

    Capitolo 1

    Incendio

    di Daniele Solfrini

    Il sole sorse lentamente dalla linea piatta dell’orizzonte, inondando con i suoi caldi raggi la grande pianura. I campi di spezie apparvero quasi dal nulla, come se la Dea li avesse creati solo per lo sguardo dei curiosi troppo mattinieri.

    Joren si era svegliato prima del solito, quel giorno, e aveva deciso di dirigersi subito nella sala d’armi ma ora, mentre attendeva Faryel, non gli restava altro da fare che scrutare dalla feritoia del muro est, senza troppo interesse, l’inizio di un nuovo giorno. Il suo addestramento particolare, che doveva assolvere nelle poche pause concesse da quello normale, lo costringeva ad orari massacranti, ma Joren non si era mai lamentato, dimostrando a Faryel tutta la sua forza di volontà.

    Di tanto in tanto, anche se sempre più raramente, spiava dalle mura della rocca i giovinetti del villaggio giocare; da quella distanza erano poco più che puntini, ma lui riusciva comunque a volare fin laggiù con la fantasia e ad unirsi ai loro giochi, come solo pochi anni prima avrebbe fatto in carne ed ossa. Anche oggi alcuni di quei piccoli puntini, lo sapeva, si sarebbero rincorsi a vicenda, lanciando in aria le foglie cadute dagli alberi, creando vortici di rosso, giallo e arancione.

    Un tintinnio metallico molto sommesso, alle sue spalle, lo fece voltare; a produrlo era la cotta di maglia di Faryel, che cadenzava i suoi passi con quella fastidiosa melodia. Vedendolo così bardato Joren riuscì di nuovo ad immaginarlo al comando di imponenti eserciti, in difesa di villaggi innocenti, a caccia di mostri sanguinari e in tutte le altre storie che ruotavano attorno alla figura del prode paladino; storie in gran parte narrategli da Rolar Doppiapinta, durante le sue migliori serate alcoliche, giù alla locanda. Che fossero leggenda o verità, alla giovane recluta di certo non interessava, poiché il suo mentore si era dimostrato realmente in grado di compiere veri e propri prodigi con una lama in mano, e anche senza.

    «Sei pronto, ragazzo?» grugnì il maestro, sistemandosi meglio un bracciale tutto ammaccato. La mattina non era mai di buon umore.

    «Sì... eccomi» rispose Joren, staccandosi dalla piccola finestrella e dirigendosi al centro della sala d’armi. Una fila di colonnine grezzamente cesellate separava l’ambiente principale da una piccola navata laterale, arredata con tavoli e sgabelli dal gusto spartano.

    «Preparati e cominciamo... è da molto che aspetti?»

    «Un po’» ammise Joren, camminando verso la rastrelliera per impugnare con decisione la solita spada. Si era talmente abituato al bilanciamento di quell’arma da preferirla a tutte le altre, causando in più occasioni sfuriate da parte del suo mentore, che insisteva sull’importanza dell’adattamento ad ogni situazione.

    «No Joren... oggi no, prendi quella!» Faryel indicò la spada accanto, più lunga di qualche pollice e con un’impugnatura che permetteva anche la presa con la seconda mano.

    Era un’ottima spada, Joren lo sapeva, ma non poteva fare a meno di pensare che questa nuova imposizione fosse solo un modo per metterlo in difficoltà: il paladino insisteva nel cercare di insegnare all’allievo che tra tutte le abilità di un uomo, la più importante fosse proprio la capacità di adattarsi a qualsiasi cosa, e a qualsiasi costo. Joren sollevò la spada con due mani, non senza una certa fatica, e la saggiò con ampi fendenti nell’aria, deciso a non dimostrare nessuna debolezza al suo addestratore. I due si fronteggiarono con lo sguardo per un breve momento; Faryel sollevò la spada fino al viso e ne baciò la lama, Joren invece rimase immobile, in guardia, con le gambe ben divaricate.

    L’attacco del maestro giunse senza il minimo preavviso: non una finta, non uno sguardo e nemmeno un’esitazione; Faryel scattò in avanti, affondando lo spadone dritto verso la spalla di Joren, ma il ragazzo reagì, anche se solo per istinto, e si tirò indietro di colpo, schivando di poco la lama. Non ebbe il tempo di compiacersene, poiché il paladino iniziò ad assestare rapidi e precisi fendenti, parati dal giovane avversario quasi sempre per miracolo.

    Joren faticava già a sostenere il peso della nuova spada, ma si rendeva effettivamente conto che la lunghezza maggiore della sua lama lo stava aiutando a mantenere un po’ di distanza tra sé e il suo avversario.

    Faryel sogghignò, soddisfatto della difesa del ragazzo, ma subito dopo tornò ad attaccare. Una, due, tre volte le lame si incrociarono, emettendo il loro caratteristico clangore, ma nessuno dei due contendenti era disposto a cedere al primo assalto. L’esperienza però è di frequente in grado di determinare le sorti di uno scontro, e fu così che Faryel riuscì, assestando un colpo violentissimo dal basso verso l’alto, a far sollevare completamente la guardia di Joren che, così scoperto, non poté nulla per evitare lo scarpone del suo maestro che lo raggiunse dritto alla bocca dello stomaco.

    «Harr! Ottimo inizio Joren! Te la stavi cavando bene, almeno fino a quando non ti ho steso!» lo schernì l’uomo, con il suo riso gutturale.

    Anche se cercava di non darlo a vedere, il vecchio soldato si era affaticato più del previsto: delle goccioline di sudore gli colavano già lungo la schiena e respirava in maniera affannosa.

    «Non me l’aspettavo proprio... » riuscì infine ad ansimare Joren che, a terra e piegato in due, cercava di ricominciare a respirare. Sbuffò, si rialzò e scrollò le spalle per riprendersi e, quando sentì ogni osso tornare al proprio posto, sollevò nuovamente la spada.

    «Sei pronto per il secondo assalto?» chiese il paladino, studiando il volto del ragazzo.

    «Sì, cominciamo pure.»

    «Come vuoi... preparati!» questa volta il maestro non caricò a testa bassa, rimase invece immobile, privo di guardia, fissandolo. Lentamente le vene della sua fronte si gonfiarono in maniera preoccupante; senza distogliere lo sguardo dal ragazzo lasciò cadere lo spadone a terra, confondendo l’avversario, che per un lungo momento non seppe cosa fare; poi Joren capì, e in viso gli si dipinse un’espressione di puro terrore.

    Sapeva perfettamente che il suo maestro non era un comune essere umano: in tutto il paese giravano voci sulle sue capacità, ma nessuno aveva mai assistito ad una sua dimostrazione. Il fatto che nel villaggio del Sambuco non si conoscessero altri praticanti della magia aveva contribuito a relegare il discorso tra le leggende, che sembravano calzare sul solitario paladino meglio di un guanto di velluto. Ora non solo avrebbe potuto assistere ad un incantesimo ma temeva, a ragion veduta, di esserne il bersaglio!

    «Cosa diavolo stai... » gridò con una voce più stridula di quello che avrebbe voluto.

    «La domanda che dovresti porti è... cosa.. diavolo... farai tu... ora» Faryel parlava a fatica, per non perdere la concentrazione, ma smise del tutto di farlo quando, tra i palmi delle sue mani, si creò una fitta ragnatela di scariche elettriche crepitanti.

    Joren rimase di sasso per un momento, ma la disperazione fu sufficiente a scatenare la sua reazione: lasciò cadere a terra la spada, dimenticandosi completamente di averne avuta una stretta tra le mani doloranti fino a quel momento, e scattò di lato, attraversando la fila di archi di pietra.

    Gli attimi che seguirono gli parvero eterni; corse per pochi passi, balzò in direzione del pesante tavolone di legno, vi rotolò sopra per poi ribaltarlo sul fianco, improvvisando una barriera. Fu allora che l’incantesimo di Faryel lo raggiunse. Il solido legno di quercia non era minimamente in grado di proteggere Joren dalla potenza della magia, ma poteva celarlo agli occhi del suo maestro, dandogli una piccola possibilità di evitare il colpo.

    O la fortuna gli sorrise, oppure Faryel stesso mancò volutamente il bersaglio, ma il ragazzo conosceva sufficientemente il suo maestro da non credere a spontanei atti di clemenza. Quando lo aveva scelto il paladino era stato molto chiaro: La morte è una compagna di viaggio che dovrai accettare, che potrebbe coglierti da un momento all’altro... e se non starai molto attento, sarò io stesso a presentartela. Non era una minaccia, non c’era sbruffonaggine nel suo tono o nella sua espressione, era semplicemente la presentazione dell’accordo che li avrebbe legati per gli anni a venire.

    Joren riaprì gli occhi, accecati dal lampo del fulmine scagliato dalle mani di Faryel, e la prima cosa su cui posò lo sguardo fu l’enorme foro dai bordi bruciati, scavato nel tavolo di legno di quercia, ad appena due spanne dal suo braccio sinistro. Il ragazzo aveva gridato, ma il panico lo aveva privato dell’udito, rendendogli impossibile capire quanto a lungo.

    Un fischio prolungato gli ovattava ancora le orecchie quando si sentì tirare con forza per il gilet; non capì che cosa stesse accadendo fino a che non sentì la pressione di qualcosa di freddo contro la gola.

    «Morto... » disse Faryel, tronfio di soddisfazione per aver giocato ancora una volta il suo allievo.

    Joren trasalì, spinse con forza il braccio armato lontano da sé e strisciò indietro, allontanandosi dal suo mentore; rabbia e terrore si potevano leggere chiaramente sul suo volto.

    «Cos’era quello? Che... che cosa è stato?» quasi vomitò le parole in faccia al maestro «Sei impazzito? Avresti potuto ridurmi in cenere!» sbraitò furibondo; riuscì a rialzarsi in piedi nonostante le gambe fossero ancora malferme per l’agitazione.

    «Calmati ora ragazzino... » Faryel non era arrabbiato, ma nemmeno felice per quella reazione isterica, semplicemente sembrava aver ignorato lo sfogo del suo allievo «... e siediti un momento, parliamo» e, così dicendo, tese al ragazzo uno sgabello di legno a tre gambe, sedendosi poi sulla balconata di marmo.

    «Era... era… magia?» chiese il ragazzo.

    «A te cosa sembrava?» disse ridendo il maestro.

    «Ma come... come hai fatto?» non si capacitava ancora di essere sopravvissuto, ma la curiosità aveva preso il sopravvento «hai scavato un buco nel tavolo! Un buco enorme! Nemmeno Taurul, con la sua ascia, ci sarebbe riuscito!».

    «Te lo insegnerò, se vorrai e... »

    «Certo che voglio! È stato... pazzesco!»

    «Pazzesco è il fatto che tu non mi abbia lasciato concludere la frase!» lo rimproverò Faryel con sguardo accusatorio «te lo insegnerò, se vorrai e... se potrai!».

    «Come sarebbe a dire se potrò?»

    «Chiunque può imparare ad impugnare una spada, e con un po’ di pratica può diventare anche un bravo soldato; ma la magia... c’è qualcosa di misterioso nel modo in cui si presenta, e nessuno sa perché alcune persone nascano con la capacità di avvertirla, e tutti gli altri no.»

    «Avvertire la magia?» chiese un po’ deluso Joren. Nell’arco della sua breve vita non gli era mai parso di percepire nulla che non potesse esplorare con i comuni cinque sensi.

    «Esattamente, i maestri lo conoscono come il Richiamo, arriva in un momento e in un modo diverso per ognuno, ma se sei nato con questa capacità, presto o tardi te ne accorgerai.»

    «Tu credi... credi che sentirò il richiamo?»

    «Ci sono buone probabilità; dopotutto ti sto addestrando proprio per questo motivo... e non sono certo il tipo d’uomo a cui piace perdere tempo!» Rimasero in silenzio il tempo necessario a far sì che Joren metabolizzasse il significato della loro conversazione, poi Faryel riprese:

    «Comunque l’addestramento all’uso della magia è un percorso lungo, che dura tutta la vita; avrai molto tempo per preoccupartene più avanti. Ora voglio che ti concentri sulla difesa, se non sopravvivrai abbastanza a lungo non avrai comunque modo di imparare nessuna magia degna di questo nome.»

    «Prima non mi sono difeso… ho avuto paura, ho solo pensato a fuggire e a nascondermi!» ammise, vergognandosi, Joren.

    «Vero, ma non sottovalutare la paura. La paura è istinto, esattamente come la magia. Si potrebbe dire che scappare sia l’unica magia concessa in dote dagli Dei a tutti gli uomini! Devi imparare a canalizzare le emozioni, a servirti di loro, a farti guidare oltre la comune razionalità senza farti deviare dai tuoi propositi, mantenendo il controllo su di essi.»

    «Ma come posso difendermi da una cosa come... quella! Fulmini magici in grado di fare un buco così in un... se solo mi avesse colpito io ora sarei... sarei... »

    «Il problema, con la magia, è proprio la sua enorme potenza, ma ci sono delle cose che puoi fare e che ti permetterebbero di avere la meglio.» Faryel era un soldato taciturno e freddo come il ghiaccio, ma quando spiegava, quando insegnava a Joren come sopravvivere, diventava un maestro calmo, saggio, paziente e molto eloquente.

    «La prima cosa che devi sapere è che ricorrere all’uso della magia è molto faticoso, e se solo pensi a tutto il tempo che ho speso per richiamare quel potere, ti renderai conto che avresti potuto attaccarmi indisturbato. La tua possibilità l’hai avuta, ma non l’hai sfruttata! Se ripetessimo le stesse azioni, ora che sai come comportarti, mi abbatteresti senza troppi problemi!»

    Joren si perse ad immaginarsi nell’atto di atterrare e sconfiggere il suo mentore; un brivido di piacere gli corse lungo la schiena: in tutti gli anni passati a duellare con lui non era mai riuscito a sconfiggerlo nemmeno una volta, ed ora egli stesso parlava della possibilità concreta di perdere contro il suo allievo.

    «La seconda cosa che devi sempre tenere a mente, anche se non devi farci mai troppo affidamento, è che... » Faryel non riuscì a finire quella frase. Il suono di un corno invase tutta la rocca, rimbalzando sulle fredde pareti di pietra e riempiendo con la suo eco la sala d’armi. Faryel cambiò improvvisamente espressione, alzò una mano verso il suo allievo comandandogli di tacere. In lontananza le imprecazioni e i passi cadenzati delle sentinelle, che si portavano in posizione sulle mura, si confondevano con ululati animaleschi.

    «Prendi le armi e seguimi... ora!» Altri tre suoni li raggiunsero, in rapida successione; non c’era un minuto da perdere. Joren inguainò la spada e prese arco e faretra dalla rastrelliera, Faryel afferrò un grande scudo di metallo scheggiato dall’eccessivo utilizzo. Non sprecarono tempo a sostituire le protezioni da allenamento con vere armature e corsero immediatamente verso il richiamo all’adunata; attraversarono la rocca e uscirono alla calda luce del sole dopo pochi secondi.

    Nello spiazzo antistante il cancello d’entrata c’era già un gran fermento: soldati in armatura correvano in ogni direzione, in assetto da guerra e sferragliando come pentolame sbattuto; i sergenti, con le loro voci tonanti, dettavano ordini perentori ai propri uomini, posizionandoli sulle vedette e tenendoli saldi e concentrati. Joren si voltò per chiedere consiglio al suo mentore, ma egli non era già più al suo fianco. Averlo vicino lo avrebbe rassicurato, ma il maestro aveva degli ordini, e l’allievo aveva i suoi.

    Corse verso il suo sergente, riconoscibile dalla fascia bianca avvolta attorno al braccio corazzato. Tutta la truppa in cui Joren militava era schierata sulla facciata nord, puntata verso lo stretto ponte di pietra che collegava la rocca alla strada per il villaggio. I suoi commilitoni già imbracciavano archi e frecce, nascondendosi dietro le merlature di pietra grezza. Alcuni bracieri posti tra un merlo e l’altro avrebbero permesso ai tiratori di infuocare le aste delle frecce, ma nella fretta nessuno aveva pensato di appiccare il fuoco.

    I soldati, avvolti nelle scintillanti armature di piastre metalliche, erano in realtà per la maggior parte giovani reclute e scudieri, guerrieri che mai avevano preso parte ad una vera battaglia. La rocca però era stata costruita proprio per resistere a qualunque tipo di assalto, e poteva essere facilmente difesa da un pugno di uomini; inoltre avevano Faryel e la sua magia, dalla loro.

    Un grido gutturale si levò nell’aria, strappando Joren alle sue considerazioni; un solo, unico grido. Nessuno dei ragazzi sulle mura capì una sola parola di quella lingua antica, ma tutti seppero immediatamente quello che stava per succedere. Le urla vennero sostituite dal sibilo di corde d’arco, ripetuto centinaia di volte: una melodia vibrante e terribile.

    «State giù!» comandarono i sergenti, costringendo i soldati ad accosciarsi.

    «Pronti a tirare!» risposero altre voci, in coro.

    Joren, completamente allo scoperto al centro dello spiazzo, prese a correre in cerca di riparo, nella stessa direzione dalla quale sarebbe arrivata la letale nuvola di dardi nemici; quasi non si accorse degli ostacoli che dovette superare lungo il breve tragitto, saltando o evitando carretti, botti e macigni, favorito nel movimento dall’assenza di quell’armatura che gli avrebbe però fornito una qualche protezione dalla salva di frecce. Un fischio inconfondibile raggiunse le sue orecchie, spingendolo ad accelerare.

    L’istinto gli suggerì che non sarebbe mai arrivato in tempo alla parete e che sarebbe stato dilaniato lì dove si trovava, se non avesse trovato un’alternativa alla corsa forsennata verso la morte. Con la coda dell’occhio individuò un carretto pieno di scudi e spade abbandonato lì vicino e, senza pensarci, vi corse incontro. Quando fu a circa due metri dal trabiccolo, e le prime frecce già cominciavano a piantarsi nel terreno intorno a lui, si lasciò scivolare proprio sotto di esso. La maggior parte dei dardi cadde in quel momento, come grandine assordante, contro il suo rifugio di legno e ferro.

    «Tirate!» fu l’ordine a cui, non appena il ticchettio delle punte che rimbalzavano contro le mura cessò, tutti risposero, con la prontezza tipica dei soldati addestrati all’obbedienza; per Joren, invece, fu il segnale che gli ricordava che avrebbe dovuto ricominciare a muoversi o sarebbe stato bloccato sotto al suo fortuito riparo da un secondo stormo di frecce assassine.

    Superò le scale quattro gradini alla volta per raggiungere la cima delle mura; oltre le merlature, ora lo poteva vedere, c’era un piccolo esercito di orchi. Non era la solita bravata di un gruppo di pelleverde in cerca di facile bottino: erano schierati, organizzati e, soprattutto... erano troppi, decisamente troppi.

    Joren non aveva mai visto niente del genere in tutta la sua pacifica esistenza: le sagome, benché lontane qualche centinaio di metri, apparivano enormi e muscolose; a gruppetti uscivano ancora dal rugginoso boschetto di aceri, continuando a rimpolpare le fila della truppa. Lo sguardo del ragazzo sorvolò i corpi dei caduti, trafitti da nugoli di frecce e ancora contorti dal dolore che aveva segnato i loro ultimi istanti di vita, mentre il rosso del loro sangue si mischiava al sottobosco autunnale, come bacche schiacciate per gioco da un bambino.

    «Trovati una merlatura libera e piazzatici!» lo richiamò all’ordine il sergente Horace, di pochi anni più grande di lui, ma dotato di grande carisma e di una mente adatta al comando. Joren fece per muoversi, ma così facendo guardò ad est, verso il denso fumo nero che sembrava riempire l’aria ed oscurare il sole nascente all’orizzonte.

    Torri di polvere nera si innalzavano dai tetti delle case del piccolo paese dato alle fiamme, costruito per lo più in legno e paglia, rendendo immediatamente chiara quale fosse stata la sua fine.

    «Hanno bruciato il villaggio! Horace... la... la mia famiglia!» balbettò Joren in preda al panico. Il suo cedimento attirò l’attenzione dei compagni d’arme che, come risvegliati da un incubo, sembrarono ricordarsi di essere tutti figli di mugnai, fattori, fabbri e maniscalchi.

    Horace interrogò l’animo dei suoi uomini con un profondo sguardo, poi rispose con rabbiosa decisione:

    «Torna al tuo posto soldato! Gli abitanti sono già stati portati nelle grotte della rocca, al sicuro! Torna a combattere! Tornate tutti a combattere!» e, detto ciò, spinse la sua recluta più avanti sul camminamento, con violenza «non fateli avvicinare! Volete salvare le vostre famiglie? Bene! Fate in modo che la porta nord non cada o sarà la fine per tutti!» ripeté a tutta la truppa, prima di tornare a squadrare i nemici al di là del merlo dietro al quale aveva trovato riparo.

    Joren impugnò a sua volta l’arco ed iniziò a scoccare frecce, senza soffermarsi a cercare un singolo bersaglio, ma tirando nel mezzo di quella massa verde di muscoli, ferro e zanne. Per circa mezz’ora i due schieramenti seguitarono a scagliarsi frecce dai rispettivi ripari, mentre gli assedianti preparavano l’assalto finale. Quando furono pronti partirono alla carica.

    Le prime file si mossero, equipaggiate con grandi scudi di legno già completamente ricoperti di scure aste impennate; con la mano libera trasportarono sotto le mura le pesanti scale d’assedio, puntellandole nel suolo morbido ed umido. Alcuni sassi, scagliati dai difensori sulle mura, li raggiunsero, uno di questi fracassò la testa di un orco troppo avventato, ma gli altri vennero facilmente deviati dagli scudi. Gli orchi ormai erano troppo vicini perché i soldati potessero continuare a servirsi degli archi, inoltre un gruppetto di pelleverde era rimasto a distanza e cercava di colpire, con giavellotti e asce da lancio, chiunque si sporgesse troppo dal proprio riparo.

    «Spade!» ordinò la voce possente di Faryel, giunto proprio in quel momento al fianco di Horace, armi in pugno. Una lunga ferita superficiale gli solcava la fronte, facendogli colare sangue lungo la guancia fino ad insudiciargli la barba «che nessuno ceda! Provate a fare anche solo un passo indietro e giuro che vi taglierò i piedi!»

    Evidentemente lesse la paura negli occhi dei giovani soldati, perché subito dopo scagliò un altro dei suoi incantesimi, sperando forse di infondere il coraggio nei cuori più pavidi. La lama della sua spada, vecchia e scheggiata, si illuminò di una luce azzurra e crepitante; il paladino puntò l’arma alla base di una delle pesanti scale d’assedio, che già stavano raggiungendo il muro con i loro rampini, e recitò parole incomprensibili. Una saetta si materializzò attorno alla lama, percorrendola lungo il filo fino alla punta, dirigendosi poi verso gli orchi che manovravano la pesante struttura lignea e fulminandoli sul posto.

    Le loro braccia divennero cenere e si dissolsero nel leggero vento mattutino, i monili conficcati nelle orecchie e nel naso si fusero; le loro carcasse, ancora fumanti, vennero calpestate dall’orda verde, che sembrava non concedere alcun rispetto alla morte, nemmeno a quella dei propri simili.

    Ma l’assalto non si fermò, a dire il vero non ebbe nemmeno una minima battuta d’arresto; i primi orchi, scalati agilmente i pioli che li separavano dalla cima delle mura, si affacciarono tra le merlature. I giovani soldati si scagliarono con occhi pieni di terrore verso gli assaltatori, fendendo e infilzando con spade, lance ed asce; riuscirono ad abbattere i primi avversari, spingendoli nel vuoto, ma sapevano che prima o poi la loro difesa avrebbe ceduto.

    Fu un orco dalla cresta selvaggia ad aprirsi un varco, proprio nel ventre dello schieramento: afferrò con una mano il manico dell’ascia che, altrimenti, gli avrebbe spaccato il cranio, scaraventando giù dalle mura il giovane attaccato ad essa. Si arrampicò rapidamente, raggiunse il camminamento...

    Fu il caos.

    Dietro di lui, come un fiume in piena, altri guerrieri si riversarono sulle mura, infilandosi nell’unico spazio creato dal primo di loro, e si lanciarono all’attacco in entrambe le direzioni. Grugnirono, urlarono e sbavarono, annientando qualunque forma di vita gli si parasse davanti: pesanti asce bipenne straziavano le carni, le lame affilate dei machete amputavano arti e teste con facilità, mentre callose mani d’acciaio spezzavano colli e braccia come fossero fuscelli rinsecchiti.

    Quei selvaggi agivano in stato di trance, in pieno berserk: non avvertivano il dolore e della paura non riuscivano nemmeno a rammentare il nome; non si sarebbero fermati fino a quando ogni umano non fosse stato annientato.

    In quel momento di terrore, quando l’avanzata degli orchi sembrava oramai inarrestabile, ed essi stavano già conquistando la torre ovest, attraverso la quale avrebbero potuto raggiungere il chiostro, Faryel innalzò la spada al cielo e gridò «Ora!»

    Dalla cima del picco sul quale era stata costruita la rocca cadde un telo di notevoli dimensioni, che le correnti soffiarono ben oltre le mura di cinta. Quella che si allontanava dalla battaglia, svolazzando come uno stormo di rondini, era solo la copertura dello strano oggetto sul quale gli occhi di chiunque non fosse impegnato a combattere si posarono: tre statue di donna, apparentemente composte di metallo cromato, si tenevano per mano, in cerchio e dandosi le spalle a vicenda. Vicino alla statua c’erano gli uomini che l’avevano svelata e Joren, che era completamente all’oscuro dell’esistenza di quello strano artefatto, ebbe l’impressione di vederli trafficare con alcune leve piuttosto bizzarre, ma era una scena che si svolgeva troppo in lontananza per essere sicuri di qualsiasi cosa.

    Le statue emisero un suono stridente, come se le tre gigantesse di metallo gridassero furiose, scuotendosi all’unisono, poi tutta la struttura prese a roteare su sé stessa, sempre più velocemente. Il movimento continuo generò violente scariche elettriche, che si concentrarono formando una sfera di energia vibrante; questa raggiunse rapidamente dimensioni inimmaginabili, minacciando di ingrandirsi ancora, inglobando completamente la fortezza. Nel momento in cui Joren fu attraversato da quella luce così strana non percepì assolutamente nulla e se ne stupì: temeva che bruciasse, pungesse, tagliasse o che gli avrebbe causato del dolore in qualche modo; e invece niente, nulla.

    Gli orchi non poterono dirsi così fortunati: quando la misteriosa energia li raggiunse proiettò una sagoma alle loro spalle, strappandola dal loro stesso corpo, fatta di luce dal colore rosso vivo, dissolvendola subito dopo come se fosse composta di lucciole sfavillanti. Per un momento, che sembrò eterno, l’assalto si bloccò improvvisamente e tutti i pelleverde parvero confusi, improvvisamente affaticati e increduli.

    «Ricacciateli da dove sono venuti!» incitarono i sergenti, ed i ragazzi ripresero l’assalto.

    La furia che aveva dato lo slancio agli orchi si era esaurita, dissolta dall’artefatto costruito sulla cima della montagna, riequilibrando un poco le forze schierate in campo. I soldati della rocca, per quanto giovani e impauriti, combattevano per la loro vita e per quella dei loro cari; se avessero perso non ci sarebbero state pietà, prigionia o misericordia per tutti loro, ma solo l’annientamento.

    Gli orchi scesero nella piazza d’arme e si trovarono di fronte un muro di lance; senza esitazione caricarono, sfondando lo schieramento con la loro forza ed il loro peso, deviando gli spuntoni con gli scudi o schivandoli con rapidi movimenti. Qualcuno finì trafitto e venne subito utilizzato come scudo per spaccare la formazione di lance. Non ci volle molto prima che la piccola falange venisse sparpagliata in gruppi più piccoli e che lo scontro diventasse una rissa indisciplinata.

    In tutto quel marasma Joren era rimasto lontano dal centro dello scontro, ma era una fortuna destinata a concludersi lì: alle sue spalle comparve un orco dalla pelle verde scura, che si era arrampicato indisturbato sulla scala d’assedio mentre lui guardava sbigottito lo strano meccanismo. La giovane recluta tentò di fermare il nemico con la spada, calandola dall’alto con entrambe le mani, ma l’orco gli afferrò con dita d’acciaio il polso, prima che il colpo letale potesse abbattersi su di lui; le loro facce si trovarono a pochi centimetri l’una dall’altra ed il ragazzo sentì tutto il fetore dell’alito del colosso che gli ringhiava contro. Joren, d’istinto, afferrò con la sinistra il pugnale che teneva sempre legato alla cintola, conficcandolo nel muscolo della spalla del suo avversario. L’orco emise un grido prolungato, lasciando andare la sua preda, ma il dolore lo fece solo infuriare di più e, con un manrovescio, colpì in faccia Joren, scagliandolo a terra.

    Il ragazzo cadde sul corpo di Horace, dilaniato da profonde ferite, ma non c’era il tempo per cedere alla paura... non stavolta. La creatura avanzò verso di lui, armata di una pesante ascia bipenne e di un ghigno in grado di far gelare il sangue nelle vene di un uomo.

    Joren si rialzò, accorgendosi solo in quel momento di aver trattenuto nella mano destra la sua spada, e si mise in guardia, ma l’orco caricò con uno scatto. Invece di usare la sua arma diede una poderosa spallata al guerriero inesperto, che non poté nulla per evitare quel muro di muscoli e fango. Ancora venne colpito e ancora cadde sopra cadaveri di orchi e umani, avvinghiati come ballerini stremati da una macabra danza. Il sangue e le interiora, sparsi ovunque, rendevano ogni oggetto ed ogni superficie scivolosi.

    Una mano poderosa sollevò Joren dal mucchio di corpi, ma solo per trascinarlo verso altro dolore: l’orco lo tenne sospeso da terra e gli diede una testata, a cui ne seguì un’altra e poi una terza. Joren riuscì a non svenire per miracolo, ma il sangue e le lacrime gli offuscarono la vista e ad ogni colpo gli sembrò di scivolare oltre la sua coscienza; ad un tratto gli parve di nuotare nel pavimento, osservando dal basso lo scempio che il selvaggio guerriero stava facendo di lui. Solo quando l’orco lo lasciò cadere a terra riprese i sensi, giusto in tempo per vedere la grande ascia pronta a calare su di lui.

    No! qualcosa dentro di lui si infranse, liberandolo dalla paura. Rotolò di lato quel tanto che bastava per evitare la lama che altrimenti lo avrebbe diviso in due. Il pavimento tremò per lo scontro tra metallo e pietra, ma Joren si mosse con rapidità: roteò la spada in un ampio arco, mirando al collo del mostro. La bestia si ritrasse appena in tempo per evitare di essere decapitata, ma la spada gli si conficcò profondamente nel braccio, incastrandosi; l’orco sgranò gli occhi ed emise un latrato, perdendo la presa sulla sua ascia.

    Joren si rialzò, quasi privo di energie; vide il suo pugnale ancora conficcato nella spalla del nemico e, senza pensare, fece perno sul parapetto. Si diede lo slancio afferrando con decisione il coltello, lo estrasse dalla carne dell’orco e rotolò sulla schiena di quell’indistinta sagoma verdastra. Una volta toccata terra, con rapidità, infilzò la piccola lama dritta nell’orbita oculare del suo avversario. Il morente si lasciò sfuggire appena un gemito sommesso, prima di crollare pesantemente a terra. Joren lo guardò, lì riverso nel suo sangue, senza provare alcuna pietà.

    Mentre un nuovo orgoglio gli riempiva il petto, scacciando i vecchi timori e allontanando il dolore che dalla faccia si propagava per tutto il resto del suo corpo, lo raggiunsero lontane urla di terrore e di dolore, imprecazioni e preghiere. Guardò oltre i merli e, non appena si rese conto del fatto che molte di quelle voci appartenevano a donne e bambini, percepì anche il grido di disperazione che avrebbe dovuto leggere dietro gli occhi del suo sergente.

    «Il villaggio... il villaggio doveva... doveva essere vuoto!» Con orrore lo raggiunse il peso della bugia di Horace, e con esso il conato di vomito che gli chiuse la bocca dello stomaco «sono ancora lì, tutti... Sasha... madre... perché?» si disperò e sentì le forze venirgli meno; vomitò all’istante.

    L’ultima cosa che vide fu uno strano oggetto metallico rotolare, tintinnando, troppo vicino ai suoi piedi; Joren lo fissò attraverso le palpebre gonfie, ma immediatamente un lampo accecante lo investì. Tutto divenne bianco ed un fischio acuto si insinuò nelle sue orecchie, spegnendo ogni altro suono proveniente dal mondo.

    Cadde, non seppe dove, ma cadde, per un’infinità di tempo cadde; infine, quando sembrò che non ci fosse più un suolo da raggiungere, tutto divenne freddo e buio.

    Capitolo 2

    Accordi e disaccordi

    di Mattia Bozzola

    «Spero tu mi stia portando qualche bella notizia. Sto iniziando a stufarmi di questo posto.»

    Il falco saltò dal trespolo, aggrappandosi saldamente al guanto che gli veniva offerto. Il giovane elfo, con la mano libera, raggiunse il piccolo cilindro di metallo legato alla zampa dell’animale e lo aprì, estraendo la striminzita pergamena arrotolata in esso contenuta.

    I bordi, mal definiti, facevano da cornice ad una superficie bianca, sulla quale tenui striature rosa si intrecciavano, formando una trama appena percettibile. Sopra questa, un sottile filo azzurro faceva da chiusura, grazie ad un piccolo fiocco. Prese la pergamena tra due dita, osservandola con attenzione, prima di avvicinarla al naso. Dopo averla fatta rotolare nell’incavo della mano semi chiusa, la sfregò lievemente con un’unghia, annusando l’aria con cautela. Lasciò che gli scivolasse nella mano aperta, come se volesse saggiarne il peso prima di conoscerne il contenuto, poi chiuse gli occhi; li riaprì pochi istanti dopo, sbarrandoli come se si fosse risvegliato da un improvviso torpore. Scosse la testa con uno sguardo stupito e avvicinò il falco al trespolo, invitandolo ad appoggiarvisi.

    Osservò il piccolo studiolo in cui si trovava; la luce che tagliava la finestra conferiva alla stanza un aspetto ancora più rustico. Era un ambiente piccolo, di forma quadrangolare, con pareti ed arredamenti in legno. I rivestimenti in pelle dei mobili si alternavano ad incisioni essenziali ed eleganti che descrivevano alcune scene di caccia. Il pavimento era ricoperto da un soffice tappeto di lana verde. Esso era interrotto solo dai rami del grande albero che sostenevano la struttura nei due punti estremi della stanza. L’unica finestra, esposta a sud, era contrapposta alla porta di accesso. Da essa, uno stretto corridoio portava direttamente alle sue stanze, vicine a quelle del suo mentore e delle sue schiave.

    Si avvicinò allo scrittoio ed estrasse, da uno dei cassetti, una piccola lastra di metallo. La prese per i bordi con il guanto di cuoio e la avvicinò ad una delle candele accese. Quando la lamina metallica divenne sufficientemente calda, la appoggiò al rivestimento in pelle del ripiano. Si tolse poi il guanto ed iniziò a slegare la piccola corda che chiudeva il messaggio.

    L’interno della pergamena era attraversato dalle stesse striature rosa presenti anche all’esterno. Appoggiò il piccolo foglio alla placca di metallo, lasciandolo fermo per qualche secondo. Una scritta apparve in superficie.

    Questo autunno è quasi finito...

    Il principe lesse sottovoce le poche parole, poi chiuse gli occhi. Prese la pergamena tra le dita e si appoggiò con entrambi i polsi allo scrittoio ma, prima che potesse proseguire, una voce stridula interruppe i suoi pensieri.

    «P... Principe... Amrod... mio s... signore?»

    «Cosa c’è, Gareth? Mi hai disturbato.»

    L’elfo rivolse al piccolo goblin uno sguardo glaciale quanto il freddo delle montagne del nord, luogo in cui avrebbe voluto mandare davvero la sua spia, come punizione per il suo pessimo tempismo.

    Non erano in molti ad avere libero accesso alle stanze del principe Amrod. Dopo il re suo padre ed il vecchio tutore Calafas, Gareth era l’unico che potesse avvicinarsi così tanto a lui senza essere controllato da una scorta.

    «È p... per la s... spedizione al villaggio... » riprese il goblin, con voce un po’ più sicura, mantenendo però lo sguardo fisso a terra, timoroso della possibile reazione del suo signore.

    «Gli orchi dovrebbero già essere di ritorno!» lo interruppe l’elfo «qualcosa non è andato per il verso giusto? Non era un villaggio molto grande... né sufficientemente difeso.»

    Portò la mano in tasca, facendo scivolare in essa il messaggio, poi si avvicinò alla porta, al cui limitare si trovava Gareth, e alzò la voce:

    «Parla! Cos’è successo? Dimmi tutto!»

    «S... stanno tornando, m... ma sono m... meno della metà!» la voce del goblin tremava ancora, ma proseguì «molti sono feriti... »

    «E i prigionieri? Abbiamo solo perso del tempo o sono riusciti a prenderne?»

    «N... non sono m... molti, ma ci s... sono.»

    «Questo mi fa venire in mente un’idea... »

    «Non credo sia saggio pensare di eludere un accordo!» tuonò una voce maschile dal fondo del corridoio «e non dovreste trattare in questo modo un vostro sottoposto: la fiducia e il rispetto sono le migliori armi di un principe; la paura e il sospetto, al contrario, non potranno che portarvi guai, nel momento del bisogno».

    «Calafas... non ricordo di averti sentito bussare!» trasalì Amrod, piantando i suoi occhi bruni in quelli del vecchio mentore, come fossero coltelli grondanti veleno nero.

    «Non ricordo di averlo mai fatto. Il re vostro padre mi ha dato precise istruzioni riguardo alla vostra permanenza qui, a Tanàrion» fece una pausa, poi riprese con tono più gentile «e se adesso vorrete dare a questo vecchio elfo il tempo di avvicinarsi, potreste anche imparare qualcosa di nuovo».

    «Non mi interessa. Lasciami in pace!»

    La voce di Amrod si era fatta più stridula. Furente, voltò le spalle alla porta, liquidando con un breve gesto il goblin, che fece un inchino e si allontanò. Calafas si avvicinò, reggendosi al bastone. Camminava lentamente, concedendosi ampie pause tra un passo e l’altro. I capelli ricadevano bianchissimi sui suoi abiti e sul bastone stesso, mentre le sue ampie vesti sembravano oscillare con una quieta regolarità, dando l’impressione di una pacata compostezza. Quando gli fu vicino, riprese il discorso:

    «Forse mi sbagliavo poco fa? Ho voluto fermarvi, prima che rivelaste le vostre intenzioni in presenza di quel goblin.»

    Il principe si voltò per affrontarlo:

    «Cosa vuoi che possa fare Gareth? È una brava spia e mi è fedele!»

    «Ne siete sicuro?» chiese il vecchio guardandolo negli occhi.

    Lo sguardo profondo del mentore ebbe l’effetto sperato e, lentamente, Amrod si calmò, respirando e cercando le parole con cui rispondere.

    «Certamente. Non agirebbe mai contro di me.»

    «Ma non farebbe mai qualcosa per voi, almeno non spontaneamente» fece una pausa, poi aggiunse incalzante «non è forse così?».

    «Non è di questo che stavamo parlando» cambiò discorso il principe, avvicinandosi al falco; mostrò la mano aperta all’animale, prima di richiuderla leggermente per lisciargli le penne con il dorso «pensavo... sono pochi, indeboliti» si voltò nuovamente verso il suo mentore «sarebbe facile prenderli di sorpresa e costringerli a... ridefinire il nostro accordo».

    «Se con ciò intendete dire prendere con la forza, non sono d’accordo» Amrod si allontanò dal falco e tornò verso lo scrittoio. Calafas continuò il proprio ragionamento «avete pensato alle conseguenze? Quali potrebbero essere secondo voi?».

    «Non ce ne saranno, se li renderemo inoffensivi. Basteranno un centinaio di uomini ben armati. Cercheremo di spaventarli con il nostro numero. Se saranno furbi, si arrenderanno e ci consegneranno armi e prigionieri. Se si dovessero ribellare... sono solo un pugno di orchi feriti.»

    Il vecchio elfo appoggiò il bastone avanti a sé e si avvicinò lentamente al principe. Poi rispose:

    «È come il gioco del Deremin; servono strategia e capacità di prevedere le mosse dell’avversario. Il territorio degli orchi è troppo vicino a Tanàrion e, in caso di una loro reazione, non ci sarebbe il tempo di ottenere alcun appoggio da vostro padre.»

    «Non abbiamo nulla da temere da quei selvaggi ed io...»

    «Solo finché continueremo a rispettare gli accordi presi!» lo interruppe il mentore, proseguendo poi nella ramanzina «traditeli e non si daranno pace fino a che non vi avranno immolato ai loro Dei barbari».

    Le ombre degli alberi si allungavano sul terreno, attraversando il bivio di Tangiel, perfettamente allineate l’una rispetto all’altra come le corde di un salterio. Poco più a sud, lungo la strada principale, Amrod era in attesa. Si trovava sul confine di una piccola radura che si estendeva verso est per poche decine di metri. Non riusciva a nascondere il suo nervosismo. Teneva strette le briglie del cavallo, un giovane stallone dal manto baio, che sopportava la tensione con inquieta rassegnazione. Il principe indossava un corpetto in cuoio da cui spuntava un’ampia veste verde molto elegante; piccoli ricami dorati erano visibili lungo le maniche e sul colletto, da cui si affacciava una sottile catena in argento. Al centro di essa pendeva una piccola scaglia di drago, finemente lavorata, che si adagiava delicatamente tra le pieghe rosse della camicia. Un mantello scivolava dalle spalle fino ai fianchi del cavallo, lasciando intravedere il movimento agitato degli stivali di cuoio nelle staffe.

    All’interno della radura si trovava Calafas, sorretto dal nodoso bastone e accompagnato da due coppie di soldati della guardia personale del principe. Indossava una veste dai colori sgargianti, con strisce verticali verdi e rosse interrotte con regolarità da piccoli rombi azzurri. Su di essi era stata ricamata, con un filo d’oro, una serie di rune. Un leggero sorriso increspava il suo volto rugoso, mentre canticchiava a fior di labbra una semplice melodia.

    Un debole rumore sordo riempì l’aria, subito seguito da altri suoni percussivi. Il principe rimase immobile, rivolto verso sud, in attesa di scorgere la colonna di orchi che, pochi minuti dopo, apparve dal fondo della strada. Sporchi e trasandati, procedevano sorreggendo con fierezza le grandi asce; alcuni di loro portavano a tracolla grossi tamburi da guerra, sui quali battevano ritmicamente con una mazza di legno.

    Amrod attese di essere visto, poi spronò il cavallo verso la carovana orchesca, facendo segno di seguirlo.

    Il gruppo di orchi si affacciò alla radura, guidato dal loro capo. Una cinquantina di guerrieri gli si affiancò, formando tre file, forse nel tentativo di intimorire il piccolo gruppo di elfi. Alle loro spalle continuarono ad arrivare altri orchi, la cui maggioranza presentava visibili segni della battaglia. In mezzo a loro, legati l’uno ai polsi dell’altro, vi erano una decina di schiavi; occhi a terra ed espressione abbattuta, più per vergogna della propria condizione che per rispetto verso l’autorità dei loro aguzzini. Uno degli umani provò a sollevare lo sguardo in direzione del principe, ma gli venne servito subito un violento manrovescio dalla guardia. La potenza del colpo lo sbilanciò, facendolo cadere violentemente a terra, trascinando dietro di sé anche gli schiavi a lui più vicini. Si sollevò per prima la chioma rossa di una giovane ragazza che, rialzandosi, cercò anche di aiutare il suo compagno di sventure. Fece forza sulle ginocchia con le ultime energie rimaste e, con grande fatica, riuscì infine a riportarlo in piedi. Dopo essersi assicurata che stesse bene cercò di rivolgersi all’orco che li aveva aggrediti, il quale sollevò nuovamente il braccio.

    «Basta così. Mi servono interi.» La voce di Amrod fu sufficiente a fermare la mano dell’orco che, dopo aver cercato conferma nello sguardo del proprio capo, ritornò alla propria postazione.

    «Altri prigionieri sui carri» disse quest’ultimo, indicando verso la coda della loro malconcia carovana «tu non perdi nulla».

    «Sono convinto, oh potente Turegrok, che le condizioni di salute dei prigionieri siano più che soddisfacenti» si intromise Calafas, cercando di calmare gli animi.

    L’orco lasciò il tempo al principe di osservare i trabiccoli metallici disposti lungo la strada, poi riprese:

    «Aspettavo più elfi. Avevano paura?»

    La voce profonda e quasi gutturale dell’orco conferiva un aspetto ancora più imponente alla sua figura. Un tatuaggio attraversava parte del suo volto, sparendo dietro alla cotta di maglia che gli copriva il torace. Dalla schiena sporgeva la lama dentellata di una pesante motosega, la cui colorazione rossastra lasciava intuire il recente uso che ne era stato fatto.

    «Il numero non conta quando si deve onorare un accordo» fu la risposta del principe «questo è l’oro che vi spetta per i vostri servigi».

    Sollevò il mantello, mostrando una borsa in pelle al suo interlocutore. Senza nemmeno smontare da cavallo, la lanciò a terra in direzione dell’orco; gli altri membri della sua guardia rimasero immobili, mentre Calafas osservava la scena nel silenzio più totale.

    «Quell’oro non basta.»

    «Controllalo pure, è il prezzo pattuito. Non ti sto ingannando.»

    «Tante perdite, tanto oro! È così e basta.» Il capo degli orchi sollevò un braccio. Al suo comando i guerrieri si disposero in una formazione semicircolare, cercando di accerchiare la guardia elfica.

    Il principe sorrise come se non aspettasse altro che un pretesto «Arcieri!»

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