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L'uomo dall'altro universo
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E-book816 pagine9 ore

L'uomo dall'altro universo

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Info su questo ebook

Si è sempre creduto che non esistano possibilità di poter cambiare la storia, tantomeno le sorti del futuro dell’intero pianeta. Potrebbe essere così, oppure no.
Esistono luoghi nel mondo, scoperti in epoche recenti e anche remote, dove è possibile varcare soglie temporali. Grotte, voragini nel terreno, buchi nella roccia, frutti di collisioni spazio-temporali fra due universi distinti, che danno accesso all'esplorazione di nuovi mondi, altri pianeti Terra, dove la storia può aver subìto leggeri cambiamenti rispetto al luogo di origine, se non addirittura drastici.
In L’Uomo Dall'Altro Universo troviamo la storia di uno di essi, un luogo dove la Terra è caduta vittima di un triste destino. Jonathan, piombato per puro caso in un lontano futuro, avrà la possibilità di conoscere in largo anticipo il tetro scenario che attende anche il suo pianeta. Scoprirà che sono poche le differenze che caratterizzano il passato del suo mondo e il nuovo in cui è approdato.
La stessa cosa sarà vista anche attraverso gli occhi di John quando, cadendo invece in un epoca passata, nella turbolenta Inghilterra di Enrico VIII della prima metà del cinquecento, si accorgerà che i suoi studi di Storia poco gli serviranno per venir fuori da una situazione del tutto assurda.
In questo romanzo si intrecciano passato, presente e futuro. Attraverso un’avventura futuristica e storica, i protagonisti si accorgeranno che in qualsiasi luogo si possa capitare, seppur del tutto fuori dal comune, nel nostro mondo sono gli alti valori che contraddistinguono da sempre l’essere umano a poter fare la differenza.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2020
ISBN9788835366140
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    Anteprima del libro

    L'uomo dall'altro universo - Leonardo Campoli

    Campoli

    L’UOMO

    DALL’ALTRO

    UNIVERSO

    © Leonardo Campoli, 2019

    All rights reserved.

    Titolo dell’opera:

    L’uomo dall’altro universo

    A mia moglie e ai miei figli. Le persone che mi fanno sentire l’uomo più fortunato di questo mondo.

    Apparenti errori riguardanti fatti storici e scientifici sono legati al fatto che molte vicende si svolgono in una realtà differente dalla nostra, dove le cose potrebbero essersi evolute diversamente da come le conosciamo noi oggi. Ogni riferimento a persone, a cose o a fatti è puramente casuale nonché frutto di fantasia dell’autore.

    PROLOGO

    Porto Grande, Italia. 1991.

    Un giorno, quando Jonathan aveva solamente sette anni, chiese a suo fratello Michael perché, a differenza del figlio dei loro vicini, Carlo, non poteva permettersi anche lui una stanza piena di Lego. Avrebbe dovuto invece accontentarsi di una nave dei pirati e una piccola stazione di benzina, con cui sarebbe stato pressoché impossibile costruirci una storia sensata nella sua testa. Nemmeno la fantasia più assurda del mondo, probabilmente, avrebbe potuto combinare degli elementi così lontani nel tempo, come quei due temi scelti dalla colossale industria danese per vendere i loro giocattoli ai bambini.

    Non abbiamo i soldi per poterci permettere una stanza piena di giochi come i nostri vicini, Johnny. rispose Michael mentre si versava del caffè sulla tazza.

    Perché non abbiamo i soldi? chiese Jonathan seduto sulle proprie ginocchia, sopra un tappetino per i giochi steso sul pavimento, in salotto. Stava facendo saltare il benzinaio sulla nave, da una vela all’altra, col manicotto della pompa in mano.

    Perché i lavori che svolgiamo Rosy ed io non ci danno la possibilità di avere un certo tipo di agi e privilegi.

    "Aghi e cosa?" chiese nuovamente il piccolo, smettendo di giocare per guardare incuriosito il fratello maggiore.

    Comodità, Johnny. Cose più belle e costose delle nostre, come ad esempio… più giocattoli e più stanze libere in casa!

    Allora perché non cambiate lavoro? Chiedi a Luigi, il padre di Carlo, se puoi andare a lavorare con lui! disse entusiasta il bambino, come se avesse avuto una trovata geniale. Così anche Rosy potrebbe rimanere a casa senza andare a lavorare, come fa Angela!

    Non penso che Luigi mi cederebbe metà della sua azienda, così su due piedi! rispose Michael simulando un mezzo sorriso con la bocca, tornando poi a posare gli occhi sulla sua tazza di caffè.

    Che cosa centrano i piedi del signor Luigi?

    E’ un modo di dire, Johnny!

    Basta con le parole, servono i fatti! disse impettito il piccolo.

    In che film hai sentito questa frase? chiese sorridendo Michael.

    Ma ché film! Dalle Tartarughe Ninja! Lo diceva Shredder a Rocksteady e Bebop.

    Ah… giusto… disse l’altro sorseggiando il suo caffè. Vieni qua! chiese subito dopo al piccolo Jonathan.

    Il bambino corse verso il fratello maggiore, senza pensarci due volte. L’ascendente che il fratellone aveva su di lui era invidiabile: qualsiasi genitore avrebbe sognato di averne uno simile con i propri figli.

    Michael, adottando Jonathan, si sostituì perfettamente alla figura del padre, scomparso insieme alla moglie anni prima, nel medesimo incidente. La differenza di età che li divideva gli dette la possibilità di prendersi cura del piccolo, nato poco prima della morte dei genitori. Rosy, a quel tempo la sua fidanzata, fu pienamente orgogliosa di prendere il posto della madre.

    Michael prese il piccolo in braccio a sé, dirigendosi poi in cucina, verso una nicchia scavata sul muro dove erano state montate due antine così da creare un piccolo ripostiglio da utilizzare come dispensa. Le aprì entrambe con la mano libera.

    Che cosa vedi Johnny?

    Allora… un barattolo di pomodori, tre di fagioli, tanta pasta e… quello che cos’è? chiese indicando un barattolo d’alluminio più schiacciato degli altri.

    Tonno. rispose il fratello.

    I due si guardarono per un istante negli occhi. Uno curioso di sapere dove volesse andare a parare l’altro. Mentre, l’altro, meditava su un ragionamento che un bambino di soli sette anni avrebbe potuto facilmente comprendere.

    Secondo te, Johnny, se volessi cucinare degli spaghetti col sugo al tonno, potrei farlo con questi ingredienti?

    Se torna Rosy, sì! rispose il piccolo senza mezzi termini. Il fratello in cucina era pessimo.

    Certo! disse sorridendo Michael. Parlo degli ingredienti, però! Secondo te, avrei a disposizione tutto l’occorrente?

    Il bambino tornò a guardare verso la credenza.

    Beh… gli spaghetti ci sono! disse indicando con la piccola manina un pacchetto appoggiato di lato. I pomodori pure! Poi c’è anche il tonno! rispose tutto eccitato.

    Se, invece, volessi farmi un sugo con dei fagioli?

    Ci sono pure quelli! disse guardando questa volta il barattolame più alto.

    Bene. E se, cambiando di nuovo idea, preferissi un sugo con i piselli?

    Il piccolo tornò a guardare i barattoli. Ne girò qualcuno, ma contenevano tutti solamente fagioli. Non ci sono i piselli! disse deluso facendo il broncio.

    Allora, quindi, non lo potrei fare? chiese nuovamente Michael.

    No. A meno che non li vai a comprare! rispose Jonathan sbarrando nuovamente gli occhi, come se avesse trovato un’altra fantastica soluzione.

    Non posso, perché il giorno in cui decido di cucinarmeli è di domenica! rispose tronfio Michael.

    Allora li chiedi ai vicini. Al signor Luigi…

    Accidenti a Luigi… disse Michael più a se stesso, volgendo per un istante la testa di lato. Non penso che sia un problema così grave da dover disturbare i vicini. Non credi? rispose cercando di non perdere il filo del ragionamento.

    Se lo dici tu: no. Non lo è! rispose il piccolo.

    Lo stesso vale per qualsiasi altro piatto che volessi mangiare che, però, ha bisogno degli ingredienti di cui non disponiamo. Fece una breve pausa, guardando il piccolo diritto negli occhi. Poi aggiunse: "Mi devo accontentare, Johnny! Mi devo ritenere già fortunato che abbia qualcosa nella credenza! Tu che ne dici?" chiese Michael sapendo di aver fatto centro. Conosceva bene il suo fratellino, era un bambino molto sveglio e intelligente.

    Dico che anche la pasta con i fagioli è buona, Michael!

    Infatti Johnny, anche la pasta con i fagioli è buona!

    1

    DISPERSO NEL TEMPO

    Derbyshire, Inghilterra.

    Appena varcò la soglia, per la terza volta da quando conobbe quella stanza, il luogo si presentò nuovamente tale e quale a quello in cui tutto era iniziato. Si sentì, grazie a questo, un po’ più rilassato.

    Gli mancava ancora l’ossigeno. Aveva poco prima oltrepassato claudicante il buco nero all’interno della grotta, ma anziché ritrovarsi nel medesimo luogo, questa volta era stranamente piombato in un ambiente che nulla aveva a che vedere con quello che lui conosceva.

    La stanza era scomparsa. Si era ritrovato all’esterno, in un ambiente glaciale. Secondo i suoi calcoli non sarebbe dovuto affatto accadere. Il luogo del passaggio, sia da una parte che dall’altra, sarebbe dovuto rimanere pressoché invariato: all’esterno, nel corso del tempo, poteva anche mutare, ma non quella stanza sottoterra dimenticata da Dio. Che cos’era quello strano cielo? Gli era apparso di vedere l’oceano fluttuare nella volta celeste. L’aria poi, lo stava addirittura soffocando. Per non parlare della temperatura: un gelo totale. Appena si era reso conto che qualcosa non stesse andando per il verso giusto, immediatamente aveva compiuto un energico balzo all’indietro, oltrepassando di nuovo il passaggio e ritrovandosi ancora una volta nella stanza del tempio.

    Fu così che si ritrovò accasciato al suolo. Si sfregò il dorso con le braccia, per riscaldare l’addome. Se fosse rimasto soltanto qualche istante in più dall’altra parte, avrebbe facilmente potuto cedere all’ipotermia. Non era comunque ancora detto, infatti, che nei minuti successivi non potesse risentire delle gravi conseguenze che comportava l’essere esposti a certe condizioni climatiche. Dopo il doloroso schianto a terra, avvenuto poco prima di addentrarsi nelle fondamenta del tempio, quello proprio non ci voleva.

    Rimase disteso sul pavimento per qualche minuto, gli girava fortemente la testa. Poi, dopo un po’, cercò di accumulare tutte le forze che aveva ancora in corpo per riuscire ad alzarsi.

    Ancora sofferente, alzò la torcia verso le pareti e si guardò attorno. I graffiti erano gli stessi e i calchi rovinati dal tempo riportavano gli stessi difetti. Pure i sei candelabri si trovavano dove sarebbero dovuti essere: tre sulla parete di destra e tre su quella di sinistra. Erano spenti, naturalmente.

    Il pavimento era come se lo ricordava: scivoloso, perché bagnato dall’umidità prodotta da quella falda acquifera nelle vicinanze. Si ricordò che scavare lì attorno, con la speranza di non rovinare il sito, era stato un bel grattacapo. Non solo dove si trovava adesso, ma in tutto l’intero campo l’acqua aveva rischiato di far crollare intere pareti di terra.

    Ok! disse fra sé e sé.

    Avanzò zoppicando e raggiunse la scala, iniziando subito a salire i gradini. Voleva uscire al più presto da quel posto maledetto e tornarsene a casa, per raccontare la sua incredibile storia a chi gli avrebbe creduto senza troppe esitazioni. Si augurò di cuore che le teorie che lui e il suo amico si erano fatti in precedenza fossero del tutto errate, che quel passaggio fosse soltanto diretto da una parte all’altra e basta: stesso luogo, due soli periodi differenti. Doveva comunque ammettere che, purtroppo, ritrovarsi in quello strano scenario com’era accaduto pocanzi, non confermava affatto tutto ciò che avevano ardentemente sperato.

    D’altra parte, non vedeva l’ora di sperimentare anche il contenuto della sacca che stringeva in mano: un oggetto fantastico. Qualcosa che non apparteneva al suo mondo. Usarlo, per il suo nobile scopo, richiedeva di ritornare a casa.

    Avanzando per quelle scale, però, qualcosa iniziò a non tornare nella sua testa. Prima fu una semplice sensazione, come un sesto senso; poi, man mano che saliva la gradinata, la sua memoria, unita alla logica, rivelò un particolare un po’ bizzarro.

    La luce solare, proveniente dall’esterno, sarebbe dovuta essere molto più intensa dato che, una volta arrivato in cima alla scalinata, avrebbe già dovuto trovarsi all’aperto. La buca che aveva scavato la prima volta, in teoria, doveva lasciar filtrare molti più raggi all’interno dell’antro. Invece lungo le pareti scorreva soltanto un flebile bagliore, delineato in cima a quel corridoio in salita.

    "Forse è ancora mattina presto o tarda sera fuori. Il Sole sta sorgendo o tramontando…" pensò tanto per cercare una scusa razionale.

    Una volta arrivato in cima, purtroppo le cose si rivelarono molto diverse da ciò che sperava. La stanza superiore era intatta. Non si ritrovò attorniato da un cumulo di macerie: pietre qua e là sparse ed erose dal tempo. Bensì era dentro a un piccolo edificio, del tutto intatto, di circa una quarantina di metri quadri. Si trattava di una semplice stanza vuota, lineare. Le pareti, spoglie, rivelavano enormi blocchi di pietra: mattoni molto grossi, lunghi e alti quasi quanto la lunghezza del suo braccio. Il muschio s’insinuava fra un blocco e un altro, mentre la muffa anneriva una grossa percentuale dello spazio circostante. 

    Merda! esclamò ad alta voce.

    Per fortuna, in fondo alla stanza, l’entrata era senza un portone, ma costituita solamente da un architrave e uno stipite in granito. Dalla sua posizione, a una decina di metri di distanza dalla soglia, poteva già intravedere che fuori fosse pieno giorno.

    Quella stanza non sarebbe dovuta più esistere, perlomeno in quell’ottimo stato. Sarebbe dovuta essere soltanto una discarica di pietre e terra. Il tanfo di muffa e l’umidità la facevano da padrona, quindi quel posto non doveva essere stato molto frequentato di recente. Era abbandonato da molto tempo.

    Che si fosse ritrovato in tutt’altro luogo?

    La somiglianza delle stanze di sotto, in entrambe le parti, poteva anche non significare che accadesse la stessa, identica cosa che successe all’inizio di tutto: cioè di ritrovarsi nello stesso posto. Dopotutto la realtà, come la conosceva fino a quando scese lì sotto per la prima volta, era diversa da come l’aveva sempre immaginata. Comunque potessero essere andate le cose, quel piccolo tempio non sarebbe dovuto più esistere in quell’ottimo stato di conservazione.

    S’incamminò verso l’uscita. Una volta raggiunta, ammirò il paesaggio che aveva dinanzi.

    Quel posto sembrava essere immerso nella natura da secoli. C’erano solamente grossi alberi, arbusti e foglie dappertutto. In quel luogo era la vegetazione a comandare. Un maledetto bosco.

    Dove sono capitato? Dio, dove mi trovo? disse disperato inginocchiandosi all’entrata del tempio.

    2

    JONATHAN

    Derbyshire, Inghilterra. 2016.

    Trasferitosi prima a Birmingham, dove ottenne la laurea in Storia nella celebre università del posto, Jonathan visse i successivi anni sempre in Inghilterra, nella capitale, Londra. Nonostante si fosse laureato e specializzato sempre con il massimo dei voti, aver fatto la gavetta con un archeologo dopo un altro, a trentun anni però ancora non era riuscito a trovare qualche finanziatore per un progetto di scavo tutto suo.

    Da quando era già un adolescente, Jonathan sognava di diventare un famoso archeologo. Sapeva che per la sua generazione – come forse anche per tutte le altre dai tempi di Cristoforo Colombo – l’Italia probabilmente non avrebbe mai premiato, senza un qualche tipo di raccomandazione, gli enormi sforzi che sarebbe stato disposto a compiere per raggiungere il suo sogno; così si era unito fin da subito a quella massa di fuga di cervelli dal Bel Paese, ed era scappato via. In pochi anni si era costruito un buon curriculum. Aveva lavorato nel West Sussex, al Palazzo Romano di Fishbourne; poi nei pressi del Chun Quoit, in Cornovaglia; fino a terminare gli scavi presso le grotte di Wookey Hole, nel Somerset. Nonostante la buona reputazione e le conoscenze acquisite nel tempo, i finanziatori ancora sgonfiavano i loro portafogli soltanto per i più affidabili archeologi del posto: ultrasessantenni prossimi alla pensione. Un italiano, in Inghilterra, era pur sempre uno fuori dal continente.

    Il suo ultimo gruppo di lavoro era capitanato dall’ultra coronato archeologo Seth Hills, molto conosciuto per aver a lungo lavorato sulle attività umane del Mesolitico e del Neolitico nello Yavering, nel Northumberland.

    Seth di anni ne aveva pochi più di cinquanta; trattava Jonathan come un figlio, cosa che non faceva con il resto della sua troupe, con cui preferiva mantenere un rapporto più professionale. Aveva bisogno di un tipo come Johnny: instancabile, coraggioso, ambizioso e con una singolare curiosità per tutto ciò che fosse antico e nascosto.

    Il loro ultimo appalto era presso Heath Wood, nel Derbyshire, un cimitero a tumuli di origine vichinga; unico luogo, in tutto il Regno Unito, di cui si conoscevano cremazioni di origini scandinave in territorio britannico.

    Erano a buon punto, il gruppo lavorava con un bel ritmo. Il sito era stato quasi interamente lavorato dalla squadra che li aveva preceduti; ma qua e là, ogni tanto, venivano allo scoperto nuovi e interessanti punti di scavo, che potevano nascondere dei veri e propri tesori d’informazioni storiche. Seth la definiva una spigolatura archeologica.

    Un intero cumulo di macerie, che un tempo doveva essere stato un sontuoso tempietto, non era stato considerato per niente dalla vecchia troupe poiché, date le assurde condizioni, era stato ritenuto privo di ogni fonte redditizia. I secoli avevano rovinato in maniera irrecuperabile molte opere, ne rimaneva solamente la pietra erosa e l’argilla; ma per Seth un lavoro più approfondito poteva sempre rivelare qualche scoperta valente. Il suo lavoro principale, comunque, era quello della mappatura del sito e il completamento della lavorazione di alcuni punti lasciati appositamente per la sua squadra. Grazie al suo acume, era riuscito a scavare dove gli altri non avevano neanche minimamente immaginato, trovando addirittura loculi di nuove tombe.

    Non molla vero? chiese Seth.

    Di chi stai parlando? replicò Jonathan con una mano dentro un sacchettino di M&M’S.

    Erano entrambi dentro la tenda del capo a studiare le mosse agli scavi per il giorno dopo. Se ne stavano seduti su due flaccide sdraio che a malapena sorreggevano i loro corpi, abbandonati interamente alla forza di gravità dopo un’altra pesantissima giornata di lavoro.

    Di Jane, come di chi? disse Seth. La dottoressa Jane Hughes era un’attraente donna addetta al laboratorio di chimica ed esperta nella traduzione di antichi testi. Da qualche tempo ci provava spudoratamente col ragazzo che, nonostante la non trascurabile avvenenza della donna, al momento aveva altro per la testa, che poco aveva a che vedere col dedicarsi al mondo della seduzione femminile.

    Ah, quella! E’ una grossa rottura di scatole! Non ce la faccio più!

    Devi essere gay per non cedere alle sue tentazioni! disse Seth lanciando un’occhiata all’entrata della tenda.

    Ci pensi? Se poco a poco cedessi alle sue lusinghe, non mi vedresti più, Seth! Mi costringerebbe a rimanere chiuso dentro la sua roulotte dalla mattina alla sera! E addio lavoro! Poi non è il mio tipo…

    E qual è il tuo tipo? Sono io per caso? chiese Seth lasciandosi scappare uno sbruffo della bocca.

    Potrebbe darsi! replicò scherzosamente il ragazzo. Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata.

    Calmati gli animi, dopo qualche istante, Seth chiese ancora una volta come stesse suo fratello.

    Sempre le stesse condizioni. Nel suo stato oramai non ci si potrebbe aspettare di peggio. Quindi, quando lo sento, parlo solamente di me e delle mie avventure. disse malinconico Jonathan guardando in un punto vuoto della tenda.

    Non può parlare, vero?

    No. Può muovere solamente gli occhi. Rosy, grazie all’aiuto dei fondi statali, è riuscita a comprare una macchina che può interpretare il movimento degli occhi, per digitare delle lettere in un monitor e comporre frasi con senso compiuto. Una voce elettronica le legge e le riproduce attraverso degli altoparlanti acustici. Oggi, in sostanza, quella macchina è diventata il suo accento personale.

    Che cosa triste… disse Seth scorato.

    "Parliamo ogni tanto tramite internet. A volte, solamente per sapere che quel giorno non è riuscito ad andare in bagno, ci vuole quasi un’ora. Se penso a tutto quello che mi ha insegnato nella vita, sul rispetto per gli altri e per se stessi. A tutte le illustrazioni che riusciva a inventarsi, per farmi comprendere concetti fondamentali sull’esistenza di noi esseri umani… Fece una breve pausa. E’ stato più di un padre per me: un insegnante, un vero esempio su tutto. Mi ha fatto scoprire il vero significato della parola dignità; un termine che andiamo sempre di più dimenticando. Ci vendiamo l’anima per ottenere cose di poco valore; poi, quando le otteniamo, scopriamo che tutto ciò ci è costato forse la cosa più cara che possediamo." Si fermò, capendo che non stava più semplicemente rispondendo alla domanda di Seth ma, ancora una volta, come in tutti quei momenti in cui ripensava al fratello, stava parlando con se stesso.

    Deve mancarti molto. affermò Seth.

    Una semplice conversazione con Michael, come stiamo facendo noi in questo momento, è la cosa che mi manca di più nella vita, Seth disse Jonathan con un velo di tristezza sul volto.

    Da diversi anni Michael era affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Era permanentemente costretto a letto e, se non per qualche piccolo spostamento, sulla sedia a rotelle. Non poteva muovere nessuna parte del corpo, se non gli occhi. La malattia lo aveva privato di quella gioia di vivere che un tempo lo aveva contraddistinto. Ciò che all’inizio si era presentato solamente come un fastidio sulla punta delle dita della mano destra, era diventato una lotta fra lui, il suo corpo e la vita stessa. Un combattimento che aveva quasi perso, lasciandolo privo di ogni forza, non solo fisica, ma anche emotiva. All’inizio per Michael fu molto frustrante non riuscire più a bere un semplice bicchiere d’acqua tenuto nel proprio palmo. Poi, quando la moglie fu costretta a cambiargli i pannoloni tutti i giorni, per lui tutto ciò divenne inaccettabile. Ogni cosa ha un limite, avrebbe in seguito ripetuto ogni giorno. Non si sarebbe mai aspettato di arrivare a confidare al fratello minore, a cui aveva sempre insegnato i più importanti valori della vita, che la morte sarebbe stata il regalo più bello da potergli fare.

    La mattina dopo, come sempre, tutti si ritrovarono al lavoro nel campo coprendo i rispettivi compiti. Erano udibili solamente i rumori degli attrezzi da lavoro durante le attività attorno agli scavi. Chi con lo scalpellino o una pala in mano sul terreno, chi con carte o provette in laboratorio. L’unico altro suono che si poteva ascoltare, oltre quelli della natura, che avrebbe dovuto avere il compito di unire spiritualmente il gruppo, era un cd con le opere di Beethoven che Seth metteva come sottofondo ogni mattina. Il pomeriggio, solitamente, sarebbe stato il turno di Mozart, Bach o Haydn.

    A un centinaio di metri di distanza dal resto della banda, Jonathan continuava a rimuovere per conto proprio i detriti del tempietto distrutto. Seth, dopo la proposta del ragazzo di dedicarsi personalmente a quello spazio all’apparenza scarso d’informazioni, aveva accettato senza pensarci due volte. Sapeva che Johnny aveva un sesto senso per certe cose: se quel giovanotto gli aveva chiesto di scavare proprio in quel punto, qualcosa lì sotto ci doveva pur essere.

    Era primavera per fortuna, non ancora estate. Spalare con quelle temperature non ti consumava le ossa e i muscoli. Anzi, era un’occasione per rafforzarsi un po’ e mettere qualche chilo sulle braccia e sulle gambe, anziché sulla pancia. Con due auricolari nelle orecchie e un lettore mp3 aggrappato alla cinta, il lavoro a ritmo di buon rock per Jonathan era tutta un’altra cosa. I Whitesnake erano una delle sue band inglesi preferite: secondo lui erano perfetti quando si spalava la terra. Il chitarrista poi, una vera scarica di adrenalina.

    Qui non c’è niente, Johnny! si ripeteva in continuazione. Terra e pietra. Avevano ragione quelli della Howard Institute! Perdita di temp… Si bloccò.

    In una zona abbastanza centrale del cumulo di pietre, notò uno strano dislivello dei massi, in un punto ben definito fra la roccia. In una superficie di poco più di un metro quadro, delle pietre erano leggermente più infossate delle altre circostanti. Sembrava proprio che lì sotto la terra avesse ceduto, probabilmente a causa di un foro sotterraneo, trascinandosi parte del cumulo verso il basso. Particolari del genere avevano sempre una spiegazione logica. Togliere le macerie in quel determinato punto avrebbe però richiesto l’aiuto di qualcun altro, così Jonathan decise che per quel giorno poteva anche bastare, e che l’indomani si sarebbe fatto dare una mano. Avrebbero dovuto fare attenzione al fiume sotterraneo nelle vicinanze. Gli scavi compiuti nel circondario avevano rivelato la presenza di un’estesa falda acquifera, una grossa rogna per ogni buon archeologo intento a svolgere un lavoro pulito e senza rischi di crolli.

    Si guardò attorno, asciugandosi la fronte bagnata dal sudore. Poi s’incamminò a piedi dietro il sito, raggiungendo la cima di una collinetta che dava verso la valle del fiume. Da quell’altezza si potevano ammirare delle stupendi cascate. Quando Seth si dimenticava di mettere su quella benedetta musica classica, si poteva godere del suono rilassante dell’acqua infrangersi nella magnifica e intatta distesa pianeggiante. Una gioia per le orecchie e per l’animo di ogni essere umano.

    Quella contea era meravigliosa. Dalla sua postazione Jonathan poteva osservare quanto verde ci fosse in ogni angolo. In lontananza, si poteva scorgere qualche antico edificio diroccato e addirittura un castello: quello di Chatsworth House, dimora dei duchi di Devonshire. Il castello fiancheggiava il fiume Derwent, all’interno del Peak District National Park. A pochi chilometri più in basso, si poteva vedere la cittadina di Bakewell.

    Quel paesaggio, così naturale e privo di qualsiasi cosa dall’offensivo impatto ambientale, riportò per qualche istante la mente di Jonathan nel passato. Chiuse gli occhi, assaporando quell’aria così pulita e incontaminata, ben sapendo che al giorno d’oggi una cosa del genere fosse preclusa a pochissimi luoghi nel mondo.

    Nascosto dietro a un albero, un uomo osservava parte della troupe al lavoro. Contò nove elementi in mezzo allo scavo centrale, una donna dentro il camper e un ragazzo a un paio di centinaia di metri dal resto del gruppo, che lavorava da solo in mezzo a un mucchio di sassi.

    Sarà un gioco da ragazzi. disse a bassa voce a se stesso giocherellando con lo stuzzicadenti in bocca.

    Tornò indietro, verso l’auto parcheggiata appena fuori dal boschetto, nella parte opposta. Il giorno precedente aveva visto del fumo provenire dagli stessi scavi che, qualche tempo prima, l’altra squadra che non era riuscito a lavorarsi aveva abbandonato. Aveva subito intuito che qualcun altro si fosse rifatto vivo. Chiuse il portellone dell’auto e accese il motore. Una volta tornato alla base, avrebbe riportato le informazioni ai suoi compagni, poi sarebbero tornati tutti insieme.

    3

    LA CONTEA

    Derbyshire, Inghilterra.

    Appena uscì all’aria aperta da quello spazio ammuffito dal tempo, ci fu una cosa che gli fece chiudere gli occhi per la piacevolezza: la freschezza e la leggerezza dell’aria che respirò. I suoi polmoni non si erano mai riempiti di ossigeno così pulito, incontaminato. Un piacere unico che, fino allora, non si sarebbe mai sognato di assaporare. Nulla a che vedere con l’aria all’apparenza priva di ossigeno di qualche minuto prima.

    Alzò gli occhi verso il cielo: era una giornata stupenda. In quel momento comprese il vero senso della parola celeste o del concetto di cielo azzurro, un colore che in natura non aveva mai incontrato veramente, se non sempre accompagnato da quella coltre di foschia bianca. Aria inquinata che un giorno, come ebbe modo di appurare di persona, avrebbe decretato l’inizio di grossi guai sia per l’umanità che per ogni altro essere vivente.

    Avanzò, ancora zoppicante, verso il grosso spiazzo verde che aveva di fronte, dove l’erba era ancora bassa. In lontananza si poteva intravedere una schiera di alberi che delimitavano un bosco. Attorno a sé notò piccole collinette sparse per tutto il campo, perfettamente investite da un manto erboso, divenute parte integrante della natura del posto. Erano tumuli. Tombe. Piccoli monticelli artificiali di pietra e terra posti al di sopra di una sepoltura umana.

    Erano intatti. Nessuno li aveva profanati; solamente la natura aveva cercato di riprendersi ciò che gli apparteneva di diritto, investendoli col suo colore ufficiale. Ma per occhi come i suoi, fu immediato apprendere cosa si celasse sotto di essi.

    Per un attimo gli balenò in testa l’idea di tornare indietro e attraversare di nuovo la stanza, ma la paura di avere un’altra scioccante sorpresa gli fece trasalire il cuore in gola. Doveva almeno provare a capire dove fosse capitato questa volta, così da avere una benché minima idea sul funzionamento di quel passaggio.

    Scese la piccola gradinata posta davanti al tempietto; voleva sondare meglio la zona e, se fosse stato necessario, avrebbe raggiunto il bosco in lontananza. Era rischioso: se si forse perso probabilmente non sarebbe più riuscito a ritrovare quel posto facilmente. Però doveva rischiare; dopotutto si era già perso comunque.

    Mentre avanzava, sentì in lontananza un suono che gli parve familiare: acqua. Per l’esattezza era il rumore di una cascata.

    Tornò indietro, aggirando il tempietto.

    Il retro dell’edificio era circondato da alberi che ostruivano la visuale, celando tutto ciò che fosse al di là di essi. Li attraversò e si ritrovò in cima a uno strapiombo sulla collina. Non era la prima volta che guardava quello spettacolo. I suoi occhi videro ciò che tanto sperava: la valle della contea del Derbyshire.

    Le cascate erano nello stesso punto di sempre e il fiume sottostante bagnava il medesimo alveo.

    "Non mi trovo in un altro luogo. Sono esattamente dove sarei dovuto essere. Il tempo però... l’anno è sbagliato! Sì, l’anno è sbagliato!" ripeté sconvolto più volte mentre contemplava lo stupendo scenario che aveva di fronte.

    4

    LA STANZA

    Derbyshire, Inghilterra. 2016.

    Jonathan trascorse l’intera mattinata a rimuovere detriti dal buco, su quel pavimento dissestato dal tempo. In suo soccorso era giunto Jeremy, un suo coetaneo del gruppo abbastanza forzuto.

    Jeremy aveva seguito pressoché le stesse orme di Johnny. Laureatosi presso l’università di Cambridge, aveva sempre lavorato come elemento di una squadra con a capo qualche archeologo di grossa fama.

    Grazie al contributo di quel ragazzo, Jonathan riuscì a rinvenire un foro nel pavimento, in prossimità del dislivello che il giorno prima aveva attirato la sua attenzione. Quando iniziarono a togliere i blocchi di mattoni in pietra che tappavano il buco in superficie, Jonathan ringraziò il cielo appena si accorse che solamente una singola, grossa pietra ostruisse l’entrata. Grazie a ciò, nel corso del tempo altri detriti più piccoli non erano scivolati nella stanza sottostante, lasciandola così vuota e intatta.

    Dopo quasi quattro ore di estenuante lavoro, i due, dovendosela oramai vedere solamente con quell’ultimo ostacolo, con l’aiuto di due pale e delle tavole di legno, formarono delle leve nei quattro angoli nevralgici della roccia. Dopo vari tentativi e qualche imprecazione, alla fine riuscirono a sollevare la grossa pietra, facendola poi ruzzolare da un lato.

    Accidenti a te, Johnny! Domani dovrò prendermi una giornata intera di riposo. L’acido lattico alle gambe e alle braccia mi divorerà! disse ironicamente Jeremy piegandosi a terra per riprendere fiato.

    Immagino che ci faremo compagnia! rispose ansimando l’altro lasciandosi cadere sul pavimento.

    Poco dopo entrambi si rimisero subito al lavoro, affacciandosi curiosi nel buco.

    Guarda, c’è una scalinata che scende fino in fondo! disse Jeremy puntando la sua torcia nel foro.

    Stretta e ripida. aggiunse Jonathan.

    Non dirmi che vuoi scendere adesso? Sono le otto, tra poco sarà buio pesto!

    La luce solare ancora penetra fino il fondo, guarda… rispose Jonathan impugnando la torcia dell’altro e spegnendola.

    E’ troppo rischioso adesso, Johnny! Poi dobbiamo dirlo prima a Seth, lo sai. Sono le regole. disse imperativo Jeremy riafferrando stizzito l’oggetto dalle mani del compagno.

    Le conosco bene le regole. Seth mi ha dato piena gestione di questo edificio. O meglio… di ciò che ne rimane! disse guardandosi attorno.

    Fai come vuoi, ma io ritorno al campo. Per me faresti meglio ad aspettare domani. Casomai scendo pure io a dare un’occhiata!

    Vai pure. Sei stato di grande aiuto. Sappi che ti devo un grosso favore! Scendo soltanto fino alla fine dei gradini, poi risalgo subito in superficie per fare rapporto al grande capo. disse guardando Jeremy diritto negli occhi.

    Vai tranquillo, non dirò niente giù al campo. Stai attento però! Non fare stupidaggini, altrimenti ci fai saltare la cena! disse il compagno congedandosi con un gesto della mano.

    Jonathan si diresse verso la cassetta degli attrezzi e ne estrasse una torcia elettrica. La accese e notò che le pile erano quasi scariche. Diede un paio di colpetti, ma niente: non avrebbe retto al lungo. Jeremy era già distante e gli seccava farlo tornare indietro per chiedergli nuovamente in prestito la sua. La curiosità lo stava divorando. Pensò comunque che, se non avesse trovato nulla di veramente interessante, sarebbe subito risalito tornando nella sua tenda. Era stanco morto pure lui.

    A circa duecento metri dal campo, fermo in mezzo all’unica strada battuta che conduceva allo scavo principale, un furgone beige stava sostando col motore acceso. Gli uomini all’interno discutevano su come avrebbero dovuto muoversi. Il guidatore spense il motore. Gli sportelli posteriori si aprirono e ne uscirono tre uomini. Due avevano in mano dei fucili d’assalto con dei silenziatori montati in canna. Il terzo aveva solamente una pistola, sempre silenziata, riposta sulla cinta. Quest’ultimo impartì ordini specifici agli altri due, poi raggiunse l’uomo in attesa alla guida.

    Al nostro segnale riaccendi il motore e raggiungici al campo. Ci metteremo al massimo dieci minuti. Dovrebbero essersi già riuniti tutti quanti al centro del campo per iniziare a cenare.

    Ok capo. Aspetto. rispose l’altro con gli occhi fissi in direzione del campo.

    I due muniti di fucili erano già partiti alla volta dello scavo. Gli alberi avrebbero coperto la loro entrata a sorpresa.

    Jeremy era di ritorno al campo principale. Stava scendendo dalla collina stringendo in mano una bottiglia di Gatorade mezza asciutta. Nella sua testa stava maledicendo Johnny e le sue assurde idee. Gli facevano così tanto male le braccia, da dolergli il bicipite ogni volta che sollevava la bottiglia per buttare giù un sorso. In lontananza scorse del fumo salire dal campo: molto probabilmente Agustin, il cuoco della squadra, stava cucinando le costolette di maiale che lui stesso, dopo pranzo, gli aveva visto condire per la sera.

    Fantastico. Niente di meglio che… Il ragazzo non riuscì a terminare la frase pronunciata ad alta voce, che due proiettili, uno diretto al cuore e un secondo alla testa, lo fecero cadere in ginocchio e accasciare a terra.

    Dove sono quei due maledetti di Jonathan e Jeremy? chiese Agustin dal barbecue, dando le spalle al resto del gruppo che si era già radunato attorno al fuoco.

    Che te ne importa? Mangeranno dopo! rispose cinico Greg, un altro membro della squadra.

    Possiamo anche aspettarli altri cinque minuti senza problemi. lo rimproverò Jane.

    Io non aspetto nessuno! ribatté l’altro addentando la prima costoletta.

    Seth era ancora all’interno della tenda, chino sul suo notebook: stava finendo di completare una parte dello schema sulla mappa del sito.

    Tutti, esclusi Seth, Jonathan e Jeremy ancora assenti, iniziarono a mangiare. Il primo a cadere faccia avanti fu Greg. Jane, che gli stava di fianco, quando si accorse del buco sulla fronte del vicino di tavola, non fece in tempo a gridare che un altro proiettile la centrò in un occhio.

    Gli altri non ebbero mai il tempo di rendersi conto che cosa stesse accadendo, fino a quando, chi colpito alla testa o al cuore da tergo, iniziarono a stramazzare a terra uno dopo l’altro.

    Una ragazza, che prima di essere colpita stava mangiando in piedi, cadde direttamente nel falò al centro dello spiazzo. Era già morta quando il suo corpo iniziò a prendere fuoco. Agustin fu atterrato da ben tre colpi alla schiena; anche lui non ebbe modo di rendersi conto di nulla. Solamente gli ultimi due, un ragazzo e una ragazza neolaureati riuscirono a elaborare mentalmente di essere sotto un attacco a fuoco. Provarono ad alzarsi dalle loro postazioni per fuggire, ma fu del tutto inutile: entrambi furono ammazzati, colpiti da vari proiettili all’addome.

    Seth sentì degli strani rumori provenire da fuori. Non riuscendo a capire che cosa stesse succedendo, decise di dare un’occhiata. Una volta in piedi, udì le brevi grida lanciate dagli ultimi due ragazzi che avevano tentato di scappare. Affrettò il passo e spalancò la tenda, ritrovandosi di fronte un uomo vestito di nero, con tanto di passamontagna in testa. Era piegato in ginocchio e teneva una canna di fucile puntata verso di lui.

    Cosa diavolo…?

    L’uomo, che lo stava aspettando, gli piantò un singolo colpo in testa.

    Al campo furono tutti uccisi nel giro di nemmeno due minuti. Un lavoro svolto da professionisti, probabilmente da ex militari.

    Poco dopo sopraggiunse sul posto il loro capo, che fino allora aveva seguito lo sterminio rimanendosene nascosto dietro a un albero con una sigaretta in bocca. Lo stesso luogo dove il giorno precedente aveva studiato bene il colpo.

    "E’ rimasto solamente lo sfigato che lavora da solo, in prossimità della collina. Lassù! disse agli altri due con un cenno della testa in direzione del tempietto dove stava lavorando Jonathan. Erik, vieni con me. Frank, assicurati che siano tutti morti." disse perentorio il capo. I due si avviarono verso la collina, in cerca di Jonathan.

    Frank iniziò a camminare fra i cadaveri, per accertarsi che fossero tutti deceduti. Per precauzione sparò un ennesimo colpo alla testa di ognuno. Quando si avvicinò ad Agustin, vide che il giovane respirava affannosamente e aveva gli occhi sbarrati: sembrava si stesse ancora domandando che cosa gli fosse successo. Un colpo in testa zittì per sempre la sua curiosità.

    Jonathan iniziò la sua discesa verso l’ignoto. Quante volte, prima di allora, lo aveva fatto. In pochissimi momenti però, forse un paio, era rimasto veramente colpito da qualche scoperta. Aveva sempre svolto lavori in siti già scoperti da tempo, dove tutta l’eccitazione era oramai stata consumata da altri prima di lui.

    I gradini levigati erano bagnati a causa dell’umidità. La notevole coltre di muschio li rendeva estremamente scivolosi. Doveva stare attento. Gli parve di sentire un rumore, come se qualcosa gli fosse appena caduto di dosso: si tastò, non riuscendo però a capire di cosa si trattasse. La voglia di andare avanti lo spinse a lasciar perdere di cercare e a proseguire la discesa. Arrivato fino in fondo, si accorse che la flebile luce della torcia non lo avrebbe aiutato ancora per molto.

    Si ritrovò in un’ampia stanza, di circa quaranta metri quadrati. Andò verso una parete laterale notando che su di essa fossero impressi degli strani graffiti, tutti disegnati sulla stessa linea orizzontale, all’altezza delle spalle: una sorta di greca. Erano dei disegni geometrici, molti dei quali cancellati dal tempo e dall’umidità della superficie, che ne aveva lavato via il colorante con cui erano stati calcati.

    Jane, ho un bel lavoretto per te! Purtroppo non è quello che pensi… disse fra sé ridacchiando, mentre con l’indice scorreva quei tratti sul muro. Jane era l’esperta della squadra nella decifrazione, nello studio dei graffiti e della scrittura antica. Jonathan era un po’ claudicante in quella materia, spesso lo annoiava. Era molto più propenso a sapere subito che cosa potessero significare, delegando quel lavoro a gente più competente di lui.

    Proseguì la sua esplorazione illuminando la parete poco più in alto. Vide tre porta torce molto antichi, distanziati di almeno un paio di metri uno dall’altro. Non erano molto in alto, infatti riuscì a sfiorarne uno con la mano, assaporandone la scivolosità della superficie madida. Sopra erano ancora presenti i paletti di legno. Ne prese uno. Era abbastanza umido, non avrebbe preso fuoco facilmente. Raccolse una pietra da terra e lo levigò sulla punta, togliendone lo strato superiore bagnato. In seguito prese un accendino antivento, dal taschino del suo gilet da lavoro, cercando di incendiarne l’estremità superiore. Con un po’ di pazienza riuscì ad accenderla. La ripose sulla culla, ripetendo la stessa azione con gli altri due candelabri.

    Quando la stanza fu illuminata a sufficienza, vide che nella parete opposta erano riportati gli stessi graffiti geometrici. Erano inoltre installati altri tre candelabri a muro. Le superfici di entrambe le pareti apparivano quindi identiche: una il riflesso dell’altra.

    La simmetria della stanza sorprese il ragazzo: si trovava in una caverna sotterranea, risalente almeno al periodo vichingo, o addirittura antecedente, ma la levigatura dei blocchi di pietra alle pareti, i bordi perfettamente squadrati, così come la perfetta collocazione dei candelabri e la sorprendente geometria di quei disegni, donavano sentimenti contrastanti a chi si guardasse attorno.

    Avrebbe voluto accendere pure le altre tre torce, per scoprire altri particolari, ma non aveva tempo.

    Devo sbrigarmi, altrimenti i ragazzi al campo si preoccuperanno… pensò.

    La stanza era illuminata a sufficienza da potergli permettere di spegnere la propria torcia elettrica, oramai quasi del tutto inutile.

    Si avviò in fondo alla stanza, ritrovandosi davanti l’entrata di una grotta: una semicirconferenza di circa sei metri di diametro. La cosa che lo lasciò subito perplesso fu l’inspiegabile motivo che lasciava quell’ingresso completamente all’oscuro. In una qualsiasi normale apertura verso una stanza adiacente, la luce avrebbe dovuto almeno in parte illuminare anche il suo interno, fino a dileguarsi del tutto nelle zone più in profondità. Invece, in questo caso, tutto ciò non accadeva: quel buco rimaneva perfettamente buio. Sembrava che la luce non avesse alcun effetto penetrante. Era impossibile, quindi, vedere che cosa ci fosse dall’altra parte: come se l’entrata di quella grotta fosse stata serrata da una superficie perfettamente piatta, colorata di nero; un pannello nero intenso, che in realtà però non esisteva.

    Un altro particolare che attirò la sua attenzione furono i contorni di quell’accesso: sembravano essere rifiniti di uno strano ornamento regolare: una sorta di cornice, senza ombra di dubbio di natura artificiale. L’erosione non avrebbe mai lavorato la pietra in quella maniera.

    Che diamine…? disse Jonathan non riuscendo a trattenere lo stupore.

    Si avvicinò all’entrata di quella grotta. Al diavolo Seth e la cena: doveva assolutamente capire che cosa fosse quello scherzo della natura.

    La grotta

    5

    IN CERCA DI AIUTO

    Derbyshire, Inghilterra.

    Tornò indietro. Gettò un’ultima occhiata verso il tempietto, come se così facendo avesse modo di salvare nella propria memoria la posizione esatta di quel punto, qualora fosse stato necessario tornare lì. Cosa molto più che probabile.

    Quando era sulla collina, aveva avuto modo di constatare che la cittadina di Bakewell fosse ancora presente in lontananza. Poco più in alto si stagliava sopraelevato il castello di Chatsworth House, anche se ai suoi occhi i contorni erano apparsi diversi da come se li ricordava.

    Si diresse così verso il bosco in lontananza. Se la memoria non lo tradiva, era l’unico modo di scendere la collina per raggiungere la valle in maniera diretta, senza girargli attorno.

    Merda! Merda! continuava a ripetersi senza fine, preso dal completo sconforto.

    Da una parte, scoprire in quale anno fosse capitato lo divorava dalla curiosità. Infatti, mai e poi mai avrebbe pensato di poter interferire con oggetti che lui, al suo tempo, avrebbe classificato solamente come dei reperti storici. Cose antiche, che in realtà tali ancora non lo fossero divenute. Parlare con qualcuno del posto, ascoltando il suo idioma e osservandone il comportamento, studiarne l’abbigliamento, sapendo di non avere davanti degli stupidi attori, in un certo qual modo tutto ciò lo affascinava, doveva ammetterlo.

    Decise che avrebbe girovagato un po’ lì attorno. Sperava di trovare qualcuno con cui scambiare un paio di domande e alla fine, casomai, sarebbe tornato indietro anche in giornata. Era fondamentale, infatti, scoprire in quale anno si fosse ritrovato. Così facendo, avrebbe potuto avere una mezza conferma delle idee che si era fatto riguardo a quel passaggio temporale. A quel punto della sua singolare avventura era indispensabile scoprirlo, per tornare a casa una volta per tutte.

    Guardò la posizione del Sole. Doveva essere tarda mattinata: forse le dieci o al massimo le undici.

    Strinse forte la sacca che aveva in mano. Il suo contenuto avrebbe potuto essere di grande aiuto in un momento come quello: vivere anche una sola giornata in un’epoca diversa, in un luogo di cui non si conosceva quasi nulla, poteva nascondere seri pericoli dietro ogni angolo.

    La prima volta che aveva provato a utilizzare l’oggetto contenuto nella borsa era stato molto male. Una condizione pietosa, anche se era stato informato in precedenza quali sarebbero stati gli effetti della fusione. Farlo lì, alla luce del Sole, senza un minimo di protezione e assistenza, sembrava impensabile. Le condizioni dovevano essere adeguate. Usare quella fantastica invenzione dell’uomo gli avrebbe di sicuro garantito l’immunità fisica, più che necessaria in un mondo irto di pericoli, in un universo che non gli apparteneva.

    S’inoltrò nel bosco.

    Avrebbe dovuto fare attenzione alla fauna del posto: gli orsi, per esempio, proliferavano in quelle terre da sempre. Raccolse uno dei tanti pezzi di roccia sparsi per la radura. Durante il tragitto fece delle incisioni a forma di X in alcuni tronchi di albero seguendo un criterio ben logico, uno schema che lo avrebbe guidato quando avrebbe deciso di tornare alla grotta. Sperava ardentemente che tale ritorno non si rivelasse disperato e funesto come lo era stato poco prima: cioè correndo, scappando, rischiando la vita per un soffio, sia da una parte che dall’altra.

    Camminò per circa un’ora, reggendosi il braccio dolorante con l’altro e facendo numerose soste per riposarsi. Alla fine, dopo numerosi giri a vuoto, riuscì finalmente a uscire da quel labirinto di alberi. Intanto - oltre ad aver lasciato segni dappertutto – aveva cercato di memorizzare rocce e tronchi atipici. Il bosco si era rivelato molto più fitto di vegetazione ed esteso di come se lo ricordava.

    Una volta fuori, scorse finalmente una casa in lontananza. Sembrava essere una fattoria.

    Era restio a farsi vivo con chiunque la occupasse. Molte furono le domande e i dubbi che, in quel momento, affollarono la sua mente. Non era solamente uno straniero, particolare che nella storia, quanto nell’era moderna, poteva creare non poche complicazioni: era un alieno vero e proprio, sotto quasi ogni aspetto.

    Alla fine, comunque, si fece coraggio. Aveva bisogno di aiuto e di riposare in un luogo riparato prima che calasse la notte. Così si decise e s’incamminò zoppicante verso quella casa.

    6

    L’ALTRA PARTE

    Derbyshire, Inghilterra. 2016.

    Si bloccò davanti quella grande entrata. La distanza che lo separava dalla superficie nera era solamente di qualche centimetro. Allungò una mano per sfiorarla, rimanendo subito di sasso.

    Metà del braccio scomparve dalla sua vista.

    Sembrava come se lo avesse infilato fra le due tende di un singolare sipario, facendo sì che il suo arto scomparisse del tutto dall’altra parte.

    Ritrasse subito la mano, emettendo un nuovo verso di stupore con la bocca. Incredibile! disse. Non aveva mai visto una cosa del genere.

    Ci riprovò un’altra volta, ritrovandosi davanti lo stesso spettacolo. Non percepì nulla sulla propria pelle, alcuna sensazione. L’avambraccio scompariva al di là di quella parete oscura, ma non accadeva nient’altro. La superficie rimaneva muta e immobile.

    Accidenti! esclamò nuovamente facendo un paio di passi all’indietro.

    I due uomini raggiunsero le rovine sulla collina.

    L’ultimo del gruppo avrebbe dovuto trovarsi qui. Un ragazzo sulla trentina, capelli castani, sul metro e ottanta. disse il capo. I due avevano provato a coglierlo di sorpresa ma, una volta arrivati in cima, nascosti fra la vegetazione, non avevano più intravisto nessuno.

    Non vedo nessuno nei paraggi... disse Erik.

    Il capo si fece un giro sullo spiazzo, fra i detriti di roccia e terra. Deve essersi calato lì dentro! disse indicando il buco sul pavimento.

    Si avvicinarono entrambi alla fossa. Col fucile in mano Erik fece per scendere le scale, ma il capo lo bloccò afferrandolo per una spalla. Aspetta! gli disse. E’ quasi notte e, salvo che tu non abbia portato una torcia con te, penso che non vedrai un accidente là sotto! Inoltre non possiamo escludere che il ragazzo abbia visto tutto, e che ora se ne stia nascosto là sotto pronto a tenderci un’imboscata.

    Pensi che sia così furbo? È probabile che non ci sia nessuno là sotto! disse beffardo l’altro alzando il fucile.

    Guarda! disse il capo indicando la scalinata. Sopra il quinto gradino c’era una specie di lettore mp3 con tanto di altoparlanti. Il piccolo oggetto era ancora acceso ed emetteva un flebile suono di musica chiassosa. Deve essergli caduto di dosso mentre scendeva le scale. Fece una pausa. Osserva: delle impronte fresche! Prima erano in due a scavare; uno lo avete fatto fuori a metà strada fra qui e il campo, mentre le impronte in discesa appartengono certamente a quell’altro. Io dico che è là sotto!

    Appena il capo terminò la frase, i due sentirono una voce provenire dalla stanza sotterranea. La struttura chiusa della camera doveva amplificare notevolmente i rumori prodotti al suo interno. Non capirono bene che cosa avesse detto di preciso il ragazzo, ma questo bastò loro per avere conferma del fatto che Jonathan si trovasse proprio dentro quel buco.

    Che cosa facciamo allora? Scendo a farlo fuori? chiese Erik.

    Il capo si guardò nuovamente attorno, poi indicò una grossa pietra poco distante della buca. Facciamogli uno scherzetto… disse avvicinandosi a essa.

    Fecero rotolare la grossa pietra sul pavimento. Una volta posizionata vicino alla

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