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L ordine: Una missione per Gabriel Allon
L ordine: Una missione per Gabriel Allon
L ordine: Una missione per Gabriel Allon
E-book476 pagine12 ore

L ordine: Una missione per Gabriel Allon

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Info su questo ebook

Un thriller pieno di speranza, ideale per questi tempi bui... Si merita il primo posto nella classifica dei bestseller.” - Booklist

Intrigante e coinvolgente. Un thriller dallo stile efficace e dal ritmo serrato.” - Kirkus

Una travolgente avventura italiana per Gabriel Allon.

Quando Papa Paolo VII muore inaspettatamente, Gabriel Allon, che si trova in vacanza a Venezia, viene convocato a Roma dal segretario personale del pontefice, l’arcivescovo Luigi Donati. Ai media è stato comunicato che il Santo Padre è morto d’infarto, ma Donati ha due ottime ragioni per sospettare che in realtà sia stato assassinato: la guardia svizzera in servizio davanti agli appartamenti papali quella sera è scomparsa, e così pure la lettera che il pontefice stava scrivendo. Una lettera indirizzata al suo vecchio amico Gabriel…

Mentre facevo una ricerca nell’Archivio segreto vaticano, mi sono imbattuto in un libro davvero straordinario…

Si tratta di un misterioso vangelo apocrifo che la Chiesa ha sempre tenuto gelosamente nascosto, un testo che mette in discussione l’accuratezza con cui il Nuovo Testamento tratta uno dei più grandi prodigi della Storia. Per questo motivo l’oscuro e potente Ordine di Sant’Elena è disposto a tutto pur di evitare che il libro arrivi nelle mani di Allon. Non solo: sta anche complottando per impadronirsi del papato. Ed è solo l’inizio. Mentre i cardinali si radunano a Roma per il conclave, Gabriel Allon lotta contro il tempo per raccogliere le prove della cospirazione e ritrovare il volume che potrebbe mettere fine a duemila anni di odio sanguinario.
La sua sarà una missione all’ultimo respiro che lo porterà da Firenze a un monastero di Assisi, e poi ai sotterranei dell’Archivio segreto in Vaticano e alla Cappella Sistina, dove assisterà a un evento a cui nessun laico è mai stato ammesso prima di lui: la sacra consegna delle chiavi di San Pietro al nuovo papa.

Incalzante e scritto con la consueta eleganza, L’Ordine è un romanzo straordinario che parla di amicizia e di fede in un mondo pericoloso in cui non ci sono più certezze. E ancora una volta dimostra che quando si tratta di spionaggio e intrighi internazionali Daniel Silva è il miglior autore di questa generazione.

LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2021
ISBN9788830525740
L ordine: Una missione per Gabriel Allon
Autore

Daniel Silva

Pluripremiato autore regolarmente ai primi posti nella New York Times Bestsellers List, ha raggiunto il successo grazie alla fortunata serie che ha come protagonista Gabriel Allon: i suoi romanzi, tra cui La spia inglese, La vedova nera, La casa delle spie, L’altra donna, La ragazza nuova, L’Ordine, La violoncellista e Ritratto di donna sconosciuta pubblicati da HarperCollins, sono entrati nelle classifiche dei libri più venduti nel mondo e sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Vive in Florida con la moglie, la giornalista televisiva Jamie Gangel, e i due figli Lily e Nicholas.

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    Anteprima del libro

    L ordine - Daniel Silva

    1

    Roma

    La telefonata giunse alle 23.42. Luigi Donati esitò prima di rispondere. Il numero apparso sullo schermo del cellulare era quello di Albanese. C’era solo un motivo per chiamarlo a un’ora simile.

    «Dove si trova, Eccellenza?»

    «Fuori dalle mura.»

    «Ah, già. È giovedì, vero?»

    «Problemi?»

    «Meglio non dire troppo al telefono. Non si sa mai chi può essere in ascolto.»

    La notte in cui Donati uscì era umida e fredda. Indossava un clergyman nero con tanto di colletto alla romana, non l’abito talare dalle guarnizioni porpora con tanto di pellegrina che portava in ufficio, come gli uomini del suo rango ecclesiastico chiamavano il Palazzo Apostolico. Donati, arcivescovo, fungeva da segretario personale di Sua Santità, Papa Paolo VII. Alto e slanciato, con una folta chioma scura e lineamenti da stella del cinema, aveva da poco festeggiato il sessantatreesimo compleanno. L’età non aveva fatto nulla per sminuire la sua avvenenza. Vanity Fair di recente lo aveva ribattezzato il voluttuoso Luigi, e l’articolo gli aveva provocato infiniti imbarazzi nell’ambito maldicente della Curia. Eppure, data la meritatissima reputazione di spietatezza di Donati, nessuno aveva osato parlargliene di persona. Nessuno a eccezione del Santo Padre, che lo aveva canzonato ferocemente.

    Meglio non dire troppo al telefono…

    Da un anno o più, dal primo attacco cardiaco di modesta entità che aveva tenuto nascosto al resto del mondo e persino a buona parte della Curia, Donati si preparava a quel momento. Ma perché proprio quella sera?

    La strada era stranamente quieta. Una quiete mortale, pensò Donati d’un tratto. Era un viale fiancheggiato da palazzi, a pochi passi da via Veneto, il tipo di luogo in cui un prete raramente mette piede, a maggior ragione un prete istruito e addestrato dalla Compagnia di Gesù, l’ordine intellettualmente rigoroso e, talvolta, ribelle a cui Donati apparteneva. La sua automobile ufficiale del Vaticano, con la targa SCV, attendeva accanto al cordolo. L’autista faceva parte del Corpo della gendarmeria, la forza di polizia vaticana di centotrenta unità. Si diresse a ovest, per le strade di Roma, senza fretta.

    Lui non sa…

    Donati passò in rassegna sul cellulare i siti dei principali quotidiani italiani. Erano all’oscuro di tutto. Proprio come i loro omologhi di Londra e New York.

    «Accenda la radio, Gianni.»

    «Musica, Eccellenza?»

    «Le notizie, grazie.»

    Altre ciance di Sebastiani, l’ennesimo sproloquio sul fatto che gli immigrati arabi e africani stavano distruggendo il paese, come se gli italiani non fossero più che capaci di incasinarsi la vita da soli. Sebastiani assillava il Vaticano da mesi per ottenere un’udienza privata con il Santo Padre. Donati, non senza una certa soddisfazione, aveva rifiutato di concedergliela.

    «Basta così, Gianni.»

    La radio provvidenzialmente si zittì. Donati sbirciò dal finestrino della lussuosa berlina di fabbricazione tedesca. Non era così che avrebbe dovuto viaggiare un soldato di Cristo. Ipotizzò che quello sarebbe stato il suo ultimo spostamento romano a bordo di una limousine con tanto di autista. Da quasi due decenni svolgeva in sostanza funzioni di capo di stato maggiore della Chiesa cattolica romana. Era stato un periodo tumultuoso – un attacco terroristico ai danni della basilica di San Pietro, uno scandalo riguardante manufatti e Musei Vaticani, il flagello degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti – eppure Donati si era goduto ogni istante. Ora, in un batter d’occhio, era tutto finito. Era tornato a essere un semplice prete, e non si era mai sentito tanto solo.

    L’automobile attraversò il Tevere e svoltò per imboccare via della Conciliazione, l’ampio stradone ricavato da Mussolini tra i bassifondi di Roma. La cupola illuminata a giorno della basilica, riportata al suo antico splendore, si profilò in lontananza. Seguirono la curva del colonnato del Bernini fino a Porta Sant’Anna, dove la guardia svizzera li fece entrare con un gesto della mano nel territorio della città-stato. Era in uniforme da lavoro: pantaloni e casacca blu con colletto bianco da scolaretto, calzettoni al ginocchio, basco nero, mantella per proteggersi dal gelo serale. Aveva gli occhi asciutti, il viso sereno.

    Lui non sa…

    L’automobile risalì lentamente via Sant’Anna, superando la caserma della Guardia svizzera, la chiesa di Sant’Anna, la Tipografia e la Banca Vaticana, per poi fermarsi accanto a un’arcata da cui si accedeva al Cortile di San Damaso. Donati si incamminò sull’acciottolato, entrò nel più importante ascensore della cristianità e salì al terzo piano del Palazzo Apostolico. Si affrettò lungo la loggia, con una vetrata su un lato e un affresco sull’altro. Svoltò a sinistra e giunse agli appartamenti papali.

    Un’altra guardia svizzera, stavolta in uniforme di gala, stazionava dritta come un fuso davanti alla porta. Donati la superò senza dire una parola ed entrò. Giovedì, stava pensando. Perché proprio di giovedì?

    Diciotto anni, pensò Donati mentre osservava lo studio privato del Santo Padre, e nulla è cambiato. Solo il telefono. Era finalmente riuscito a convincere il Santo Padre a cambiare con un apparecchio moderno multilinea l’antiquato congegno a disco di Wojtyła. Per il resto, la stanza era esattamente come l’aveva lasciata il polacco. Lo stesso austero scrittoio di legno. La stessa poltrona beige. Lo stesso tappeto orientale consunto. Lo stesso orologio d’oro e lo stesso crocifisso. Persino il tampone di carta assorbente e la penna erano appartenuti a Wojtyła il Grande. Malgrado le iniziali promesse del suo papato – promesse di una Chiesa più garbata, meno repressiva – Pietro Lucchesi non era mai del tutto sfuggito all’ombra lunga del predecessore.

    Donati, istintivamente, controllò l’orologio da polso: 00.07. Quella sera, il Santo Padre si era ritirato nello studio alle otto e mezzo per novanta minuti di lettura e scrittura. Di norma, Donati restava al fianco del suo padrone oppure nel suo ufficio, lungo il corridoio. Ma, siccome era un giovedì, l’unica sera libera della settimana, si era trattenuto solo fino alle nove.

    Mi faccia un favore, prima di andarsene, Luigi…

    Lucchesi aveva chiesto a Donati di aprire le pesanti tende che coprivano la finestra dello studio. Era la stessa finestra da cui il Santo Padre recitava l’Angelus ogni domenica a mezzogiorno. Donati aveva assecondato il suo volere. Aveva addirittura aperto le imposte per assicurare a Sua Santità una vista su piazza San Pietro mentre sgobbava sulle scartoffie curiali. Ora le tende erano state tirate per bene. Donati le scostò; anche le imposte erano chiuse.

    La scrivania era ordinata, non c’era la solita confusione di Lucchesi. C’era una tazza di tè semivuota, con il cucchiaino sul piattino, che non si trovava lì quando Donati si era congedato. Diverse cartelline chiare che contenevano dei documenti erano impilate con cura sotto la vecchia lampada a braccio. Una relazione dell’arcidiocesi di Philadelphia sulle ricadute finanziarie dello scandalo degli abusi sessuali. Osservazioni in vista dell’udienza generale del mercoledì seguente. La prima stesura di un’omelia in previsione dell’imminente visita papale in Brasile. Appunti per un’enciclica sul tema dell’immigrazione che avrebbe certamente irritato Sebastiani e i suoi compagni di strada dell’estrema destra italiana.

    Tuttavia, mancava una cosa.

    Si assicurerà che lui la riceva, vero, Luigi?

    Donati controllò il cestino. Era vuoto. Non c’era nemmeno un foglietto di carta.

    «Cerca qualcosa, eccellenza?»

    Donati alzò gli occhi e vide il cardinale Domenico Albanese, che lo stava scrutando dalla soglia. Albanese era calabrese di nascita e una creatura della Curia di professione. Deteneva diverse posizioni all’interno della Santa Sede, tra cui quella di presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e di archivista e bibliotecario della Santa Chiesa romana. Nulla di tutto ciò, però, spiegava la sua presenza negli appartamenti papali sette minuti dopo la mezzanotte. Domenico Albanese era il camerlengo. Solo a lui spettava rilasciare la dichiarazione formale che il soglio di San Pietro era vacante.

    «Lui dov’è?» chiese Donati.

    «Nel regno dei cieli» replicò con voce piatta il cardinale.

    «E il corpo?»

    Se Albanese non avesse udito la sacra chiamata, forse si sarebbe guadagnato da vivere spostando blocchi di marmo o gettando carcasse in un mattatoio calabrese. Donati lo seguì in un breve corridoio e, da lì, in camera da letto. Altri tre cardinali attendevano nella penombra: Marcel Gaubert, José Maria Navarro e Angelo Francona. Gaubert era il segretario di stato, di fatto il primo ministro e il capo della diplomazia dello stato più piccolo del mondo. Navarro era il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il guardiano dell’ortodossia cattolica, il difensore contro l’eresia. Francona, il più vecchio dei tre, era il decano del collegio cardinalizio e in quanto tale avrebbe presieduto il conclave seguente.

    Fu Navarro, uno spagnolo di nobile lignaggio, a rivolgersi per primo a Donati. Per quanto abitasse e lavorasse a Roma da quasi un quarto di secolo, parlava ancora italiano con un forte accento castigliano. «Luigi, so quando debba essere doloroso per lei. Siamo stati fedeli servitori del Santo Padre, ma lei era quello che amava maggiormente.»

    Il cardinale Gaubert, un magro parigino dai tratti felini, annuì con forza di fronte alla banalità curiale espressa dallo spagnolo, così come fecero i tre laici che stazionavano nell’oscurità ai margini della stanza: il dottor Octavio Gallo, il medico personale del Santo Padre; Lorenzo Vitale, capo del Corpo della gendarmeria; e il colonnello Alois Metzler, comandante della Guardia svizzera pontificia. Donati, a quanto pareva, era stato l’ultimo ad arrivare. Avrebbe dovuto essere lui, il segretario personale, non il camerlengo, a convocare i principi della Chiesa al capezzale del papa morto. D’un tratto fu assalito dai sensi di colpa.

    Ma, quando Donati posò gli occhi sulla figura distesa sul letto, i suoi sensi di colpa cedettero il posto a un dolore incontenibile. Lucchesi indossava ancora la tonaca bianca, ma gli erano state sfilate le pantofole e la berretta non era in vista. Qualcuno gli aveva sistemato le mani sul petto. Stringevano il suo rosario. Gli occhi erano chiusi, la mandibola floscia, ma non c’erano tracce di dolore sul suo volto, nulla che lasciasse intendere che aveva sofferto. Anzi, Donati non sarebbe stato sorpreso se Sua Santità si fosse improvvisamente svegliato e avesse chiesto com’era andata la sua serata.

    Indossava ancora la tonaca bianca…

    Donati aveva gestito la tabella di marcia del Santo Padre fin dal primo giorno del suo pontificato. La routine serale cambiava di rado. Cena dalle sette alle otto e mezzo. Lavoro d’ufficio nello studio dalle otto e mezzo alle dieci, seguito da quindici minuti di preghiera e riflessione nella sua cappella privata. Solitamente, era a letto alle dieci e mezzo, in genere con un romanzo giallo inglese, la sua passione proibita. Una notte di luna per l’ispettore Dalgliesh di P.D. James giaceva sul comodino sotto i suoi occhiali da lettura. Donati lo aprì alla pagina indicata dal segnalibro.

    Tre quarti d’ora più tardi, Rickards era di nuovo sulla scena del delitto…

    Donati chiuse il libro. Il sommo pontefice, calcolò, era morto da quasi due ore, forse qualcosa di più. Con calma, chiese: «Chi è stato a trovarlo? Non una delle suore di servizio, spero».

    «Sono stato io» replicò il cardinal Albanese.

    «Dov’era?»

    «Sua Santità ha lasciato questo mondo nella cappella. L’ho scoperto pochi minuti dopo le dieci. Quanto all’ora esatta della sua dipartita…» Il calabrese scrollò le pesanti spalle. «Non sono in grado di dirlo, Eccellenza.»

    «Perché non sono stato contattato immediatamente?»

    «L’ho cercata ovunque.»

    «Avrebbe dovuto chiamarmi sul cellulare.»

    «L’ho fatto. Più volte, in realtà. Non ho avuto risposta.»

    Il camerlengo, pensò Donati, mentiva. «E lei cosa faceva nella cappella, Eminenza?»

    «Comincia a sembrare un interrogatorio.» Gli occhi di Albanese si spostarono fugacemente sul cardinale Navarro, prima di posarsi di nuovo su Donati. «Sua Santità mi ha chiesto di pregare con lui. Ho accettato il suo invito.»

    «Le ha telefonato direttamente?»

    «Nel mio appartamento» rispose il camerlengo con un cenno d’assenso.

    «A che ora?»

    Albanese alzò gli occhi al soffitto, come nel tentativo di rammentare un dettaglio di scarsa rilevanza che ora gli sfuggiva. «Le nove e un quarto. Forse le nove e venti. Mi ha chiesto di presentarmi qualche minuto dopo le dieci. Quando sono arrivato…»

    Donati abbassò lo sguardo sull’uomo senza vita steso sul letto. «E come ha fatto a finire qui?»

    «L’ho spostato io.»

    «Da solo?»

    «Sua Santità ha portato sulle spalle il peso della Chiesa» disse Albanese, «ma, da morto, era leggero come una piuma. Non essendo riuscito a contattarla, ho convocato il segretario di stato che, a sua volta, ha chiamato i cardinali Navarro e Francona. A quel punto ho chiamato il dottor Gallo, che ha constatato il decesso e ne ha individuato la causa: morte per un grave attacco cardiaco. Il secondo, giusto? Oppure il terzo?»

    Donati guardò il medico del papa. «A che ora ha attestato ufficialmente la morte, dottore?»

    «Alle undici e dieci, Eccellenza.»

    Il cardinal Albanese si schiarì delicatamente la voce. «Nel mio comunicato ufficiale, ho apportato una lieve correzione all’orario. Se lo desidera, Luigi, posso dire che è stato lei a trovarlo.»

    «Non sarà necessario.»

    Donati si lasciò cadere in ginocchio accanto al letto. In vita, il Santo Padre era stato minuto; la morte lo aveva ulteriormente rimpicciolito. A Donati venne in mente il giorno in cui contro ogni aspettativa il conclave aveva scelto Lucchesi, patriarca di Venezia, come duecentosessantacinquesimo sommo pontefice della Chiesa cattolica romana. Nella Stanza delle lacrime, aveva optato per la veste più piccola delle tre già pronte. Ciononostante, era parso un bambino con addosso la camicia del padre. Quando era uscito sul balcone di San Pietro, la sua testa era a malapena visibile sopra la balaustra. I vaticanisti lo avevano ribattezzato Pietro l’Improbabile. Gli integralisti della Chiesa lo chiamavano sarcasticamente il Papa Accidentale.

    Un istante dopo, Donati avvertì una mano sulla spalla. Sembrava di piombo. Pertanto, non poteva che appartenere ad Albanese.

    «L’anello, Eccellenza.»

    Un tempo, spettava al camerlengo distruggere in presenza del collegio cardinalizio l’anello del pescatore del papa morto. Ma, come nel caso dei tre colpi sulla fronte papale con un martelletto d’argento, la pratica era stata abbandonata. Sull’anello di Lucchesi, che lui indossava raramente, sarebbero semplicemente state fatte due profonde incisioni a formare una croce. Altre tradizioni, invece, restavano in voga, come l’immediata chiusura degli appartamenti papali e l’apposizione di sigilli sugli stessi. Persino a Donati, l’unico segretario personale di Lucchesi, sarebbe stato impedito di entrare, una volta rimosso il corpo.

    Sempre in ginocchio, Donati aprì il cassetto del comodino e afferrò il massiccio anello d’oro. Lo cedette al cardinal Albanese, che lo mise in un sacchetto di velluto. Con solennità, dichiarò: «Sede vacante».

    Il soglio di San Pietro ora era vuoto. La costituzione apostolica stabiliva che il cardinal Albanese sarebbe stato a capo della Chiesa cattolica romana per tutta la durata dell’interregno, che si sarebbe concluso con l’elezione di un nuovo papa. Donati, un semplice arcivescovo titolare, non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo. Anzi, ora che il suo padrone era mancato, era rimasto senza portafoglio o potere, e avrebbe dovuto rendere conto solo al camerlengo.

    «Quando intende emettere il comunicato?» chiese Donati.

    «Attendevo il suo arrivo.»

    «Posso visionarlo?»

    «È essenziale fare presto. Se ritardiamo ancora…»

    «Certo, Eminenza.» Donati posò una mano su quella di Lucchesi. Era già fredda. «Gradirei restare un momento da solo con lui.»

    «Un momento» disse il camerlengo.

    La stanza si svuotò lentamente. Il cardinal Albanese fu l’ultimo a uscire.

    «Mi dica una cosa, Domenico.»

    Il camerlengo indugiò sulla soglia. «Eccellenza?»

    «Chi ha tirato le tende dello studio?»

    «Le tende?»

    «Erano aperte alle nove, quando me ne sono andato. Anche le imposte.»

    «Le ho chiuse io, Eccellenza. Non volevo che nessuno dalla piazza scorgesse delle luci accese negli appartamenti a un’ora così tarda.»

    «Sì, certo. È stato saggio da parte sua, Domenico.»

    Il camerlengo uscì, lasciando aperta la porta. Solo con il suo padrone, Donati faticò a trattenere le lacrime. Più tardi, ci sarebbe stato tempo per dolersi. Si avvicinò a un orecchio di Lucchesi e, delicatamente, gli strinse la mano fredda. «Mi parli, vecchio mio» sussurrò. «Mi dica cos’è accaduto davvero stanotte.»

    2

    Gerusalemme – Venezia

    Fu Chiara a informare segretamente il primo ministro che suo marito aveva un disperato bisogno di una vacanza. Da quando si era stabilito con riluttanza nella suite dirigenziale del King Saul Boulevard, non si era praticamente concesso nemmeno un pomeriggio di pausa, solo qualche giorno di convalescenza – in cui aveva lavorato – dopo che una bomba gli aveva fratturato due vertebre lombari a Parigi. Eppure, non era una cosa da prendere sotto gamba. Gabriel aveva bisogno di comunicazioni sicure e, ancora più importante, di ingenti misure di sicurezza. E ne avevano bisogno pure Chiara e i gemelli. Irene e Raphael presto avrebbero festeggiato il quarto compleanno. La minaccia che incombeva sulla famiglia Allon era di tale portata che non avevano mai messo piede fuori dallo stato di Israele.

    Ma dove sarebbero andati? Un viaggio esotico in una località lontana non era un’opzione percorribile. Sarebbero dovuti restare ragionevolmente vicini a Israele per consentire a Gabriel, nell’eventualità fin troppo probabile di un’emergenza nazionale, di tornare al King Saul Boulevard nel giro di poche ore. Nel loro futuro non c’era un safari in Sudafrica e nemmeno un viaggio in Australia o alle Galapagos. Meglio così, forse: Gabriel aveva un rapporto difficile con gli animali selvatici. Inoltre, l’ultima cosa che Chiara voleva era stancarlo con l’ennesimo volo. Ora che era il direttore generale dell’Ufficio, faceva costantemente la spola con Washington per consultarsi con i colleghi americani di Langley. Ciò di cui aveva più bisogno era riposare.

    D’altronde, lo svago non gli veniva naturale. Era un uomo di enorme talento, ma di scarsi hobby. Non sciava e non faceva immersioni, e non aveva mai brandito una mazza da golf o una racchetta da tennis se non per usarle come armi. Le spiagge lo annoiavano, a meno che non fossero fredde e sferzate dal vento. Gli piaceva andare in barca a vela, soprattutto nelle acque insidiose a ovest dell’Inghilterra, o caricarsi uno zaino sulle spalle e attraversare una brughiera desolata. Nemmeno Chiara, un’ex agente sul campo dell’Ufficio, era in grado di stare dietro al suo passo spedito per più di due o tre chilometri. I bambini di certo si sarebbero stancati.

    Il trucco sarebbe consistito nel trovare a Gabriel qualcosa da fare mentre erano in vacanza, un progettino che lo tenesse occupato per qualche ora ogni mattina finché i bambini non fossero stati svegli, vestiti e pronti a iniziare la giornata. E se fosse stato possibile realizzare il progetto in una città in cui lui si trovava già a suo agio? La città in cui aveva studiato il mestiere del restauratore d’arte e svolto l’apprendistato? La città in cui lui e Chiara si erano conosciuti e innamorati? Lei in quella città ci era nata e suo padre era stato il rabbino capo della comunità ebraica sempre meno numerosa. Per di più, sua madre la assillava da un po’ di tempo, chiedendole di andare a trovarli con i bambini. Sarebbe stato perfetto, pensò. I proverbiali due piccioni con una fava.

    Ma quando? Agosto era fuori discussione. Era troppo caldo e umido, e la città sarebbe stata sommersa da una marea di turisti in viaggio organizzato, da orde di gente costantemente impegnata a farsi selfie e al seguito di guide arcigne per un’ora o due, prima di trangugiare un cappuccino dal prezzo esagerato al Caffè Florian e fare ritorno alle rispettive navi da crociera. Se invece avessero atteso fino, diciamo, a novembre, il clima sarebbe stato fresco e limpido, e avrebbero avuto il sestiere tutto per loro, o quasi. Avrebbero così avuto la possibilità di riflettere sul loro futuro senza la distrazione dell’Ufficio o della vita di tutti i giorni in Israele. Gabriel aveva comunicato al primo ministro che sarebbe restato in carica per un solo mandato. Non era troppo presto per iniziare a pensare a come avrebbero trascorso il resto delle loro vite e a dove avrebbero cresciuto i figli. Nessuno dei due, specialmente Gabriel, sarebbe ringiovanito.

    Lei non lo informò dei suoi piani, dato che avrebbe soltanto stimolato una lunga arringa su tutti i motivi per cui lo stato di Israele sarebbe crollato se lui si fosse preso anche solo un giorno di pausa dal lavoro. Al contrario, cospirò insieme a Uzi Navot, il vicedirettore, per scegliere le date. La divisione Case dell’Ufficio, che acquisiva e gestiva proprietà sicure, pensò alla sistemazione. La polizia e i servizi di intelligence locali, con i quali Gabriel era in rapporti stretti, accettarono di occuparsi della sicurezza.

    Restava solo il progetto per tenere occupato Gabriel. Verso la fine di ottobre, Chiara telefonò a Francesco Tiepolo, il titolare della più nota società di restauri della zona.

    «Ho ciò che fa per lei. Le manderò una foto via e-mail.»

    Tre settimane dopo, al termine di una riunione particolarmente controversa del litigioso gabinetto di Israele, Gabriel tornò a casa e trovò i bagagli della famiglia Allon pronti.

    «Mi stai lasciando?»

    «No» disse Chiara. «Andiamo in vacanza. Tutti insieme.»

    «Non mi è possibile…»

    «Ho già pensato a tutto, caro.»

    «Uzi lo sa?»

    Chiara annuì. «E lo sa anche il primo ministro.»

    «Dove andiamo? E per quanto?»

    Lei rispose.

    «E io come le passerò queste due settimane?»

    Chiara gli diede la fotografia.

    «Non riuscirò mai a finirlo.»

    «Farai quello che riesci.»

    «Per poi lasciare che qualcun altro metta mano al mio lavoro?»

    «Non sarà la fine del mondo.»

    «Non si sa mai, Chiara. Potrebbe proprio esserla.»

    L’appartamento occupava il piano nobile di un vecchio palazzo fatiscente di Cannaregio, il più settentrionale dei sei sestieri tradizionali di Venezia. Disponeva di un salone di rappresentanza, di una grande cucina zeppa di elettrodomestici moderni e di un terrazzo con vista sul Rio de la Misericordia. In una delle quattro camere da letto, la divisione Case aveva allestito un collegamento sicuro con il King Saul Boulevard, con tanto di struttura simile a una tenda – nel gergo dell’Ufficio, era nota come chuppah – che avrebbe consentito a Gabriel di parlare al telefono senza temere di essere intercettato da eventuali dispositivi elettronici. Carabinieri in borghese montavano di guardia all’esterno, in Fondamenta dei Ormesini. Con il loro consenso, Gabriel si portava appresso una pistola Beretta calibro 9. La stessa cosa valeva per Chiara, che era una tiratrice ben più brava di lui.

    Pochi passi più avanti, lungo il canale, c’era un ponte di ferro – l’unico di Venezia – e, sul lato opposto, un’ampia piazza chiamata Campo del Ghetto nuovo. C’erano un museo, una libreria e gli uffici della comunità ebraica. La Casa di riposo israelitica occupava il lato a nord; accanto a essa un crudo bassorilievo commemorava gli ebrei di Venezia che, nel dicembre del 1943, erano stati rastrellati, internati in campi di concentramento e in seguito assassinati ad Auschwitz. Due carabinieri armati fino ai denti sorvegliavano il monumento da un gabbiotto antiproiettile. Delle duecentocinquantamila persone che facevano ancora del comune di Venezia la loro casa, solo gli ebrei avevano bisogno di protezione ventiquattr’ore al giorno.

    I condomini sui lati del Campo erano i più alti di Venezia perché, nel Medioevo, la Chiesa aveva vietato ai loro occupanti di risiedere in qualsiasi altra zona della città. Ai piani superiori di diversi di quegli edifici c’erano delle piccole sinagoghe, ora restaurate meticolosamente, che un tempo avevano servito le comunità di ebrei aschenaziti e sefarditi che abitavano più in basso. Le due sinagoghe operative del ghetto si trovavano poco a sud, ed erano entrambe clandestine: nulla del loro aspetto esteriore lasciava intendere che si trattasse di luoghi di culto ebraici. La sinagoga spagnola era stata fondata dagli antenati di Chiara nel 1580. Priva di riscaldamento, era aperta dalla Pasqua ebraica alle festività di Rosh haShana e dello Yom Kippur. La sinagoga levantina, situata sul lato opposto di una piazzetta, serviva la comunità durante l’inverno.

    Il rabbino Jacob Zolli e sua moglie, Alessia, vivevano dietro l’angolo rispetto alla sinagoga levantina, in un’angusta casetta che si affacciava su una corte appartata. La famiglia Allon cenò lì la sera di lunedì, poche ore dopo l’arrivo a Venezia. Gabriel riuscì a controllare il telefono solo quattro volte.

    «Spero che non ci siano problemi» disse il rabbino Zolli.

    «Le solite cose» mormorò Gabriel.

    «Sono sollevato.»

    «Non è il caso.»

    Il rabbino rise sommessamente. Il suo sguardo fece un giro d’approvazione del tavolo, posandosi per un istante sui due nipotini, sulla moglie e, per finire, sulla figlia. La luce delle candele risplendeva nei suoi occhi, color caramello e screziati d’oro. «Chiara non è mai sembrata così radiosa. È evidente che tu l’abbia resa molto felice.»

    «Davvero?»

    «Di asperità lungo il cammino di certo ce ne sono state.» Il tono del rabbino era ammonitorio. «Ma posso assicurarti che lei si ritiene la persona più fortunata del mondo.»

    «Temo che tale onore spetti a me.»

    «Gira voce che ti abbia ingannato riguardo ai vostri piani di viaggio.»

    Gabriel si accigliò. «Di sicuro nella Torah ci sono proibizioni contro comportamenti simili…»

    «Non me ne vengono in mente.»

    «Probabilmente, è stato meglio così» ammise Gabriel. «Dubito che, altrimenti, avrei accettato.»

    «Sono contento che siate riusciti a portare i bambini a Venezia. Ma temo che siate venuti in un momento difficile.» Il rabbino Zolli abbassò la voce. «Sebastiani e i suoi amici dell’estrema destra hanno risvegliato forze oscure in Europa.»

    Giuseppe Sebastiani era il nuovo primo ministro italiano. Xenofobo, intollerante, diffidente nei confronti della stampa libera, era dotato di scarsa sopportazione per minuzie come la democrazia parlamentare e lo stato di diritto. Lo stesso valeva per il suo amico intimo Jörg Kaufmann, il neofascista alle prime armi che ora ricopriva il ruolo di cancelliere austriaco. In Francia, si dava quasi per scontato che Cécile Leclerc, leader del Fronte popolare, sarebbe stata la prossima inquilina dell’Eliseo. Si prevedeva che i nazionaldemocratici tedeschi, guidati da un ex skinhead neonazista, un certo Axel Brünner, si sarebbero classificati secondi alle elezioni politiche di gennaio. Ovunque, a quanto sembrava, l’estrema destra era in ascesa.

    La sua crescita nell’Europa occidentale era stata alimentata dalla globalizzazione, dall’incertezza economica e dai dati demografici in rapida trasformazione nel continente. I musulmani ora ammontavano al cinque per cento della popolazione europea. Un numero crescente di europei indigeni considerava l’Islam una minaccia esistenziale alla propria identità religiosa e culturale. La loro rabbia e il loro risentimento, un tempo contenuti o nascosti in pubblico, ora scorrevano nelle vene di Internet come un virus. Gli attacchi ai danni di musulmani erano cresciuti drasticamente, così come erano cresciuti le aggressioni fisiche e gli atti di vandalismo nei confronti degli ebrei. In effetti, l’antisemitismo in Europa aveva raggiunto un livello mai visto dopo la Seconda guerra mondiale.

    «Il nostro cimitero al Lido è stato nuovamente vandalizzato la settimana scorsa» disse il rabbino Zolli. «Lapidi rovesciate, svastiche… le solite cose. I miei fedeli sono spaventati. Cerco di dar loro conforto, ma anch’io sono spaventato. Politici anti-immigrazione come Sebastiani hanno agitato la bottiglia e ne hanno fatto saltare il tappo. I loro seguaci si lamentano dei rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, ma siamo noi quelli che disprezzano maggiormente. È l’odio più antico. Qui in Italia essere antisemiti non è più malvisto. Oggi una persona può manifestare apertamente il proprio disprezzo per noi. E i risultati sono stati del tutto prevedibili.»

    «La tempesta passerà» disse Gabriel, senza troppa convinzione.

    «È probabile che i tuoi nonni abbiano detto la stessa cosa. E che altrettanto abbiano detto gli ebrei di Venezia. Tua madre ce l’ha fatta a uscire viva da Auschwitz. Gli ebrei di Venezia non sono stati così fortunati.» Il rabbino Zolli scosse la testa. «È un film che ho già visto, Gabriel, e so come va a finire. Non scordarti mai che l’inimmaginabile può succedere. Ma non guastiamoci la serata con discorsi sgradevoli. Voglio godermi la compagnia dei miei nipotini.»

    Il mattino dopo, Gabriel si svegliò presto e passò alcune ore nel riparo offerto dalla chuppah, parlando con i suoi uomini di grado superiore al King Saul Boulevard. Dopodiché, affittò un motoscafo e portò Chiara e i bambini a fare un giro della città e delle isole della laguna. Faceva decisamente troppo freddo per nuotare al Lido, ma i bambini si tolsero le scarpe e inseguirono gabbiani e sterne sulla spiaggia. Durante il viaggio di ritorno a Cannaregio, si fermarono alla chiesa di San Sebastiano nel sestiere di Dorsoduro per vedere La Vergine col putto in gloria e i santi Sebastiano, Pietro, Caterina e Francesco del Veronese, che Gabriel aveva restaurato durante la gravidanza di Chiara. In seguito, mentre la luce dell’autunno si spegneva nel Campo del Ghetto nuovo, i bambini giocarono rumorosamente a rincorrersi con alcuni coetanei, mentre Gabriel e Chiara li tenevano d’occhio da una panca di legno di fronte alla Casa di riposo israelitica.

    «Forse è la panchina che preferisco al mondo» disse Chiara. «Eri seduto qui, il giorno in cui sei tornato in te e mi hai implorata di riaccoglierti. Te lo ricordi, Gabriel? Dopo l’attacco al Vaticano.»

    «Non so cosa sia stato peggio. Le bombe con i lanciarazzi e gli attentatori suicidi oppure il modo in cui mi trattasti.»

    «Te lo eri meritato, zuccone. Non avrei mai dovuto accettare di rivederti.»

    «E ora i nostri bambini stanno giocando in Campo» disse Gabriel.

    Chiara rivolse un’occhiata alla postazione dei carabinieri. «Sotto lo sguardo vigile di uomini armati.»

    Il giorno seguente, mercoledì, Gabriel sgusciò fuori dall’appartamento dopo le sue telefonate del mattino e, con una valigetta di legno smaltato sotto un braccio, raggiunse a piedi la chiesa della Madonna dell’Orto. La navata maggiore era in penombra e dei ponteggi nascondevano i doppi archi a sesto acuto delle navate laterali. La chiesa non disponeva di un transetto, ma sul fondo c’era un’abside pentagonale contenente la tomba di Jacopo Robusti, meglio noto come il Tintoretto. Fu lì che Gabriel trovò Francesco Tiepolo. Un omone, una specie di orso dall’arruffata barba grigio-nera. Come al solito, indossava un’ampia tunica bianca con una sciarpa annodata in modo sbarazzino intorno al collo.

    Abbracciò Gabriel con forza. «Ho sempre saputo che saresti tornato.»

    «Sono in vacanza, Francesco. Non lasciamoci trascinare troppo dall’en­tusiasmo.»

    Tiepolo agitò una mano come se stesse cercando di allontanare i piccioni di piazza San Marco. «Oggi sei in vacanza, ma un giorno morirai a Venezia.» Posò gli occhi sulla tomba. «Suppongo che dovremo seppellirti in un posto che non sia una chiesa, giusto?»

    Il Tintoretto aveva realizzato dieci dipinti per la chiesa tra il 1552 e il 1569, tra cui Presentazione della Vergine al Tempio, appeso sul lato destro della navata. Una tela enorme di 480 per 429 centimetri, uno dei suoi capolavori. La prima fase del restauro, la rimozione della vernice sbiadita, era stata completata. Non restava altro che la reintegrazione delle porzioni della tela consumate dal tempo e dagli stress. Sarebbe stata un’impresa monumentale; Gabriel calcolò che un singolo restauratore ci avrebbe impiegato un anno, se non di più.

    «Chi è il poveraccio che ha tolto la vernice? Antonio Politi, spero.»

    «Se n’è occupata Paulina, la ragazza nuova. Sperava di poterti osservare mentre eri al lavoro…»

    «Immagino che tu le abbia tolto ogni speranza al riguardo.»

    «Senza la minima incertezza.

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