Il Vincente: La vera storia di Vince Lombardi
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Pagina dopo pagina passano i campioni di uno sport duro e speciale, l’incessante susseguirsi delle vittorie culminate con le prime due edizioni del Super Bowl. Dal 1971 il trofeo di questa partitissima che ogni anno per un giorno ferma l’America, porta il suo nome.
Nella seconda parte si narrano le vicende un po’ picaresche del campo italiano dedicato allo stesso Lombardi, un vero impianto da football americano costruito nel 1980 in un paesino fuori mano.
Oggi lo stadio di Vince è un campo abbandonato nella campagna umbra. Un duplice inserto fotografico arricchisce la narrazione con immagini d’epoca e scatti più recenti.
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Anteprima del libro
Il Vincente - Fausto Batella
attuale.
Prefazione
Nel mondo wikipedizzato di oggi, in cui si va da 0 a 100 (nozioni) nel giro di un click e tutti sono esperti di tutto, a patto che non venga loro chiesto di spiegare e illustrare, ha senso approfondire un argomento già arcinoto, come quello relativo alla vita e alle origini di Vince Lombardi?
Ne ha, e tanto.
Prima di tutto perché Vince Lombardi è sempre tra noi, in un modo o nell’altro. Ogni partita giocata a Green Bay e diffusa in diretta nazionale – ovvero mondiale, per chi ha abbonamenti e tecnologie giuste – porta con sé una menzione del più grande coach della squadra, o l’inquadratura della celebre statua situata dinanzi all’ingresso più scenografico del Lambeau Field e che, da una certa prospettiva, appare come indicata dal braccio teso di un altro simulacro lì accanto, quello di Earl Curly
Lambeau, fondatore e primo allenatore della squadra, quasi a indicarne una successione immortalata nel marmo, e dunque eterna.
Spaghetti Football, all’inizio di questo secolo, aveva dato la prima grande descrizione italiana della vita di Lombardi, compresa la tragica, rapida, dolorosa fine, a carriera ancora nel pieno, da coach dei Washington Redskins. Ed è significativo ricordare che in occasione del suo funerale a New York, anzi Manhattan, venne chiusa la 5th Avenue ovvero la Quinta Strada, che in questa citazione triste perde la connotazione ridanciana, per l’italiano medio, che le aveva dato Alberto Sordi ne Un americano a Roma, menzionandola come epitome del luogo statunitense dove era possibile trovare quella meraviglia tecnologica, per i tempi, che era il boccione dell’acqua potabile.
Perché Lombardi era newyorkese, come imparerete, ma anche no; italiano, ma anche no. Era tutto assieme, era l’emblema di una America che era uscita trionfante, stremata, elettrizzata, dalla Seconda Guerra Mondiale, e con una visione netta del futuro aveva di fronte a sé l’infinito. Un infinito che ha in parte realizzato, negli anni in cui Green Bay, costruendo un nuovo stadio su imposizione degli altri proprietari NFL, decisi altrimenti a togliere la concessione della franchigia, si proiettava in una dimensione dalla quale non è mai più uscita dal punto di vista della nomea, anche quando i risultati sul campo non hanno dato soddisfazione; ed è accaduto per tanti anni, tra la fine del regno di Lombardi, il 1968, con l’addio a favore di un suo protetto che non ebbe fortuna, Phil Bengtson, e l’ultimo decennio del secolo, quando Mike Holmgren, il suo staff e Brett Favre hanno reso più verde il verde e più giallo (o oro) il giallo (o oro) dei colori. Che a Green Bay trovate ovunque, e non è una esagerazione: Dio solo sa che coloranti usino, ma nel supermercato più vicino al Lambeau Field, luogo di parcheggio a scrocco per chi voglia andare alla partita facendosi 10 minuti a piedi ma risparmiando 30 dollari (li spendi poi nel supermarket in alimentari da lasciare in auto per far credere che hai parcheggiato lì per fare la spesa, ma un controllore si chiede anche dove tu sia finito, se la borsa è sul sedile), si vendono anche biscotti e torte glassate giallo-oro-verde, e nei giorni delle partite commessi e cassiere indossano la maglia o la felpa dei Packers.
Ed è tutto merito di Lombardi, che ha ricevuto il metaforico handoff da Lambeau e ha raggiunto l’end zone una, due, infinite volte, tutte quelle in cui Green Bay ha vinto un titolo NFL o un Super Bowl, che nelle edizioni vinte dai Packers ancora si chiamava, semplicemente – ed è un paradosso, perché in realtà è definizione più lunga – NFL-AFL Championship Game. Ma il Vince che era Vince era Vincenzo, nel profondo, nato a New York, cresciuto a Brooklyn in una oasi italiana, in periodi in cui la distinzione tra isolati e quartieri all’interno della medesima comunità era più netta di oggi, quando pure sopravvive forte. Il figlio del macellaio Harry e di sua moglie Matty, con origini nella nostra penisola che mai sono state perfettamente e completamente chiarite, ma che vengono illustrate in maniera estesa in questo volume, frutto della passione, della pazienza, della dedizione di Fausto Batella, le cui opere ricordano piccoli gioielli che aprono un fascio di luce su un settore da noi trascurato, quasi deriso dai saccenti da fumogeno acceso. Sono libri che ricordano molto le migliori fonti di informazione sportiva americana, ovvero quello che ci piace chiamare