Lunga è la notte che non trova mai giorno
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Anteprima del libro
Lunga è la notte che non trova mai giorno - Bruno Bartoletti
Note dell’autore
Questo lavoro è rimasto a lungo dimenticato. Quando è stato scritto, il mondo sperava che dalle sue ceneri sorgesse un’alba migliore: Il richiamo del mare porta la data di inizio ― 22 dicembre 1989 ― e, terminato in pochi mesi, è stato più volte riveduto fino alla sua ultima definitiva stesura nel 1994. Non aspettarmi: la notte è bianca e nera è invece di qualche anno successivo.
Tanti anni sono trascorsi e questi lavori si sono depositati nel tempo, hanno lasciato la loro scorza e negli anni sono invecchiati come cose che forse non mi appartengono più - velocemente invecchiati.
Ed è una storia chiusa quando si intravede, con cupa rassegnazione, che le voci in bianco sovrastano quelle piene, che molto di più è ciò che non è stato detto. Allora c’è il bisogno di riempire quei vuoti e il lamento di Ofelia, vittima necessaria sacrificata al dovere, si sprigiona tra le sillabe con la stessa innocente rassegnazione: Signore, noi sappiamo che cosa siamo, ma non sappiamo che cosa possiamo essere...¹
Sogliano al Rubicone, 18 ottobre 2004
___________________
¹ William Shakespeare, Amleto, in Tutte le Opere, Sansoni Editore, Firenze, 1964, p. 712.
Il richiamo del mare
Il chiarore luminoso dell'alba preannunciava
una splendida giornata di sole
Le parole hanno un senso
soltanto se le nutre la memoria
(Margherita Guidacci)
a Luca
Prologo
Sogliano, 21.12.1989
Pensavo a voi, nell'iniziare questa storia, ai vostri treni carichi di illusioni e di speranze. E invece, a mano a mano che procedevo in questo viaggio, mi accorgevo di essere rimasto io solo su quel treno a dipanare con tristezza il raccolto ― povero ahimè ― degli anni.
George Bernard Shaw fu straordinario quando scrisse: «Per me la vita non è una candela. É una specie di meravigliosa torcia che ho preso in mano per un attimo e che voglio far bruciare più luminosa che posso prima di passarla alle generazioni a venire». Ognuno di noi porta una torcia. Dobbiamo mantenerla accesa. La speranza per il domani è di passare ad altri le torce che risplendono adesso!
I
A metà strada ci incontrammo, solo il tempo
di parlare di altro
tra le cose posate a ricordare.
Venerdì 22 dicembre 1989.
Passa tranquillamente tra il rumore e la fretta,
e ricorda quanta pace può esserci nel silenzio.
Quel volto di ragazza che incontrò nel sonno, sotto la pioggia, si frantumava nella trasparenza della luce. Sulla parete pensieri, una poesia d'amore, una riflessione sulla morte. Reliquie.
Una ragazza bruna, piedi scalzi, correva tra l'erba, leggera. Le montagne si perdevano nel grigiore autunnale in silenziosa preghiera. Le vesti bianche, in trasparenza, lasciavano intravedere il corpo leggermente inclinato, le gambe snelle, di profilo le braccia si perdevano in amorevole fuga.
Campi di grano al sole, esplosioni di ginestre tra i calanchi ed i greppi, terra sgretolata nella calura estiva. Frammenti di ricordi. E compagni, amici di strada. Sulle pareti quadri, un nudo di donna, in fondo a un cassetto fotografie.
Interroga il grande fiume del tempo, ti risponderà
sempre con il giorno e con la notte, con l'alba
e con il tramonto, con la luce e con la tenebra.
Dalla memoria ricordi confusi ritornavano in superficie e si sovrapponevano all'azione quotidiana del presente, alle pareti bianche. Pensò ai tempi della memoria, all'irrazionale scansione del tempo; e dal passato recuperava il significato, a volte oscuro e incerto.
Oggi, 22 dicembre 1989.
La notte era profonda e dalla notte giungevano rumori impercettibili.
Guardò distrattamente la piccola sveglia elettronica appoggiata sul tavolo.
Segnava le 22.10.
Oui... c'est moi. Un foulard di seta e un volto pallido. La pellicola srotolava nude scene di cartapesta. Il mare gelido gli fasciava i piedi nudi e dal mare saliva una canzone cantata e ascoltata infinite volte. Sindrome dei quarantenni: impotenza e pigrizia mentale. Non aggrediva frontalmente. Lavorava ai fianchi. Inesorabilmente. Dissipatio H.G.: la morte sarebbe dovuta arrivare necessariamente prima dei quarant’anni, perché è un passaggio, quello ai quaranta, che dalla maturità degrada all’anzianità, ben lo sapeva Guido Morselli prima che la notte arrivasse improvvisa.
Fasci di luce. Un puledro bianco e una donna vestita di bianco su un grande canale. Profumi. Aveva nei piedi l'odore del mare e sul volto la neve, le labbra bruciate di sale. Treni in partenza e una ragazza in corsa. Le rughe di un vecchio disegnavano solchi profondi. Sulla spiaggia un corpo nudo di donna inondata di schiuma. A tratti il risveglio ingigantiva il silenzio. Le voci della città giungevano fino al suo orecchio e la solitudine intristiva nell'invecchiamento. A quell'ora le strade dovevano gremirsi di gente e i negozi gettare fasci bianchi di luce. La piccola stanza si riempiva di piccoli oggetti, appena intravisti. La fontana gelata ricordava stanche emozioni.
Si rivedeva in partenza, sul treno delle 24, destinazione sconosciuta, sul predellino sotto la pioggia, il suo volto gelido e i suoi occhi grandi.
Si infilò il soprabito e varcò la soglia della stanza.
Aveva sempre avuto terrore delle stanze solo intraviste attraverso le porte semichiuse. Il buio filtrava di sbieco e si riempiva di tristi presagi. La porta accostata pareva aspettare che qualcuno entrasse. Il piccolo lume schiariva soltanto l’ombra di sua madre, di fronte alla notte. Attorno al lume a petrolio volavano piccole farfalle che con insistenza andavano a urtare la campana di vetro. Sotto il tetto travi di legno. L'imbiancatura si era staccata e le figure si leggevano con grande nitidezza. Descrizioni e letture sul soffitto, sulle pareti, sulle porte. Il bambino aveva occhi grandi e molto tristi. La voce di sua madre non era cambiata. La porta della camera da letto era chiusa. Si sentiva soltanto il ticchettio della macchina da cucire e, dalla notte, qualche animale notturno.
Fu sul pianerottolo di casa, scese le scale interne del condominio, spinse il portone e uscì nel cortile.
Ripetendo un gesto che faceva fin da bambino, guardò indietro e fissò la finestra del terzo piano, la sua finestra dai battenti scuri. Il cortile era piccolo, quadrato, poco appariscente, con l’erba che tentava di crescere tra le pietre. Erba. Erba dura, secca, erba tra le crepe, tra il cemento, ciuffi disordinati attaccati a una incrostazione, a un pugno di creta, alla polvere.
Dalle terrazze qualche albero di Natale riscaldava la notte. Voci udiva in lontananza. Noncuranza e solitudine s'annidavano in quello specchio di cielo, tra i cornicioni delle case, nella luce di due vecchi lampioni. L’acciottolato era lucido, levigato dai passi, i muri delle case d'un bianco sporco e dalle ringhiere i panni stesi davano una sconsolata sensazione di disordine. Il cassonetto della spazzatura, in un angolo, sembrava forzatamente posato ad indicare il triste e inesorabile consumarsi del tempo. Mentre scivolava nell'ombra, sotto il voltone, gli giunse nitida da una finestra la musica di uno stereo. Vi immaginò nella stanza qualche ragazzo in ascolto, chiuso nel suo silenzio. Raccolse nella mente alcuni versi e ricordò quanta forza avesse l'amore.
Forte come la Morte è l'Amore
si leggeva nel Cantico. Ed era certezza d'amore. Nel dubbio la riflessione ammonitrice di Dostoievskij: Padri e maestri, io mi chiedo: Che cos'è l'inferno? Io affermo che è il tormento di non essere più capaci di amare
.
Di notte il Corso si riempiva di incontri: ragazzi che uscivano da un bar, giovani che scivolavano sotto i portici, anziani che si allontanavano. Un carillon suonava e le vetrine riempivano di scritte augurali le vetrate. Lungo tutto il Corso luci, lampadine, figure, archi e volte illuminate. Nella piazzetta Almerici, di fronte alla Biblioteca Comunale, un gigantesco abete ricco di luci faceva da contrasto all'architettura rinascimentale annerita dal tempo.
Due ragazzi passarono in fretta: lei alta, in un soprabito scuro, gonna nera; lui allampanato, ben vestito. Qualche rara bicicletta scivolava silenziosa. Un gruppo di ragazzi si stringeva sotto un cartellone pubblicitario interessato agli ultimi spettacoli cinematografici. L'età giovanissima era segnale di un consumarsi dei tempi e di una adolescenza sempre più precoce e destinata rapidamente ad invecchiare. Capelli lucidi, magrezza nascosta dentro il giubbotto nero, jeans troppo corti e nei piedi scarpe troppo pesanti, gli adolescenti facevano mostra di una eleganza disordinata. Con loro due ragazzine, con troppo trucco sul volto e labbra rosse, ridevano. Una scritta sul muro ricordava tempi non troppo lontani di contestazioni e si contrapponeva come epigrafe a un presente di stereo, videocassette, abiti firmati, corpi in movimento. Le scritte augurali sulle vetrine erano semplici esemplificazioni esteriori di grafia e di estetica. Di fronte a qualche negozio restavano i piccoli abeti infiocchettati e i contorni delle case e dei tetti si stagliavano contro il cielo nero. L'aria gelida fasciava i corpi e le ombre dei portici si chiudevano fredde.
Si divertiva ad osservare la gente: i passi erano veloci, gli abiti eleganti, il parlare misurato. Si immaginò in un Ritorno al Futuro ove tutto già fosse accaduto. Ogni gesto conservava il segno di qualcosa già conosciuto, ripetuto altre infinite volte.
L'aria era fredda e i cornicioni delle case sembravano restringersi attorno a pezzi di cielo buio.
Nella notte le donne nei loro cappotti neri sembravano tante madonne esili intente a salire verso la chiesa. Il cielo era stellato, di un nero intenso, con le stelle che luccicavano più vive che mai e con la luna piena, così grande e luminosa che attorno le colline, le case, i calanchi, i greppi si potevano osservare nella loro nitidezza. La notte e la neve infondevano una sensazione di attesa e di profonda pace. Le donne parlavano, qualche bambino era con loro, gli uomini seguivano. La piccola chiesa aggrappata alla roccia si stagliava sul colle, sotto la luna, in mezzo al bianco e al silenzio della neve. Le voci delle donne erano familiari, come quelle di madri e sorelle. Gli uomini seguivano, sul sentiero coperto di neve, appena segnato dalle impronte dei piedi, tra gli arbusti delle ginestre piegate sulla scarpata. In basso il torrente luccicava silenzioso tra i sassi, sotto il dirupo. Il bambino sognava, occhi grandi, nel tepore di voci amiche, troppo piccolo nel cappotto troppo grande. Le voci, i discorsi, il rumore dei passi, il silenzio, e ancora parole ed i sogni cristalli di ghiaccio sui rami, ragnatele cucite di madreperla, arabeschi, merletti e parole si rincorrevano, si formavano e si perdevano nella notte e nel sonno.
Al chiaro di luna riflessi argentati ed ombre si stagliavano tra le siepi sepolte, dietro boschi di acacie, sotto le querce solitarie. Ai lati, sulla neve, si potevano scorgere impronte di animali, così leggere e così piccole lungo la scarpata. S'udiva appena il ticchettio di qualche goccia di ghiaccio e, a tratti, il tonfo di mucchi di neve che scivolavano dalla cima di un tronco. Quei suoni, così familiari, erano carichi di sensazioni; e quando le voci tacevano, s'udiva il rumore dei passi e perfino il respiro. Gli uomini avevano grandi cappotti, qualcuno era avvolto in grandi mantelle, le mani nascoste a ripararsi dal freddo. Sul colle, nitida contro il cielo stellato,