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Archeon
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E-book374 pagine5 ore

Archeon

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Info su questo ebook

Ti sei mai chiesto cos’è l’immortalità? E se tutti avessimo il dono della vita eterna senza consapevolezza alcuna? Cosa faresti se scoprissi di essere immortale e poter dominare le anime terrene? Archeon ti porterà all’interno di un thriller ambientato ai giorni odierni e nella storia passata, attraverso le vicende degli immortali protagonisti, i signori della terra, coloro che delineano il destino dell’uomo da millenni. Atsak e Kahmiri dovranno salvarsi dal complotto di Quetzal, l’Archeon che cercherà di uccidere i suoi stessi fratelli. Poiché anche un immortale può trovar dimora in quel luogo al di là della morte: l’oblio delle anime.
LinguaItaliano
Data di uscita15 set 2015
ISBN9788893065740
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    Anteprima del libro

    Archeon - Alessandro Tagliapietra

    solo.

    1977

    Irlanda

    Nell’universo scorre senza tempo il fiume dell’oscurità.

    Immersi in quest’impeto di grazia esseri senzienti nuotano, inconsapevoli dell’infinito.

    Atsak ruotò la chiave di accensione verso il basso, il motore della Pontiac Astre si spense. Le tempie pulsavano e il fremito del richiamo continuava a fargli vibrare le viscere.

    Kahmiri era vicina.

    Dal punto sopraelevato in cui si trovava osservò la carreggiata proseguire verso sinistra e affondare nella buia brughiera irlandese. Solo le fioche luminarie notturne della cittadina di Kilkee rompevano l’oscurità e, sulla destra, i costoni rocciosi di bruno basalto sembravano tuffarsi nell’oceano assieme alla loro imponenza millenaria. Duecento metri più avanti la villa bianca arroccata a ridosso della scogliera poteva darti l’impressione, vista dalla strada, di precipitare in mare da un momento all’altro.

    L’anima di sua sorella era lì. Sapeva che gli Archeon la tenevano prigioniera e, dentro la medesima consapevolezza, sapeva che lo stavano aspettando.

    Fece un lungo respiro. Sentì l’aria pungente scivolare lungo la gola e riempirgli i polmoni del profumo di muschio di quercia e dell’odore irruente dell’oceano.

    Uscì dall’auto, chiuse delicatamente la portiera e iniziò a camminare verso il cinereo muro di cinta alto poco più di un uomo, attorno al giardino della villa.

    Quando vi fu sotto, dal lato opposto dell’entrata principale, allungò le braccia e afferrò la sponda superiore del muro. Con un guizzo scavalcò e cadde in silenzio dall’altra parte accovacciandosi sul prato. Poi camminò chino verso un cespuglio di ginestra. Al riparo di quel cespuglio osservò l’ingresso della villa.

    Davanti a sé, a una trentina di metri, due uomini in eleganti abiti scuri pattugliavano il giardino. Quello più alto e dalla corporatura imponente era fermo vicino l’ingresso, di spalle, fra le due colonne bianche del porticato; il secondo si muoveva, le mani sulla mitraglietta a tracolla, lungo il perimetro della villa.

    Atsak attese alcuni istanti poi, appena la seconda sentinella scomparve dietro il lato opposto del giardino, scattò e corse in silenzio nella direzione della guardia sul porticato.

    L’uomo, attratto dal lieve fruscio della corsa di Atsak si voltò verso quella direzione, nella penombra del giardino. Mise la mano destra sotto la giacca, sporse il capo verso la buia figura che gli si stava avvicinando e strinse gli occhi e tentò di dare l’allarme con un grido, ma l’aria parve rimanergli costretta nei polmoni, poiché Atsak gli strappò via l’anima. Poteva percepire la fitta che in quell’istante penetrava il centro del petto della sentinella e s’irradiava in tutto il corpo come una scarica elettrica. Sapeva che quell’ignara preda ormai non avrebbe potuto più muoversi, e tantomeno respirare. Atsak vide l’uomo digrignare i denti, ansimare alla ricerca di un’aria che non avrebbe più riempito i suoi polmoni poi, d’un tratto, l’uomo cadde al suolo come un sacco di sabbia svuotato d’improvviso, svuotato della vita.

    Quando Atsak gli fu vicino, trascinò quel corpo inerme e lo adagiò dietro la colonna del porticato. Infilò la mano sotto la giacca della sentinella e prese dalla fondina la Wesson calibro trentotto. Guardò da un lato poi dall’altro nella direzione dov’era scomparso l’altro uomo di guardia, così si alzò in piedi e fu dinanzi la porta finestra. Spinse verso il basso la maniglia d’ottone: la porta era aperta. Fu all’interno dell’atrio principale.

    Kahmiri era vicina. Continuava a sentirla sempre più vicina.

    Salì le scale dell’androne, percorse il corridoio non curandosi delle porte chiuse ai lati. Guardò avanti a sé poi indietro. Era il richiamo a guidarlo e a rendergli chiara la direzione da seguire. Camminò, in silenzio radente la parete di destra. Dopo pochi passi fu davanti un altro corridoio. Sul pavimento in legno un lungo tappeto persiano terminava, nella penombra, davanti a un tizio addormentato seduto su una sedia. Atsak camminò nella sua direzione. Se quell’uomo realmente stava dormendo qualcosa doveva averlo indotto ad aprire gli occhi di scatto e sussultare.

    «Ramirez, sei tu?» disse il tizio di guardia poi, come una sorta di stretta interiore lo stesse soffocando sgranò gli occhi, mentre Atsak gli si avvicinava con calma. L’uomo, ancora seduto, tremò per alcuni istanti ed emise un gemito strozzato, come i polmoni avessero espulso con fatica un respiro costretto. Non avrebbe dovuto addormentarsi, era a conoscenza di quanto fosse pericoloso colui che attendevano. Non avrebbero dovuto dargli alcun vantaggio.

    Il tizio di guardia si piegò con la schiena e il suo capo scivolò pesante sulle ginocchia. Atsak alzò lo sguardo sulla porta alle spalle di quell’uomo, percepiva la vibrazione sempre più forte: l’anima di sua sorella era oltre quella porta, non aveva alcun dubbio.

    Entrò con cautela. La luce bianca del neon illuminava la stanza quadrata e priva di finestre. Quella luce rifletteva sul volto bianco di Kahmiri, sdraiata sul letto al centro della stanza, gli occhi chiusi. L’ago di una flebo, infilato sul dorso della mano destra, risaliva la manica della vestaglia azzurra. Dalle caviglie, dai polsi e dal torace partivano una decina di fili collegati a un sistema di monitoraggio di fianco al letto da cui, ogni due secondi, fuoriusciva il suono meccanico del rilevatore cardiaco a tagliare il silenzio. Era ancora viva. Era tenuta in vita e quando si avvicinò al letto, dentro una delicatezza che per Atsak sembrava non avere tempo, le accarezzò una guancia.

    «Kahmiri» sussurrò.

    ~

    Otto uomini, subito fuori della stanza si muovevano in assoluto silenzio lungo il corridoio. Erano armati, vestiti con abiti civili, i loro movimenti erano precisi e coordinati: militari, avresti potuto tranquillamente sostenere. In testa c’era quello che doveva essere il loro capo, un tizio con una vistosa macchia di vitiligine che gli copriva il mento e la guancia sinistra. Camminavano con cautela, in prossimità della porta. Uno di loro verificò che il proiettile narcotizzante ad ago fosse correttamente inserito nel caricatore della propria pistola. Catturarlo vivo, queste erano le due parole che ognuno aveva ben impresso in mente.

    Gli otto uomini arrivarono a ridosso della porta, passarono accanto alla sedia dov’era afflosciato il corpo senza vita della guardia. Il tizio con la macchia di vitiligine fece un cenno con la mano e quattro uomini gli sfilarono ai lati e si posizionarono, le pistole puntate, dinanzi alla porta.

    ~

    Atsak guardava Kahmiri sdraiata sul letto, la guardava e le accarezzava con la punta delle dita le lunghe ciocche di capelli rossi. Percepiva il battito del cuore di lei, un battito calmo, come il respiro tranquillo e innocente: assaporava le vibrazioni della sua presenza, era come stringerla a sé, senza sfiorarla.

    D’un tratto Atsak si volse verso la porta chiusa e avvertì la presenza degli uomini fuori, li avvertiva chiaramente, tutti e otto. Sospirò e senza alcun indugio puntò la canna della Wesson calibro trentotto al centro della fronte di sua sorella. Fece fuoco.

    Nello stesso istante quattro uomini entrarono, puntarono le pistole contro Atsak e spararono, centrandolo con tre colpi che lo fecero indietreggiare. Tre fitte acute, tre gelide morse a stringergli i muscoli partirono dai punti da cui i proiettili si erano conficcati. Nella lucidità di quell’istante Atsak percepì le forze abbandonarlo, consapevole del sonnifero che velocemente fluiva nelle vene ed entrava in circolo. Con entrambe le mani alzò la pistola fino al viso, sforzandosi come stesse sollevando un’incudine. La gamba destra cedette e lui cadde in ginocchio sul pavimento. Avvicinò il viso alla pistola, stretta tra le due mani tremanti. Riuscì a ruotare i polsi fino a inserire la canna dell’arma in bocca. Con l’ultimo frammento di energia spinse sul grilletto.

    La Wesson calibro trentotto fece fuoco.

    2010. Aprile

    Italia

    «E così, lei non crede nell’immortalità dell’anima?»

    «No, egregio Michaìl Averjànyic, non ci credo, e non ho alcun motivo per crederci.»

    «Devo riconoscere che anche io ne dubito, eppure, ho come la sensazione di non dover mai morire.»

    A. Čechov

    «Dobbiamo uscire alla prossima» disse Manuela.

    «Come?» gli rispose Andrea, senza voltarsi e senza togliere le mani dal volante.

    «Modena, cinque chilometri, non hai visto il cartello?»

    «Sì» disse Andrea, poi spostò lo sguardo sullo specchietto retrovisore e ruotò il volante dell’Alfa 147 muovendo l’auto sulla corsia di destra.

    «A cosa stai pensando?» disse Manuela.

    «Lo sai a cosa sto pensando.»

    «Quante storie» lei sbuffò, e dopo aver abbassato il parasole, servendosi dello specchietto di cortesia, valutò che l’eyeliner non avesse sbavature. «È stato lui a insistere per conoscerti» disse Manuela, e con la punta dell’indice corresse la linea del trucco sul ciglio della palpebra sinistra, poi rialzò il parasole.

    «Non faccio nessuna storia» disse Andrea, «più che altro sono poco pratico nella gestione delle parentele.»

    «Neanche ti stessi portando a una serata di gala con zii, nipoti, fratelli e chissà chi. È solo mio padre che ci ha invitati a pranzo. In tranquillità, solo noi tre.»

    «Basta e avanza» rispose Andrea, «e poi non sono un esperto di storia del cinema» Andrea mosse verso l’alto la leva degli indicatori di direzione.

    «Mica dovremo parlare unicamente del suo lavoro» disse Manuela, «una volta, forse, sarebbe stato così.» Manuela fece una pausa, riempita in un istante dal ricordo di lei bambina, dei suoi genitori seduti a tavola a discutere animatamente del lavoro del padre. Le sue interminabili digressioni sul significato drammaturgico di quella scelta di regia o piuttosto dell’errore di una ripresa o montaggio poco appropriato.

    «Sembrava esistessero unicamente i suoi corsi all’accademia e la cinematografia» disse Manuela, «quasi volesse attribuire un qualche significato a ogni opera che veicolasse la visione del mondo in prospettiva filosofica. Diceva proprio così mio padre.»

    «Ah» disse Andrea, interrompendo la successiva pausa di Manuela.

    «Poi, non so» proseguì lei, «negli ultimi mesi, sembra un altro uomo.» Il sorriso sul volto di Manuela sembrò cancellare l’accenno di stupore nel tono della sua voce, e comparve una sfumatura nella sua espressione che avresti potuto assimilare alla gioia, o qualcosa del genere.

    «Secondo me ha una fidanzata» disse Manuela.

    «Non ci sarebbe nulla di male» disse Andrea.

    «Sì è così, e ne sarei felice.» Manuela senza attenzione guardò scorrere oltre il finestrino il cartello segnalatore che indicava l’uscita Modena sud.

    «Da quando è morta la mamma sembrava non volersi più riprendere» Manuela si chiuse lievemente nelle spalle, «poi è successo qualcosa» disse, e rimase in silenzio. Andrea le posò la mano sul ginocchio e con le dita strinse un po’, dentro una carezza che la fece sorridere, poi lei disse: «e comunque non preoccuparti. Parleremo di fisica subnucleare e teoremi sulla… come si chiama? Declinazione umorale quantica?»

    «Dilatazione temporale quantica» Andrea sorrise, «e credo proprio tuo padre voglia parlare di tutto fuorché fisica. Piuttosto, gli interessa qualche sport?»

    «Una volta mi ha portato a vedere il basket, la Fortitudo o qualcosa del genere, erano tutti altissimi comunque, e con delle spalle così.»

    «Ecco vedi, non mi sei proprio d’aiuto, come diavolo faccio a fare bella figura se non so neanche quali sono i suoi gusti. Tu vuoi boicottarmi» disse Andrea. Manuela lo guardò, poi disse: «allora il mio bel fisico supernucleare ci tiene proprio a far bella figura.»

    «Certo che ci tengo» Andrea fermò l’auto accanto alla postazione di pedaggio automatica. «Accidenti» disse, «è il mio primo incontro con tuo padre. Per quale arcana ragione dovrei voler fare una brutta figura.» Manuela guardava Andrea, proiettato fuori dal finestrino, intento ad armeggiare con il biglietto dell’autostrada e la tessera del bancomat.

    «Inserire la tessera» disse la voce registrata della postazione di pedaggio.

    «Smettila di fissarmi così, boicottatrice» sorrise Andrea, la tessera del bancomat fra le dita e il braccio teso fuori dal finestrino.

    «E poi se gli risulto poco simpatico?» la sbarra dinanzi l’auto si alzò e Andrea partì.

    «Mio padre è una persona tranquilla, ecco sì, tranquilla. Lo definirei così.»

    «Non sto mai simpatico a nessuno alla prima occasione, ho sempre bisogno di un po’ di tempo per rendere l’idea di quale persona meravigliosa io sia» Andrea si volse verso Manuela con un gran sorriso, poi le lanciò un bacio. Manuela guardò in alto e sospirò, «O santo egoriferimento aiutaci. Forza mister meravigliosità, entra in superstrada.»

    ~

    Dopo una decina di minuti arrivarono a Maranello, un paesino in periferia di Modena. Manuela era intenta a scrivere un sms e non prestava attenzione alla strada.

    «È qui vero?» disse Andrea, dopo essere uscito dalla via principale e avere immesso l’auto in una stradina asfaltata. Guardando sulla destra potevi immergere lo sguardo in una vasta distesa racchiusa tra i colli smussati degli appennini emiliani, a sinistra la stradina costeggiava una serie di villette con dei grandi giardini circondati da siepi di pitosforo e alloro. Andrea non era mai stato in quel posto, tantomeno conosceva la posizione della casa del padre di Manuela. Non sapeva dirsi il motivo, eppure una sorta di sensazione interiore lo aveva spinto a svoltare proprio a quell’incrocio. Manuela alzò lo sguardo e si guardò intorno.

    «Ah, scusami. È questa la strada sì» e indicò oltre il parabrezza «è la penultima casa, quella con la staccionata di legno» poi riprese a digitare il suo sms, «sto scrivendo a papà che siamo arrivati» disse.

    Andrea si compiacque tra sé e sé, non aveva consapevolezza del motivo, eppure aveva già focalizzato come destinazione la villa dalla staccionata di legno in fondo alla stradina. Il suo sesto senso: accidenti, si disse, non sbagliava mai.

    Andrea fermò l’auto dinanzi il cancello color bronzo. Manuela scese e spinse il tasto del citofono di fianco alle inferriate del cancello. Attese alcuni istanti poi disse nell’apparecchio: «siamo noi.» Il cancello iniziò a scorrere lateralmente lungo la guida. Andrea percorse con l’auto la breve strada di ghiaia che divideva il giardino ben curato di rose, siepi di alloro, genziane e lauroceraso e parcheggiò a pochi passi dalla porta d’ingresso della villa, di fianco a una Saab nera tre volumi e una motocicletta di grossa cilindrata.

    «Caspita» disse Andrea, osservando i due terminali dello scarico che fuoriuscivano da sotto la sella del passeggero della motocicletta, «questa è di tuo padre?»

    «Non saprei» disse Manuela, scendendo dall’auto, «sicuramente non gli sono mai piaciute le motociclette.» Anche Andrea scese dall’auto, in mano una bottiglia di Cabernet.

    «Beh» disse, «questa Yamaha è da intenditori» mentre assaporava il buon argomento che avrebbe utilizzato per rompere il ghiaccio. «È un bicilindrico millesette di cilindrata questa qui, bisogna essere tutt’altro che tranquilli per portare una bestia come…» Andrea s’interruppe e fissò la porta d’ingresso. D’un tratto percepì un lieve vuoto allo stomaco e sentì i palmi delle mani inumidirsi.

    «Che ti è preso?» disse Manuela, «sei nervoso?»

    «No, no. Non penso proprio» disse Andrea, rendendosi conto di mentire un po’ a se stesso. Era nervoso? Forse lo era in effetti, eppure quel termine non rendeva completezza al suo stato d’animo che, in fondo, non riusciva bene a inquadrare.

    La porta d’ingresso si aprì e il professor Giorgio del Greco comparve. Un uomo sorridente, dai capelli color cenere ma per nulla radi e gli occhi di un azzurro così acceso da sembrare irreali. Andrea sapeva che il padre di Manuela andava per i sessanta, ma gli avresti potuto dare dieci anni in meno. Poi lo vide aprire le braccia a Manuela. Quel che Andrea aveva davanti agli occhi era un padre che salutava la propria figlia.

    «Ciao papà» disse lei. Lo strinse e lo baciò sulla guancia. Il professor Del Greco riempì la propria espressione con un gran sorriso, si avvicinò ad Andrea e gli porse la mano, «tu sei il giovane scienziato, finalmente posso conoscerti, è un piacere.» Andrea strinse la mano al padre di Manuela, incrociò il suo sguardo e rimase attonito, in silenzio. In ascolto del suo, come dire, nervosismo che sembrava bloccargli la voce. Non poteva spiegarsi la ragione di quel fremito interiore che continuava a costringergli lo stomaco in una sorta di morsa pulsante. Va bene, si disse. Deglutì impercettibilmente e diamine, non aveva più quindici anni, ancora si disse.

    D’altro canto, percepiva una sorta di piacere viscerale nello sguardo così acceso di quell’uomo che lo teneva gradevolmente in quello stallo. Un piacere, o qualcosa del genere, che ancora continuava a non capire. Fu allora che Manuela gli posò il palmo della mano sul fianco e strinse lievemente, e disse «Papà, lui è Andrea. Senti ma quella motocicletta è tua?» Manuela sorrise e lanciò un’occhiata ad Andrea e lui immediatamente decifrò il messaggio di lei: che diavolo stai facendo?

    «Oh certo, sì» disse Andrea, «è un piacere anche per me.» Il professor Del Greco sorrise e lasciò la mano di Andrea e disse a sua figlia: «non è mai troppo tardi per togliersi qualche sfizio. In fondo sono sempre stato un cavaliere, quello che mi è mancato fino a oggi era un bel cavallo stile ventunesimo secolo.»

    «Ti ricordo che a quattordici anni, quando ti chiesi il motorino, tu dicesti mai su quei trabiccoli a due ruote.» Il professor Del Greco sorrise, poi disse: «quelli erano altri tempi, altri pensieri, altri approcci…»

    «Ecco» lo interruppe Manuela, «dovevi cambiare approccio proprio adesso che sono sopra i trenta?»

    «Forza, entrate» suo padre sorrise, accompagnando con un gesto della mano Manuela e Andrea, «sto morendo di fame.»

    ~

    In soggiorno, ampio e illuminato da una coppia di grandi finestre che affacciavano sul giardino, il tavolo da pranzo era già apparecchiato per tre persone e al suo centro occhieggiava un vassoio di tartine dall’aspetto delizioso. Un lungo divano in alcantara bordeaux con una chaise longue era rivolto verso il televisore al plasma. Lungo la parete opposta, sul ripiano di un’antica madia in legno povero, dei pesci nuotavano in un grande acquario esagonale.

    Andrea posò la bottiglia di Cabernet sul tavolo e osservò il dipinto appeso alla parete sopra l’acquario: un uomo, seduto e avvolto in un velo trasparente dal quale intravedevi il costato ossuto e deperito era immerso fino allo stomaco in uno sfondo cupo di pennellate decise. Il suo viso, in maniera surreale era riverso sulla spalla, il collo a novanta gradi rispetto al busto. La sua espressione disperata, stilizzata in quegli occhi chiusi di uno sguardo intrappolato, sembrava voler comunque oltrepassare la tela in una richiesta di salvezza. Salvezza da un qualcosa che dava l’impressione di consumare quel poveretto in una qualche maniera.

    «Oh Gesù, papà ma quel quadro?»

    «Lo ha dipinto un pittore italiano, poco prima di morire del male che lo corrodeva. Nel dipinto è raffigurato lui stesso.» Rimasero alcuni istanti in silenzio. Andrea non riusciva a distogliere lo sguardo dal viso dell’uomo nel quadro. Quel pittore aveva dipinto il suo stesso male, aveva guardato negli occhi la morte nell’istante in cui lo aveva afferrato per mano e gli sussurrava a un palmo dall’orecchio il suo destino. Aveva impresso, a sua insaputa, proprio la morte. Le aveva giocato un bello scherzo alla morte, in fondo, quel pittore o forse, la morte aveva cercato quel pittore, colta da un sussulto di vanità aveva voluto mostrarsi in tutta la sua grandezza attraverso il tratto di quell’artista al suo ultimo respiro.

    «Non ho potuto fare a meno di acquistarlo» disse il padre di Manuela.

    «È molto… potente» disse Andrea, mentre in qualche modo sentiva ancor più forte, dinanzi a quel quadro, l’imbarazzo di pronunciare qualsiasi altra parola.

    «Già» disse Manuela. Poi distolse l’attenzione dal dipinto, l’espressione di chi avesse dovuto forzarsi per pensare ad altro.

    «Ottima scelta» disse il professor Del Greco osservando l’etichetta sulla bottiglia di Cabernet. Andrea sorrise, imbarazzato dal bisogno di rompere in qualche modo quel suo stato d’impasse. Più che altro sentiva la necessità di togliersi dalle spalle il velo d’inquietudine che l’uomo nel dipinto gli aveva avvolto attorno come una veste.

    Intanto il professor Del Greco, con in mano un cavatappi di acciaio si dava da fare sulla bottiglia di Cabernet e subito dopo averla aperta prese un decanter da dentro la madia in legno povero e vi versò il vino.

    «Merita di riposare un po’» disse il professor Del Greco, mentre il gorgoglio del vino bruno spargeva un lieve aroma fruttato di prugna e sorba nell’aria.

    «Interessante la metafora del cavallo» disse Andrea. Manuela e suo padre lo guardarono incuriositi.

    «Ho sempre immaginato» proseguì Andrea, «che l’uomo, inteso come genere maschile dell’Homo sapiens, sia attratto dai motori in quanto espressione dei ricordi delle vite vissute ai tempi del cavallo. Per esempio, a seconda del tipo di mezzo scelto, si potrebbe intuire lo stile del cavaliere. Cacciatore, corridore, contadino, trasportatore, ognuno sceglie una varietà di auto o motocicletta in base alla propria natura inconscia.» Il professor Del Greco si pizzicò il mento con le dita e guardò negli occhi Andrea, che abbassò timidamente lo sguardo e prese una tartina dal vassoio sul ripiano del tavolo.

    «Mi piace ciò che dici, Andrea» disse, «presuppone una visione, oserei dire, quasi buddista. C’è un interessante film, Samsara, è del 2001, parla di un monaco e dei suoi dubbi sui concetti della reincarnazione. Ti interessi di buddismo per caso?»

    «Oh, ecco, no. Veramente no» Andrea disse, e poi levò gli occhi al cielo: «mi ritengo più che altro agnostico, o forse più razionalista. Non credo esista un Dio o qualcosa di simile che controlli tutto e tutti. D’altro canto anche se così non fosse, ovvero esistesse un Dio non rimarrei stupito anzi, sarebbe interessante studiare i concetti fisici su come è fatto un Dio e come espleta le sue attività.»

    «Papà non era una battuta. Se un giorno si dimostrasse l’esistenza di Dio Andrea sarebbe più interessato a procurarsi un’unghia, un ciglio o un pezzetto di pelle. Metterebbe tutto nell’acceleratore di particelle al Gran Sasso e starebbe lì a studiare la collisione dei divini frammenti» sorrise Manuela, «farebbe proprio questo, sono sicura, piuttosto che chiedere una benedizione per il paradiso o una vita serena.»

    Il professor Del Greco rise e indicò la tavola. Sua figlia sedette di spalle al quadro, Andrea proprio dinanzi a lei, per osservare il dipinto dell’uomo morente che, immerso nell’immobilità del suo sguardo, sembrava gridare al mondo la propria angoscia. E Andrea credette di poter ascoltare quel grido silenzioso, che poteva proprio assomigliare al sussurro della morte, o quasi.

    ***

    «Approfondiamo il tuo pensiero riguardo al cavaliere e le motociclette, Andrea» disse il professor Del Greco, dopo un po’ che avevano iniziato il pranzo, «sono interessato a questo concetto sulle vite passate.»

    «Oh no, papà ti scongiuro non farlo» disse Manuela, «se lo accendi con questi discorsi, poi non si spegne più!» e con la forchetta infilò un tortellino dal vassoio appena portato a tavola. Andrea sorrise a Manuela, dentro una maniera in cui potevi riconoscere un accenno di complicità.

    «Non ho fretta» disse il professor Del Greco, «abbiamo vino in abbondanza in cantina» e bevve un sorso dal bicchiere di Cabernet.

    «Ti dicevo Andrea, molti filosofi hanno da sempre cercato di dare spiegazione al continuum tra vita e morte. Platone, Timeo di Loci e altri ancora sostenevano la presenza del soffio divino, la nostra anima insomma, immortale e incorporea che presiede l’esistenza dell’uomo, degli animali e addirittura della stessa terra.»

    «Certo» disse Andrea, «se esistesse realmente un’anima mi piacerebbe sapere di cosa è fatta, di che materia è fatta. Eppure ancora nessuno è in grado di darle una consistenza fisica reale, quindi per ora rimane un concetto astratto, filosofico, o uno spunto per la trama di un film di fantascienza.» Il professor Del Greco sorrise, e ad Andrea parve di notare una sorta d’espressione d’intesa nel suo sguardo. Intesa sì, o di sicuro qualcosa di molto simile. Filosofia e film, aveva ben calibrato l’utilizzo dei due termini, pensò. Gli parve di sentirsi più rilassato. Sì, stavolta rilassato era il termine corretto.

    «Papà» Manuela disse, «ti ho già detto che Andrea si occupa di fisica?»

    «Certo, sì» annuì il professor Del Greco, poi disse ad Andrea: «Manuela mi accennava dei tuoi studi sull’antimateria, e che stai portando avanti un bel progetto di lavoro a livello internazionale.»

    «In effetti sì» disse Andrea, «il prossimo mese dovremmo presentare importanti dati all’università di Cambridge.»

    «Di cosa si tratta? A grandi linee per favore, non sono un esperto» il padre di Manuela sorrise e bevve un sorso di vino dal bicchiere. Andrea finì di masticare il suo boccone.

    «Per farla semplice» disse poi, «mentre studiavamo alcune equazioni che descrivono le dinamiche degli scontri tra particelle subatomiche, abbiamo notato incongruenze tra i dati sperimentali e quelli teorizzati. Queste incongruenze potrebbero scomparire aggiungendo una sorta di costante nelle strutture matematiche. I valori di questa costante sono molto simili al comportamento della materia. Insomma» disse, poi si schiarì la voce con un lieve colpo di tosse e cercò le parole più semplici, «per farla breve, sembra ci sia altra materia nel cosmo, materia invisibile. O almeno non rilevabile a oggi con i test e le strumentazioni conosciute. Una materia esistente, nella quale siamo immersi da sempre, senza rendercene conto.»

    «Ho visto un documentario su qualcosa del genere» disse il professor Del Greco, «immagino tu stia parlando di materia oscura?»

    «Sì» rispose Andrea, più sciolto dall’avere dinanzi un interlocutore interessato e soprattutto non avulso all’argomento. «In realtà non abbiamo scoperto nulla di nuovo, la materia oscura è già ipotizzata da tempo. Vorremmo confermare che si tratta proprio di materia oscura, e i nostri test proverebbero l’esistenza sperimentale quantificandone l’entità. Fondamentalmente stiamo solo spostando le tessere di un puzzle ancora ignoto, per vedere se si incastrano nella direzione che immaginiamo.»

    «Interessante» disse il padre di Manuela, «sarebbe proprio avvincente associare questi tuoi studi al concetto dell’anima. Potrebbe uscirne un’ottima sceneggiatura.» Il professor Del Greco rimase con lo sguardo fisso su quello di Andrea. Quello sguardo: per una frazione di secondo ad Andrea parve così familiare, gli parve che - e ancora una volta non sapeva trovare un chiarimento immediato - quell’affermazione non fosse poi così insensata. A volte gli capitava di osservare un qualsiasi fenomeno di vita normale: il cammino di un uomo, una foglia cadere da un albero, la frenata di una bicicletta, e subito la sua mente trasformava quella dinamica quotidiana in un’equazione matematica nella quale il significato dell’evento, dividendo e moltiplicando gli attriti, le accelerazioni gravitazionali e le altre grandezze fisiche implicate, diveniva così immediato dinanzi ai suoi occhi.

    Come in quell’istante, E=mc², gli parve sentirsi suggerire da quello che chiamava il suo sesto senso, senza focalizzare un motivo particolare riguardo al perché una delle equazioni alle quali era più legato, per stima e rispetto di quella grandiosa personalità quale Albert Einstein era stato ai suoi occhi, fosse improvvisamente affiorata alla superficie delle sue riflessioni.

    «Beh» disse Andrea, distogliendo lo sguardo da quello del padre di Manuela, «come questo concetto possa legarsi all’anima onestamente non lo so.» Poi, come pressato da una spinta riflessiva alla quale non poté fare a meno di soggiacere disse: «in effetti sì» Andrea riprese lo sguardo del professor Del Greco, «in effetti non avevo mai pensato al risvolto esoterico, potrebbe avere una sua applicabilità, se proprio vogliamo divertirci a dibatterne.»

    «Quindi l’anima c’è» disse Manuela battendo due volte sul ripiano del tavolo la forchetta, come volesse attirare a sé l’attenzione del discorso.

    «L’anima c’è, ed è fatta di materia oscura. Giusto papà, oltre che per una sceneggiatura potrebbe essere un’idea interessante da dare in pasto a qualche bravo fisico» Manuela sorrise ad Andrea.

    «Partiamo dal presupposto» proseguì Andrea, «che la materia oscura esista e che si possa suddividere in singole unità. Diciamo che queste unità possano legarsi in qualche modo con i sistemi organici complessi.»

    «Cosa intendi per sistema organico complesso?» domandò Manuela.

    «Intendo sistemi cellulari organizzati» disse Andrea, «un insetto, un animale, qualcosa che

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