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Le Reliquie dei Templari - Volume 3. Alabastros Cratir
Le Reliquie dei Templari - Volume 3. Alabastros Cratir
Le Reliquie dei Templari - Volume 3. Alabastros Cratir
E-book329 pagine4 ore

Le Reliquie dei Templari - Volume 3. Alabastros Cratir

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Info su questo ebook

ROMANZO THRILLER TRILOGIA LE RELIQUIE DEI TEMPLARI 1. LA CHIAVE DI SALOMONE 2. IL MISTERO DELLA SINDONE 3. ALABASTROS CRATIRDopo secoli di ricerche attraverso l'Europa, l'importante rivelazione... Il SANTO GRAAL, la meravigliosa reliquia che intere generazioni hanno cercato in lungo e in largo per il mondo si trova in Italia...scorpi dove! Davanti agli occhi di tutti per secoli...troppo ciechi per poterlo vedere. ALABASTROS CRATIR, il NUOVO ROMANZO di Lanfranco Pesci rivela il luogo esatto in cui si trova il SANTO GRAAL e ne ricostruisce i 2000 anni di storia.Terzo e ultimo capitolo della trilogia "Le reliquie dei Templari".Marco 14,3 - Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vaso di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vaso di alabastro e versò l'unguento sul suo capo. Giovanni 12,4 - Giuda Iscariota, figlio di Simone, quello che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto quest'olio per trecento denari e non si è dato il ricavato ai poveri?». Gesù dunque disse: «Lasciala; essa l'ha conservato per il giorno della mia sepoltura». Il vaso di alabastro, rotto, conservato per il giorno della sepoltura, fu portato da Maria Maddalena al sepolcro. Come finì il sangue di Cristo in quel vaso di alabastro? Come quel vaso diventò il famigerato Santo Graal? Dove si trova oggi quel vaso? Davanti agli occhi di tutti per secoli...troppo ciechi per poterlo vedere.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2023
ISBN9791222715520
Le Reliquie dei Templari - Volume 3. Alabastros Cratir

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    Anteprima del libro

    Le Reliquie dei Templari - Volume 3. Alabastros Cratir - Lanfranco Pesci

    Alabastros

    Cratir

    Ai miei figli,

    custodi di un futuro

    tutt’altro che certo,

    affinché la saggezza

    vi guidi verso scelte

    giuste e lungimiranti

    1

    Limoux, Linguadoca-Rossiglione, Francia

    Le strade della piccola cittadina erano gremite di gente. La festa patronale aveva attirato visitatori dai paesi limitrofi e la città era in fermento. Innumerevoli bancarelle allineate ai bordi delle strade offrivano ogni tipo di merce ai prezzi più disparati. Artisti di strada intrattenevano piccoli spettacoli improvvisati, tenendo sempre ben visibile il piattino per le offerte.

    Due losche figure intanto si facevo strada tra la gente, apparentemente disinteressate a tutto quello che accadeva attorno, il cappuccio dei mantelli che indossavano era riverso sul capo, in modo da nascondere anche il volto.

    Tutto quel caos contribuiva favorevolmente a fare in modo che potessero raggiungere la loro destinazione in maniera inosservata.

    Il grande vociare dei venditori ambulanti, della gente e dei bambini che si rincorrevano sui marciapiedi venne coperto per pochi istanti dai forti rintocchi delle campane della chiesa di Notre Dame de Marceille.

    I due individui si fermarono sotto un porticato, davanti al portone di un palazzo piuttosto datato. Le persiane verdi delle finestre che si affacciavano sulla strada erano tutte chiuse, sembrava che il palazzo fosse disabitato.

    Rapidamente uno dei due forzò la serratura del portone coperto dal suo amico.

    In pochi istanti entrarono nella struttura. La stanza in cui si ritrovarono era priva di arredi, dalle finestre entravano solo i pochi raggi di luce che riuscivano a farsi strada tra le ammaccature e le crepe delle persiane. Si guardarono attorno, cercando di individuare verso quale direzione avrebbero dovuto incamminarsi per scovare la loro preda.

    Alcuni rumori dai piani superiori attirarono la loro attenzione.

    Muovendosi in punta di piedi salirono le scale, continuando ad ascoltare e a guardarsi intorno. Entrambi impugnavano saldamente nella loro mano destra un coltello dalla lama affilatissima, le loro intenzioni non dovevano essere delle migliori.

    Di nuovo un rumore li mise in allerta, proveniva dalla stanza di un corridoio nella parte destra del palazzo, al primo piano.

    In pochi istanti si trovarono a qualche metro dalla porta di quella stanza.

    Il più alto dei due prese qualcosa dalla tasca. Erano dei ferretti piuttosto sottili, ottimi per scassinare la serratura. Lentamente, trattenendo il respiro li infilò nella fessura. Il più piccolo errore sarebbe stato fatale.

    L’altro teneva d’occhio il corridoio, per evitare spiacevoli imprevisti.

    Improvvisamente udirono dall’interno di quella stanza un rumore metallico. Senza dubbio era il rumore di una catena che veniva trascinata.

    Forse l’occupante della stanza si era accorto della loro presenza nel corridoio ed aveva afferrato la prima cosa che aveva trovato per difendersi da una aggressione.

    Non importava. Dovevano andare avanti.

    Dopo qualche istante l’uomo forzò la serratura e la porta cominciò a scorrere.

    Repentinamente fecero irruzione all’interno, pronti a scagliare le loro lame al minimo accenno di ostilità.

    L’immagine che si ritrovarono davanti li lasciò sbalorditi.

    Una ragazza con indosso soltanto un reggiseno e un paio di mutandine era riversa sul pavimento. Dai polsi e dalle caviglie le pendevano quattro catene attaccate al muro. Lunghe soltanto un paio di metri, non le permettevano di poter compiere i movimenti con facilità.

    Poco distante da lei c’era un secchio di colore azzurro, senza dubbio un contenitore di fortuna che le permetteva di espletare i propri bisogni fisiologici. L’intenso cattivo odore che si diffondeva nella stanza confermava questa ipotesi.

    Le pareti erano completamente tappezzate di contenitori in cartone per uova, quel materiale fonoassorbente rendeva quella stanza assolutamente insonorizzata. Doveva saperne qualcosa quella ragazza. Soltanto lei poteva sapere per quanto tempo avesse urlato in cerca di aiuto prima di accorgersi che nessuno sarebbe mai accorso.

    L’intimo bianco e la sua pelle chiara davano l’impressione che fosse proprio una preda indifesa nella tana del lupo. Fortunatamente di lì a breve le sue pene si sarebbero concluse.

    Stordita dalla fame e dal freddo, la ragazza alzò lo sguardo tremando. Nessuno dei due uomini che aveva davanti era lo stesso che periodicamente andava da lei e la sottoponeva ad ogni tipo di violenza, fisica, mentale e sessuale.

    Delle lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi, era riuscita a vedere un barlume di speranza per la fine di quell’incubo.

    Uno dei due uomini si tolse il cappuccio e le mostrò il volto. Nella mano impugnava ancora saldamente il coltello.

    «Non preoccuparti, non vogliamo farti del male. Non siamo qui per questo. Lasciaci finire il nostro lavoro e poi manderemo qualcuno a liberarti».

    La ragazza allungò le braccia verso di loro e scoppiò a piangere. La voce calda di quell’uomo grosso e muscoloso la rassicurò. Quell’incubo era finito.

    L’uomo si ricoprì il capo con il cappuccio, nascondendo i corti capelli biondi.

    Senza attendere altro tempo ritornarono sui loro passi e richiusero la porta. La ricerca non era finita. Bisognava controllare nei piani superiori. Erano fin troppo certi che la loro preda fosse entrata in quell’edificio. Non potevano sbagliare.

    Altri rumori provenivano dal piano superiore, questa volta molto più distinti. Erano i gemiti di una donna misti al pianto. Sicuramente quel maiale stava abusando dell’ennesima ragazza indifesa.

    Raggiunsero in fretta il luogo da cui provenivano i rumori, una stanza sul lato di un altro corridoio. Questa volta la porta era aperta, non c’era bisogno di scassinare alcuna serratura. Su quel piano le finestre non lasciavano entrare alcun raggio di luce, l’oscurità non lasciava intravedere quasi nulla.

    All’interno della stanza la luce era molto più intensa e tremolante, dovevano esserci delle candele accese.

    I due si avvicinarono senza far rumore e si appostarono su un lato della porta.

    Ai quattro angoli della stanza c’erano dei candelabri, sui muri strani simboli inneggianti al demonio. Al centro, un materasso con delle lenzuola color cremisi a contatto col pavimento. Sopra di esso giaceva una donna nuda, con un bavaglio stretto attorno alla bocca, le mani e le caviglie legate con delle corde. Il suo volto era colmo di lacrime, singhiozzava non riuscendo quasi a respirare.

    L’uomo si trovava dietro di lei, era affaticato, il respiro pesante. Con tutta probabilità aveva appena finito di abusare di quella donna in un rito satanico.

    Si alzò lentamente, barcollando si avvicinò ad un banco sul quale erano sistemate strane suppellettili. Un pentacolo in ferro battuto, un teschio, un espositore contenente un pugnale la cui impugnatura terminava con una testa di capra.

    Sembrava piuttosto prevedibile cosa sarebbe accaduto di lì a pochi istanti.

    L’uomo afferrò il pugnale e si voltò verso la donna.

    Lei era lì, ancora rannicchiata sul materasso, tremante. Si rifiutava di guardare cosa stesse facendo quell’orribile mostro.

    Lui le si inginocchiò accanto e le posò una mano sul fianco, accarezzò quella pelle liscia per qualche secondo, poi sollevò la mano che impugnava il pugnale.

    I due assassini uscirono allo scoperto e si fermarono proprio davanti a lui, a circa cinque metri di distanza.

    Il mostro li guardò sbalordito.

    Due figure oscure gli si erano parate davanti, indossavano mantelli neri ed erano senza volto.

    Immediatamente capì che la sua vita volgeva al termine, prima però avrebbe portato a termine il suo ultimo sacrificio. Sollevò ancora di più la mano col pugnale, pronto a colpire con forza.

    Due coltelli solcarono l’aria della stanza.

    Il primo gli si conficcò nella gola, facendogli spalancare la bocca in cerca di un ultimo respiro. Il secondo andò a conficcarsi diritto nel cuore, facendo zampillare un fiotto di sangue che finì sul seno della ragazza.

    Mentre le forze lo abbandonavano velocemente, le braccia si adagiavano sui fianchi e la testa si reclinava in avanti, con gli occhi ancora spalancati. In un gesto disperato raccolse tutte le forze che ancora possedeva, stringendo il pugnale con entrambe le mani. Lo rivolse verso di sé e se lo piantò nel ventre. Sarebbe stato lui stesso la vittima sacrificale del suo ultimo rito.

    Il suo corpo ormai privo di vita si accasciò addosso alla ragazza, rimasta lì, incredula di ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi sofferenti.

    I due assassini abbassarono la guardia. Il loro lavoro era giunto al termine.

    2

    Ottobre 2016, Damasco, Siria

    Il forte vento sollevava la sottile polvere dal suolo e la spingeva in ogni anfratto di quei ruderi di ferro e cemento. Un misto di terra, stucco e cenere, risultato dei continui bombardamenti che ormai da mesi scandivano le giornate di quelle terre dimenticate da Dio, proprio le terre in cui duemila anni prima riecheggiavano le gesta di un uomo che si proclamava suo figlio, un uomo che resuscitava i morti e guariva dalle malattie con la sola imposizione delle mani. Terre rimaste impresse sui fogli di carta pergamenata stampati e rilegati, custoditi con indifferenza nelle librerie delle abitazioni di mezzo pianeta.

    Janette era alla guida dell’ambulanza che sfrecciava tra i cumuli di macerie del quartiere più martoriato della città, rimasto ormai deserto da mesi.

    La polizia di Damasco aveva avvisato l’ospedale da campo che si trovava nella periferia a sud, della presenza di un ferito tra i ruderi dell’edificio dove un tempo sorgeva uno dei più lussuosi alberghi della città, a quasi dieci chilometri da li.

    Non avevano saputo dare notizie più dettagliate. La polizia ormai non perlustrava più le zone abbandonate della città. Dopo le continue imboscate in cui le pattuglie erano state coinvolte, le autorità locali avevano interdetto alcune aree della città, in cui era stato istituito un rigido coprifuoco, dove solo le forze dell’esercito effettuavano saltuari controlli a colpi di cannone.

    Amir non si era messo alla guida del mezzo di soccorso perché aveva ancora la mano destra fasciata, la settimana precedente aveva dedicato anima e corpo a scavare sotto le macerie di una abitazione appena bombardata, per cercare di salvare Indila dalla morte per soffocamento. La ragazzina appena tredicenne era rimasta seppellita sotto un cumulo di detriti e sua madre cercava disperatamente aiuto per poterla tirare fuori. La mano di Amir era rimasta infilzata in uno spuntone d’acciaio, schiacciata da un pesante blocco di cemento.

    La sua forza di volontà gli permise di liberarsi e di continuare a scavare incurante del sangue che gli sgorgava dalla mano. Riversava dietro di sé la terra che lo separava dal pianto di quella ragazzina intrappolata. Dopo quasi mezz’ora di scavo frenetico e ininterrotto, finalmente uno spiraglio di luce penetrò nella nicchia che aveva protetto la ragazzina dalla morte sicura. Quel giorno un angelo aveva vegliato su di lei.

    L’uomo ferito era sdraiato sul suolo, entrambi i femori rotti e difficoltà respiratorie derivanti dallo schiacciamento del torace. Non appena sentì il frastuono delle sirene e vide tra i ruderi del palazzo la mezzaluna rossa stampata sulla fiancata di quel furgone color sabbia, capì che ancora poteva avere delle speranze.

    Janette e Amir si avvicinarono a lui, con la giusta cautela per evitare di rimanere anch’essi feriti.  In un batter d’occhio capirono cosa era accaduto. Non era raro dover intervenire tra i ruderi dei palazzi bombardati per soccorrere sciacalli che erano rimasti feriti cadendo tra le macerie mentre cercavano di recuperare oggetti preziosi abbandonati dai vecchi abitanti dell’edificio.

    Per quanto deplorevole fosse quell’uomo, la loro etica professionale li obbligava a prendersi cura di lui come di chiunque altro, indifferentemente dal colore della pelle, dal sesso e da qualsiasi ideologia politica o religiosa.

    Rapidamente Janette gli immobilizzò le gambe sfruttando bende compressive israeliane e cercò di sollevargli la parte anteriore del torace per agevolarlo nella respirazione.

    Quell’uomo doveva aver fatto proprio un bel volo prima di impattare contro il terreno spezzandosi le gambe contro una trave adagiata sul suolo. Il volto pallido non lasciava presagire nulla di buono. L’emorragia interna conseguente alla caduta non gli lasciava molte speranze di vita.

    Dopo alcuni secondi Amir tornò con una barella, la posò a terra accanto a quell’uomo e osservò Janette in attesa di istruzioni.

    «Al mio tre. Uno! Due! Tre!».

    Entrambi si sincronizzarono per poter trasferire il ferito sulla barella. Lo sistemarono nella parte posteriore dell’ambulanza e si incamminarono nuovamente verso l’ospedale da campo.

    Dopo che sei strutture ospedaliere della città erano state bersaglio dei bombardamenti della coalizione occidentale, Emergency e Medici Senza Frontiere avevano optato per la realizzazione di ospedali da campo nella periferia della città, con sale operatorie con lo stretto indispensabile per salvare la vita agli innocenti coinvolti in quella lotta per il potere.

    Arrivarono sgommando sul brecciato antistante la tenda adibita a sala operatoria, non avevano tempo da perdere.

    Due infermieri si fiondarono fuori a prelevare la barella con l’uomo in fin di vita.

    Janette e Amir si precipitarono nella tenda adiacente alla sala operatoria per prepararsi per il delicato intervento. Dovevano arginare l’emorragia interna e poi con più calma sistemargli i femori e il torace.

    Dopo neanche cinque minuti avevano già i ferri in mano e stavano sciogliendo i nodi delle bende fissate alle gambe.

    Amir stava sistemando un sacchetto di sangue zero negativo all’asta delle flebo per rimettergli in circolo almeno una parte di tutto quello che aveva perso.

    Proprio mentre stava posizionando l’avambraccio di quel moribondo, una mano gli fermò il braccio e gli impedì di infilare il tubo nell’ago cannula.

    Amir non capì.

    Janette si voltò con lo sguardo misto tra rabbia e stupore.

    Marcus, il nuovo dottore giunto a Damasco da sole due settimane, aveva bloccato Amir, per quello sciacallo non c’era più nulla da fare.

    Tra le mani aveva una siringa vuota, la infilò nell’ago cannula e prelevò un campione di sangue di quell’uomo.

    Una schiumetta biancastra stava già uscendo dalla bocca dell’uomo sdraiato sul lettino operatorio. Era appena entrato in stato di shock. Lentamente cominciò a tremare spalancando gli occhi e mordendosi la lingua in preda alle convulsioni.

    Janette gli infilò una garza in bocca, mentre Marcus aveva già preparato tre siringhe di morfina auto iniettanti. Gliele somministrò quasi contemporaneamente due nelle gambe e una sul pettorale sinistro. Lo sguardo di quell’uomo si tranquillizzò velocemente, gli spasmi cessarono e i suoi occhi lucidi facevano trasparire uno stato di pace interiore che sicuramente non aveva mai provato fino a quel momento.

    Dopo pochi secondi i suoi occhi si chiusero ed esalò l’ultimo respiro.

    Janette infuriata si tolse i guanti in lattice e li sbatté nel contenitore poco distante. Senza proferire parola uscì dalla tenda e si diresse verso il suo alloggio.

    Amir comprese il comportamento di Marcus.

    Avrebbero dovuto accettare sin dall’inizio il fatto che quell’uomo non ce l’avrebbe mai fatta, aveva perso così tanto sangue che nessuna trasfusione avrebbe mai potuto salvarlo, avrebbero sprecato del prezioso sangue senza alcun motivo.

    Quella guerra senza senso stava mettendo a dura prova i nervi di tutti.

    Quando Janette aveva deciso di dare il suo contributo nelle zone martoriate dalla guerra non poteva minimamente sapere che nella maggior parte dei casi che le sarebbero passati sotto mano non avrebbe dovuto fare altro che accompagnare i pazienti nei loro ultimi momenti di vita, anziani, donne o bambini che fossero. La guerra non faceva alcuna differenza. Per un giovane che salvavano c’erano dieci bambini che morivano, e il più delle volte per mancanza di medicinali e di strumenti per trattare le ferite.

    Quando si era decisa a partire, non aveva minimamente pensato a tutto questo, nonostante i suoi colleghi avessero cercato di farla ragionare. La sua vocazione l’aveva portata fino a lì, in un mondo dove chiunque possegga un minimo di razionalità, la perde dopo esser travolto dagli eventi.

    Marcus non era così.

    Lui era freddo e senza sentimenti. Riconosceva la morte già quando cominciava a specchiarsi negli occhi dei suoi pazienti. Lui sapeva bene come doveva prepararli all’incontro con Azrael.

    Amir lo ammirava molto. Durante uno dei loro fugaci colloqui avevano scherzato sul fatto che l’angelo della morte, in quei posti, negli ultimi periodi, avesse molto da fare.

    Marcus capì che Amir aveva cominciato a parlare di Azrael soltanto per testare la sua conoscenza dell’Islam. Da quel giorno infatti, dopo aver appurato che conosceva molto bene la tradizione islamica, aveva nutrito meno sospetti nei suoi confronti e se lo era quasi fatto amico.

    Con Janette invece i rapporti non erano molto sereni.

    Il nuovo medico era piombato in quella zona martoriata dalla guerra dopo che il precedente direttore dell’ospedale era stato ferito in un bombardamento.

    Quando Janette lo vide arrivare, un brivido le aveva percorso la schiena. Alto, muscoloso, dai corti capelli biondi. Taciturno e ed estremamente sicuro di sé. Mai una parola fuori posto e mai un momento di debolezza. Durante un bombardamento nel vecchio ospedale, soltanto due giorni dopo il suo arrivo, non aveva affatto pensato alla sua sicurezza. Era andato in giro per la struttura a recuperare vecchi e bambini per condurli al sicuro negli scantinati. Dopo aver egli stesso chiuso la pesante porta in ferro del sotterraneo trasformato in bunker aveva dato una rapida occhiata in giro per verificare se i medici fossero al sicuro. Li contò ad uno ad uno fino a quando il suo sguardo si incrociò con quello di lei. Si fissarono per alcuni secondi, poi lui tornò a verificare le condizioni del soffitto, per capire se fosse necessario puntellarlo con delle travi per evitare che piombasse sulle loro teste a causa delle continue esplosioni.

    Dopo qualche giorno Janette si era già innamorata di lui, ma Marcus non dava il minimo accenno per farle capire se anche lui provasse un minimo interesse.

    Dopo quasi quattro mesi di servizio in Siria, Janette sentiva proprio il bisogno fisiologico di avere un rapporto senza doversi preoccupare di essere contagiata da chissà quale infezione o malattia. Quell’uomo appena giunto dalla Francia meridionale sarebbe stato il compagno giusto con cui condividere quell’esperienza in ospedale da campo, in quella zona martoriata dalla guerra.

    Janette aveva sentito spesso di storie d’amore nate tra i volontari negli ospedali delle zone di guerra e lei, che prima non ne condivideva le ragioni, adesso aveva capito quanto fosse importante il sostegno e l’affetto di qualcuno in mezzo a tutta quella violenza.

    Poche sere prima, trovandosi da soli nella tenda adibita a luogo di svago, con la televisione satellitare e un calcio balilla, Janette offrì una birra a Marcus e cercò di baciarlo.

    La reazione di lui fu del tutto inaspettata. La bloccò mettendole una mano attorno al collo stringendo leggermente quasi a soffocarla senza dire una parola. Si limitò a guardarla profondamente negli occhi.

    Lei si divincolò e scappò via scoppiando in lacrime.

    Da quel momento non si erano più rivolti la parola. Janette non aveva capito quel gesto, mentre Marcus conosceva benissimo il motivo per cui si era comportato così.

    Avrebbe fatto l’amore con quella donna per ore e ore, ma in quella situazione non poteva premettersi un coinvolgimento affettivo, sarebbe stata la mossa più stupida che avesse potuto compiere. Un solo mese e poi sarebbe tornato in Francia al suo normale lavoro. Tutto doveva andare liscio come l’olio.

    Janette era appena entrata nella tenda laboratorio, dove Marcus stava effettuando alcune ricerche sul campione di sangue prelevato dall’uomo che era appena deceduto nella sala operatoria.

    Lo guardò seccata, quando non c’erano emergenze da gestire lui era sempre lì ad analizzare campioni di sangue. Cosa mai ci trovasse di interessante doveva saperlo soltanto lui.

    Per qualche istante Janette pensò che potesse essere una sorta di genetista in cerca di chissà quale caratteristica nel DNA di quel popolo. Lo aveva visto catalogare centinaia di campioni mettendone soltanto alcuni sotto ghiaccio per conservarli.

    In quel momento stava estrapolando il gruppo sanguigno dal campione appena raccolto. AB positivo.

    Non appena vide quel risultato Marcus inclinò la testa a destra e a sinistra per farsi scricchiolare le ossa del collo.

    Si voltò a guardare Janette, ma non disse nulla.

    Non l’aveva sentita entrare, ma aveva sentito il profumo del suo deodorante diffondersi nell’aria.

    Lei si avvicinò per osservare meglio cosa stesse facendo, lo aveva già fatto altre volte e Marcus non le aveva negato il permesso di farlo, le aveva soltanto detto di non fare troppe domande, ma di limitarsi a guardare.

    L’uomo afferrò un vetrino dal bancone e lasciò cadere su di esso una goccia di sangue dalla siringa che aveva nella mano destra. Poi lo posizionò nello strumento che aveva davanti a sé. Stava confrontando il campione di sangue con il Database mondiale dei dati biometrici per verificare se il DNA di quell’individuo fosse mai stato schedato.

    NOT MATCH. Il risultato fu negativo.

    La stampante si mise in funzione e stampò il referto dell’analisi su quel campione di sangue.

    Tra le tante informazioni che c’erano su quel foglio soltanto una attirò l’attenzione di Marcus. Ceppo mediorientale.

    Finalmente lo aveva trovato.

    Prese nuovamente la siringa e ne iniettò il contenuto all’interno di una boccetta sterile in vetro sigillandone il tappo.

    Raccolse le altre tre boccette che erano nel freezer e le gettò nel contenitore per i rifiuti medici, poi posizionò al posto di quelle tre la boccetta che aveva appena sigillato.

    Janette moriva dalla voglia di domandargli a cosa servisse quel sangue, ma già sapeva che non avrebbe mai ricevuto una risposta, quindi preferì restare zitta.

    Raccolse dal frigorifero due lattine di birra.

    Ne aprì una e la passò a Marcus, poi aprì la sua e fece un lungo sorso.

    «Grazie» Marcus ringraziò la collega per la birra.

    «Grazie a te per avermi aperto gli occhi sul paziente di prima. Avrei dovuto capirlo sin da subito che non ce l’avrebbe fatta. La sua situazione clinica era piuttosto chiara».

    «Si, ma non tutti sono cinici come me. Io vedo che in questo mestiere tu ci metti tutta te stessa. La tua è una vocazione, quindi rifiuti a prescindere la possibilità di classificare un moribondo come incurabile perché cercheresti di salvarlo fino a quando ha ancora un po’ di aria nei polmoni».

    Janette si sentì lusingata da quelle parole. Era proprio quello che provava ogni volta che si trovava davanti ad un ferito. Fare il possibile per salvarlo fino all’ultima speranza.

    «Domani partirò. Sarai tu la responsabile dell’ospedale fino a quando non arriverà il nuovo direttore».

    Janette rimase sconvolta da quelle parole. Non poteva essere possibile. Ora che stava provando

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