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Il signore di Ankon
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E-book335 pagine4 ore

Il signore di Ankon

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Info su questo ebook

Vent’anni sono passati e Ankon si è affrancata dall’oppressione siracusana. Timoleonte, nuovo tiranno di Siracusa e amico della giovane colonia, si trova a dover affrontare la minaccia cartaginese. Solo con l’aiuto di Ares e del piccolo gruppo di coraggiosi anconetani che accorrono in suo aiuto riuscirà a liberare definitivamente la Trinacria dai punici.
di Stefano Cardellini
Sono passati vent’anni da quando Ankon si è affrancata dall’oppressione siracusana. Ares, l’attuale signore della colonia adriatica, ha ricucito i rapporti con la grande città-stato e ora pensa ora a nuove rotte commerciali nell’Egeo. Proprio quando le cose sembrano andare per il meglio, Timoleonte, che da poco ha deposto Dionisio il Giovane ed è diventato il nuovo tiranno di Siracusa, si trova a fronteggiare una nuova minaccia: quella dei Cartaginesi. Dopo aver sventato diversi attentati Timoleonte invia Alexis il dorico, un vecchio amico di Ares, a Entella, città della Trinacria occidentale che ha da poco conquistato, per capire cosa stiano tramando i suoi nemici. Tradito da un uomo insospettabile, Alexis viene fatto prigioniero e portato a Mothia dal generale Mato per essere interrogato sulle intenzioni del tiranno siracusano. A questo punto Ares e i suoi amici si vedono costretti a rimandare il loro ritorno ad Ankon per correre in suo aiuto. Inizia qui l’avventuroso viaggio del manipolo di dori che, tra scontri e imboscate, si trovano a lottare contro gli assassini cartaginesi, affidandosi unicamente al loro coraggio, alla forza di Bakari, all’agilità di Crati e all’abilità militare di Ares, fino alla liberazione di Alexis e allo scontro finale sulle sponde del Crimiso con un esercito di settantacinquemila cartaginesi. Qui, al fianco dell’esercito siracusano schierato sotto il comando di Timoleonte e dei suoi generali, tra un susseguirsi di combattimenti, i Cartaginesi verranno sconfitti in una battaglia campale, che libererà definitivamente la Trinacria dalla minaccia punica
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2021
ISBN9788833285337
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    Anteprima del libro

    Il signore di Ankon - Stefano Cardellini

    racconti.

    Prologo

    Monte Olympos

    Seduto sul trono, Zeus aspettava Afrodite. Ermes gli aveva riferito che i Cartaginesi avevano iniziato a radunare gli eserciti per riprendersi la Trinacria a discapito dei Greci, e questo lui non poteva permetterlo.

    «Mi hai mandato a chiamare?» chiese la dea entrando nella casa del padre.

    «Ho bisogno del tuo protetto», rispose quello.

    «Ares?»

    «Sì, il dorico.» Quindi, scendendo i gradini che lo separavano dalla figlia, spiegò: «Verranno giorni funesti per Syrakousai e solo un mortale della stirpe di Ankon potrà essermi d’aiuto.»

    «Perché lui?» protestò Afrodite.

    «Perché è un guerriero.»

    La dea chinò la testa in segno di sottomissione, e mentre una lacrima le rigava il volto, con un filo di voce disse: «E sia. Vorrà dire che finché ne avrai bisogno, finché la Grecia, Syrakousai stessa, avrà bisogno della sua spada, lo appoggerò.»

    Poi, senza alzare lo sguardo, si voltò e se ne andò.

    1

    Syrakousai – 341 a.C.

    La giovane berbera, infastidita dal sangue che le era finito in bocca, si appoggiò alla parete.

    Sa di ferro, pensò, pulendosi le labbra con il dorso della mano, come la lama di un coltello. Quindi, riprendendo ad avanzare nel buio, sorrise. Deve essermi finito addosso quando ho sgozzato l’ultima guardia, poco prima di entrare nel palazzo.

    D’un tratto, un rumore la fece voltare.

    «Accidenti Huma! Fai piano», sussurrò all’amica, che poco più indietro la seguiva lungo il corridoio. «Ti muovi come un elefante.»

    «Scusa», rispose quella dall’oscurità. «Devo aver urtato qualcosa, e senza calzari…»

    «Basta! Silenzio», sibilò l’altra tra i denti. «Finirai per farci scoprire. Ora seguimi. Se le mie informazioni sono esatte, la stanza di Timoleonte non dovrebbe essere lontana.» Senza aggiungere altro, si mosse verso la fine del passaggio, dove ormai si intravedeva un leggero chiarore.

    Nonostante la giovane età, le due erano considerate tra le più esperte combattenti del popolo numidico, preparate guerriere e consumate assassine. Per questo i Cartaginesi le utilizzavano nelle situazioni più rischiose, dove c’era da fare un lavoro rapido e con la massima discrezione.

    Come quella notte, quando, su ordine di Annone, erano state sbarcate sull’isola di Ortygia per uccidere Timoleonte, il signore di Syrakousai. Un’operazione difficile, da portare a termine in poco tempo e in totale silenzio.

    Agiremo nude, aveva detto Ailyma, la maggiore tra le due, alla compagna, poco prima di scavalcare la murata della trireme per montare a bordo della barca che le avrebbe condotte a ridosso della scogliera. Il colore della nostra pelle ci permetterà di agire con maggior sicurezza nell’oscurità del palazzo. E mi raccomando: non indossare metalli. Il loro scintillio potrebbe tradirci.

    E per le armi? aveva chiesto Huma.

    Solo un paio di lame imbrattate di fango e qualche laccio di cuoio, aveva risposto l’altra indicando i suoi fedeli coltelli con la mano sinistra, monca delle ultime tre dita a causa di un fendente mal parato. Saranno più che sufficienti.

    Così avevano fatto e in quel momento si muovevano con destrezza all’interno del grande palazzo, passando da un anfratto all’altro alla ricerca della stanza dove Timoleonte dormiva.

    Giunte di fronte a un uscio socchiuso, che lasciava intravedere il tenue chiarore delle candele, si fermarono. La più giovane, con la pelle nera come l’ebano, si avvicinò ad Ailyma e con un cenno indicò la soglia.

    «Sì», sussurrò l’altra. «Ci siamo.»

    Tirarono fuori i coltelli dalla fusciacca, unico indumento che tenevano annodato attorno alla vita, e, facendo attenzione a non far cigolare i cardini, pian piano aprirono la porta. Due passi nella stanza e si trovarono di fronte a un letto di bronzo, sul quale, coperto da un pesante lenzuolo, dormiva un uomo.

    «Controlla l’uscita», bisbigliò Ailyma. «A lui penso io.»

    Superato un tavolo con i piedi a forma di zampe di animale, si approssimò al giaciglio.

    Una volta di fianco, sollevò la lama e con decisione la calò sull’uomo che, ignaro, non aveva fatto una piega. Invece della resistenza che un corpo oppone al coltello che lo trafigge, la berbera non trovò alcun impedimento e la sua mano sprofondò. Si sbilanciò e cadde in avanti.

    «Maledizione», sbottò, e scattò subito in piedi. «È solo un mucchio di stracci!» Dopo averli lanciati in aria con un gesto di rabbia, si rivolse all’amica che, incredula, dalla porta la fissava. «È una trappola! Fuggi!»

    A quel punto, da una bassa apertura celata alla vista da un grande incensiere, saltarono fuori due grossi mastini che, ringhiando minacciosi, le balzarono al collo. Caduta a terra sotto la spinta dei cani, la giovane dapprima tentò di proteggersi il volto dai morsi, ma, nuda come era, non riuscì a sottrarsi alla furia delle bestie eccitate dal sangue e, devastata dal dolore, svenne.

    L’ufficiale di turno si fermò di fronte alle sentinelle, disse due parole, poi entrò come una saetta nella stanza dove Timoleonte stava sonnecchiando. Si accostò alla scrivania, dal doppiere di coccio prese l’unica candela ancora accesa e, tenendola inclinata per non bruciarsi le dita, si avvicinò al letto.

    «Generale», bisbigliò. «Mi dispiace disturbarti, ma porto notizie importanti.»

    «Ah, non importa», disse il signore di Syrakousai aprendo gli occhi. «Tanto non riuscivo a prendere sonno. Aspetta soltanto che mi alzi.»

    Di statura media, magro come un’acciuga, a causa dei capelli canuti e la lunga barba che gli ricopriva buona parte del volto correndogli giù fino al petto dimostrava più dei suoi sessant’anni. Gli uomini che lo conoscevano bene sapevano che non era una persona come tutte le altre. Era un vero capo.

    Timoleonte batté i piedi a terra per riattivare la circolazione, quindi chiese: «Allora, cosa è successo?»

    «Hanno catturato una numidica che si era introdotta nella tua camera da letto, quella al piano inferiore del palazzo», e aggiunse: «Qualcuno ti vuole morto.»

    «Non sarebbe una novità», replicò Timoleonte.

    «E non è tutto», proseguì l’ufficiale. «Con lei c’era qualcun altro, ma è riuscito a fuggire.»

    «Non fa niente», commentò il nobile corinzio, «la cosa fondamentale è che il trucco abbia funzionato e che la donna sia in condizioni di parlare.» Fissò il giovane e chiese: «Non l’avrete uccisa, vero?»

    «No, è viva. Anche se i cani l’hanno ridotta piuttosto male.»

    «Dove l’avete portata?»

    «Nelle segrete.»

    «Bene. Sveglia il boia e fatela parlare. Voglio sapere chi l’ha mandata.»

    Dopo aver licenziato con un gesto il suo sottoposto, Timoleonte si diresse verso il letto.

    La notte non era che all’inizio e alla sua età non poteva permettersi di trascorrerla senza chiudere occhio. Oltretutto, sarebbe stato troppo scortese fare come la sera precedente, quando, preso da mille pensieri, si era rifiutato di abbracciare Ipno, lasciandolo fuori dall’uscio, solo, a bussare per tutta la notte.

    Mentre l’anziano corinzio si coricava, Huma, ancora scossa per la sorte dell’amica, procedeva spedita lungo le buie stradine dell’isola di Ortygia.

    In un primo momento aveva deciso di andare alla casa sull’Epipoli, quella dove le spie cartaginesi si incontravano in segreto, poi aveva cambiato idea. Gli scogli dove poco prima erano sbarcate non erano distanti e sapeva bene che a quell’ora della notte non avrebbe incontrato anima viva.

    Povera Ailyma, pensò, infilandosi in un anfratto per riprendere fiato. Che brutta fine. Azzannata dai cani. Si addentrò dove il buio era più cupo. Le carni lacerate dai morsi. E tutto quel sangue…

    Con quella scena impressa negli occhi, si passò una mano sulla fronte sudata, poi si accovacciò a terra e iniziò a massaggiarsi i polpacci indolenziti per la corsa. Una volta calmato il respiro, si alzò.

    Ora pensiamo a tornare a casa.

    Percorsa a passo veloce una lunga viuzza che si inoltrava tra alti palazzi signorili, voltò in uno stretto passaggio e alla fine sbucò sulla scogliera. Qui si fermò e attese qualche momento per vedere se qualcuno l’avesse seguita.

    Non c’è nessuno, si disse. Dormono tutti.

    Guardò a destra, poi a sinistra, quindi con un paio di balzi, superò la distanza che la separava dalle rocce aggettanti sul mare e le scavalcò.

    Una volta discesi i grossi massi erosi dalla salsedine si trovò sulla riva, dove quattro uomini la aspettavano seduti in una barca accostata agli scogli.

    «Come è andata?» chiese il tipo a prua. Poi, accorgendosi che era sola, domandò: «La tua amica?»

    Huma superò la bassa murata. «L’hanno catturata», rispose. «Non siamo riuscite a fare nulla. Era una trappola.»

    «Timoleonte?» insistette l’altro.

    «È ancora vivo», rispose la ragazza, e dalla sacca che un altro marinaio le aveva lanciato tirò fuori un mantello. «Andiamocene ora. Presto li avremo addosso.»

    Senza dire altro, i marinai misero mano agli armi e pian piano si staccarono dalla scogliera. Così, remando senza far troppo rumore, si allontanarono dall’isola di Ortygia e presero il largo in direzione della grande trireme punica che li aspettava immersa nel buio.

    Dopo alcune ore trascorse incatenata alle sbarre della cella, Ailyma fu trasportata nella sala delle torture, dove il boia la stava aspettando. Come ordinato dall’anziano generale, doveva essere interrogata fino a che avesse svelato chi l’avesse mandata ad assassinarlo.

    Una volta dentro, fu legata a un anello di ferro fissato al muro di una nicchia che si apriva di fianco alla porta e lasciata lì, a osservare i tormenti dei seviziati.

    Stavolta è finita, pensò la giovane, fissando un poveretto che urlava con gli occhi di fuori mentre un tizio gli strappava le unghie con delle tenaglie. Se non muoio per i morsi dei cani, schiatterò per il dolore della tortura.

    Dopo un po’, un tipo grosso come una botte che indossava un grembiule lordo di sangue le si avvicinò.

    «Eccoti qui», ghignò con voce roca, e le afferrò il mento. «Ti aspettavo. Non mi avevano detto che eri già nuda. L’hai fatto per non perdere tempo?» Rovesciò la testa all’indietro e si lasciò andare a una grassa risata. Poi smise, si voltò verso una delle guardie e con tono sgarbato ordinò: «Portala al tavolaccio. Abbiamo un lavoro da fare e non voglio perdere tempo.»

    Liberarono Ailyma dall’anello e la spinsero dall’altra parte della stanza, accanto a un braciere sul quale si arroventavano i ferri. Senza troppe accortezze, fu distesa sul banco macchiato di sangue rappreso e legata con delle corde in modo da tenerle divaricate le gambe.

    «Adesso veniamo a noi», iniziò il carnefice, accostandosi. «So che per ora non parlerai, quindi, per convincerti, partiamo dalle parti più piccole.» Le afferrò la mano sinistra e la esaminò. «Ah, vedo che ci sei già passata», disse, notando che mancavano tre dita. Sorrise e prese dal braciere un coltellaccio arroventato. «Meglio così», poi, con un colpo deciso, le troncò l’indice all’altezza dell’ultima falange.

    La berbera urlò, quindi serrò i denti e iniziò a fare respiri corti e rapidi, come fanno le donne quando stanno per partorire.

    «E questo è andato», ridacchiò il tipo, abbassando la lama fumante. «Ora passiamo all’altro.» Sollevata di nuovo la mano martoriata, con un altro fendente portò via anche il pollice.

    «Basta», esclamò la giovane, contorcendosi sul tavolaccio. «Ora basta!»

    «Davvero? Allora dimmi chi ti manda», ruggì il boia, e si chinò a poche spanne dal viso della guerriera. «Dammi il nome e ti lascerò in pace.»

    «Nessuno», rispose quella in un lamento. «Mi manda… Nessuno!»

    «Se è così, continuiamo pure.» Ghignando, il boia si spostò all’altezza dell’inguine. «Vediamo se questo ti aiuterà a ricordare qualcosa.» Con il coltello, iniziò a incidere l’interno della coscia, dove la cute è più delicata. E intanto che la poveretta riprendeva a urlare e a respirare con affanno, con la punta della lama sollevò la pelle per scoprire il derma sanguinante.

    «Ora viene il bello», ridacchio il tipo, lasciando cadere sopra la ferita un pizzico di sale. «Sentirai che piacere…»

    A quel punto Ailyma, già provata dai morsi dei cani e dal dolore delle amputazioni, perse i sensi.

    Quando riprese conoscenza, accanto a sé non trovò più il boia, bensì Timoleonte, il signore di Syrakousai, accompagnato dai suoi ufficiali.

    «Da dove vieni?» domandò il signore, fissando schifato la mano priva di dita che continuava a sanguinare.

    Nulla…

    «È meglio se parli», insistette il corinzio.

    Lei si voltò dall’altra parte.

    «Hai ragione. È caparbia», disse l’anziano nobile al boia con un filo di voce, e aggiunse: «Continua pure.»

    «Con il sale sulle piaghe?» chiese quello, chinando la testa in segno di rispetto.

    «No, con qualcosa di più convincente.»

    «Allora le amputerò i piedi», dichiarò, e da un basso tavolino prese un segaccio arrugginito.

    La giovane, vedendosi persa, urlò: «No!»

    «Allora parla», gridò di rimando Timoleonte. «Dammi un nome!»

    «Entella», sibilò tra i denti la guerriera. «Non so altro. Solo… Entella.»

    Il nome della città siceliota, pensò il generale. Quindi, rivolto al boia, chiese: «Mente?»

    «No, mio signore», rispose quello. «Per me è sincera.»

    «Va bene. Allora uccidila.» E, seguito dai suoi ufficiali, se ne andò.

    Aveva perso anche troppo tempo dietro a quella poveretta, e lui, Timoleonte il Corinzio, non ne aveva da sciupare in simili stupidaggini. Doveva pensare ai tanti nemici che ancora l’assillavano. Ai signori sicelioti, ai Punici, Annone, e all’alleanza con l’infido Iceta di Leontini.

    Eppure, quel nome… Entella, pensò di nuovo, mentre tornava nelle sue stanze. Sulle colline della Trinacria occidentale. La città strappata ai Cartaginesi. Cosa intendeva?

    Qualcosa non gli tornava. Senza dubbio c’era altro che covava sotto la cenere, e lui doveva scoprirlo.

    2

    Ionio settentrionale

    Era l’alba e il sole che sorgeva a poppa della nave dorica annunciava una bella giornata.

    I gabbiani avevano ripreso a seguire la pentecontero di Ares che, pigra, manteneva la rotta in direzione della grande Syrakousai. E così, volando e stridendo, ogni tanto buttavano un occhio sul tavolato nella speranza di scorgere del cibo. Qualche pennuto più coraggioso degli altri andava persino a posarsi sulla cima dell’albero, e da lì fissava i vogatori chini sugli armi. La maggior parte, invece, garriva a poppa, sopra la scia luccicante che marcava il piano del mare. E mentre quelli svolazzavano indisturbati, gli uomini ancora sonnecchiavano sul legno bagnato dall’umidità della notte, avvolti nei pesanti mantelli, carezzati dallo sciacquio dei remi che battevano l’acqua rincorrendo la cadenza del capovoga.

    Salpati dal porto di Pátra, fino a quel momento non avevano avuto grossi intoppi. Soltanto una giornata di pioggia all’altezza del Bradano, di fronte a Metaponto, che li aveva costretti a rallentare, ma niente in confronto alla colata di fango precipitata sullo sterrato lungo la strada che da Kórinthos costeggiava il golfo, che, durante l’inverno, li aveva forzati a un giro più ampio, facendo perdere loro quasi tre giorni. Allora erano stati obbligati a risalire un fiumiciattolo fino a incontrare un villaggio sperduto nell’interno dell’Achaia, e da lì inoltrarsi tra le brulle colline dove la vegetazione sembrava rifiutarsi di crescere.

    Una vera faticaccia, ma alla fine ne era valsa la pena. Infatti, gli accordi commerciali che Ares era riuscito a stringere a Kórinthos erano andati a buon fine. Quella città, antica alleata, avrebbe sostenuto Ankon nelle rotte più orientali, quelle per Creti e le altre isole. E lui, figlio di Terentios e Selene, capo di quella giovane comunità, ne era stato il principale artefice.

    Da quando era salito a bordo della nave, l’uomo non aveva fatto altro che fantasticare sui vantaggi che i Dori ne avrebbero tratto, sui commerci e gli scambi che a breve avrebbero potuto avviare con i Greci dell’Egeo. Per questo, seduto sotto il tendone che i suoi marinai avevano tirato tra le murate di poppa per concedergli un po’ d’ombra, aveva trascorso anche quella notte a prendere appunti su alcune tavolette di cera. Non voleva trascurare nulla. Non poteva lasciarsi fuggire le intuizioni che, come folgori, da giorni gli illuminavano la mente.

    L’intesa con i Corinzi ci aprirà le rotte fino alle isole più lontane. E con Atene fuori dai giochi, distratta dai continui alterchi con Filippo di Macedonia, forse riusciremo a raggiungere gli abitanti dell’Asia, ponderava il signore di Ankon. Del resto, la città non aveva grossi problemi, soprattutto da quando il piccolo centro si era fuso con il villaggio piceno e nuove case erano state costruite all’inizio della spiaggia lunga, appena fuori dal porto.

    Se le cose continueranno come negli ultimi anni, rifletteva, se riusciremo a dissodare il terreno che Bakari chiama la valle degli orti, in poco tempo potremo diventare una grande realtà e forse dominare l’intero Adriatico.

    La solita fitta alla spalla, ricordo di una rovinosa caduta durante una battuta di caccia sul monte dei corbezzoli, gli fece stringere i denti.

    Dovevo immaginare che questa umidità non mi avrebbe giovato, borbottò tra sé e iniziò a massaggiarsi la zona tra il collo e l’attaccatura del braccio. Non ho più vent’anni. Sto invecchiando.

    Eppure, a guardarlo non sembrava. Certo, non era più il giovane che aveva sconfitto i Siracusani al tempo di Niseo ma, nonostante avesse raggiunto l’età matura, poteva ancora contare su un fisico atletico e prestante. I capelli, un tempo lunghi fino alle spalle, erano era corti e radi, e il loro colore ambrato, che tanto piaceva alle ragazze, aveva lasciato posto al grigio della saggezza. Per il resto, non era cambiato molto. Lo stesso viso ovale, lo stesso naso greco e, soprattutto, la medesima espressione profonda, preoccupata, a volte troppo tormentata per un quarantacinquenne.

    Se penso ai tanti anni passati, ai sacrifici fatti, a quanti cari ho perso per strada… considerò con amarezza, sollevando lo sguardo sulla prua della pentecontero, dove qualcuno aveva appena spento le torce. Più di tutto, a quanti anni mi restano…

    Un fruscio alla base dell’albero attirò la sua attenzione. Suo cognato Crati, disteso sul paglione accanto al figlio Ciril, si stava muovendo. Tra poco si sarebbe svegliato e, come ogni mattina da quando aveva cominciato ad accusare le difficoltà che hanno gli uomini maturi nell’orinare, senza alzare lo sguardo sarebbe andato alla murata per liberare la vescica. Poi, svegliato il figlio, avrebbe iniziato a preparare da mangiare e invitato Ares a sedersi con loro per fare colazione.

    Nemmeno lui è più quello di una volta. Sorrise osservando l’amico che si girava da una parte all’altra nell’ultimo sonno. Pure lui ne ha passate delle belle.

    Gli tornò in mente quando, vent’anni prima, dopo aver liberato la piccola Maia dai suoi carcerieri sull’altura di Minoia, Crati era caduto in una forra, si era spezzato una gamba e aveva rischiato di morire. A quanto pareva la sua ora non era ancora arrivata e, grazie alle cure dei generosi Spartani, era riuscito a rimettersi in piedi e tornare ad Ankon per combattere i Siracusani.

    Anche Crati ha ormai vissuto gran parte della vita, osservò, continuando a fissarlo. E ha dato tanto alla nostra città senza chiedere nulla in cambio.

    Come se l’avesse udito, il piceno si mise seduto, si sfregò gli occhi con il dorso delle mani e alla fine si voltò a guardarlo.

    Con indosso soltanto un gonnellino di lana lungo fino al ginocchio e con il petto tatuato con le immagini degli animali della sua terra, a un estraneo poteva sembrare un feroce selvaggio, ma chi lo conosceva sapeva bene quanta rettitudine, quanto coraggio albergavano in quell’uomo. Gran combattente, sempre pronto a lanciarsi nella mischia con in pugno i suoi coltelli, quando Ares gli aveva chiesto di scortarlo fino a Kórinthos aveva acconsentito subito, aggiungendo che avrebbe portato anche suo figlio.

    «Verremo con te, non posso lasciarti andare da solo», gli aveva detto qualche giorno prima della partenza dal porto di Ankon. «Se ti succedesse qualcosa, tua sorella Dafne non me lo perdonerebbe mai.»

    E così, assieme a Ciril, lo seguiva come un’ombra, pronto a intervenire se qualcuno avesse attentato alla sua vita.

    Mentre il piceno si alzava e con la solita andatura claudicante dovuta all’antica frattura si avviava verso la murata per orinare fuoribordo, un’idea balenò nella mente di Ares: un nuovo traffico da avviare lungo le rotte da poco concordate con i Corinzi. Tornò ad afferrare la tavoletta e riprese a scrivere prima che Mnemosine si allontanasse, lasciandolo confuso nello sforzo di rammentare il pensiero appena avuto.

    Una volta finito di scrivere, distese le gambe rattrappite dalle tante ore passate seduto sul tavolato e iniziò a massaggiarle. Poco dopo si alzò, spense il moccolo di candela rimasto acceso per tutta la notte e raggiunse il cognato, che nel frattempo, accostato al braciere di prua, stava preparando qualcosa da mettere sotto i denti.

    «Se la dea continuerà a proteggerci, tra qualche giorno saremo in vista di Syrakousai», gli disse. «Una volta salutati Poplia e Alexis, imbarcheremo Lisja e Bakari e potremo fare rotta verso casa.»

    «Non vedo l’ora», replicò con fare distratto l’altro, continuando a muovere le rape che poco prima aveva sistemato sotto la cenere calda del braciere. «Dopo tanti mesi, inizio a sentire un po’ di nostalgia.» Quindi, voltatosi a guardarlo, con un mezzo sorriso aggiunse: «Chissà cosa avrà combinato durante la nostra assenza.»

    «Alludi a Bakari?»

    «Sì», rispose il piceno.

    «Non so. Speriamo solo che quei due non abbiano approfittato troppo dell’ospitalità di Alexis», continuò Ares. «Lo sai quanto è generoso con gli amici, specie con la povera Lisja, dopo quello che le è successo…»

    La picena, che qualche tempo addietro aveva visto morire di vecchiaia Roccia, il suo adorato molosso, come ogni sacrata che perdeva l’animale con cui divideva la vita, era infatti caduta in un forte stato depressivo. Aveva smesso di mangiare e si era rinchiusa nella sua capanna, dove trascorreva le sue ore piangendo, e rifiutava di vedere parenti e amici. Come sempre in quei casi, tra i Piceni si era sparsa la voce che presto avrebbe raggiunto il suo amato cane nelle terre della dea Cupra. Insomma, tutti si erano arresi all’evidenza e senza far nulla aspettavano la funesta notizia. Tutti tranne il vecchio Bakari che, combattivo come sempre, una mattina aveva sfondato la porta della baracca dove Lisja si era rifugiata, l’aveva sollevata dal paglione e, tenendola ben stretta tra le braccia, l’aveva portata a casa propria. Si era preso cura di lei, l’aveva costretta a mangiare, le parlava di continuo e, soprattutto, non la perdeva mai di vista. Così, pian piano, la poveretta aveva ritrovato il desiderio di vivere. O meglio, di sopravvivere.

    Finché, un giorno, Ares aveva bussato alla sua porta.

    Parto, aveva detto al compagno di tante avventure. È giunta l’ora di stringere accordi commerciali con Kórinthos e ho pensato a voi due. Un bel viaggio potrebbe farvi bene, distrarvi da questa vita sedentaria. Di sicuro gioverà alla sua salute, aveva concluso, sorridendo alla volta della donna, la quale, da quando aveva iniziato a parlare, non l’aveva degnato d’uno sguardo.

    Secondo te, passare qualche mese a dondolare su una nave potrebbe essere d’aiuto a Lisja? aveva ironizzato l’africano.

    Solo fino a Syrakousai, aveva precisato il dorico. Ho intenzione di lasciarvi a casa di Alexis per imbarcarvi di nuovo al nostro ritorno. Ho pensato che un periodo in quella città potrebbe essere uno stimolo.

    Così anche loro lo avevano seguito e ora, conclusi gli accordi con i Corinzi, Ares stava per passare a riprenderli.

    A quel punto, una rapa, troppo vicina alla brace ardente, iniziò a emettere fumo. Crati fu costretto a spostarla sulla cenere spenta e si scottò i polpastrelli.

    «Tra quanto saremo a Syrakousai?» chiese il piceno dopo essersi

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