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Damnation II: Caccia ai Redentori
Damnation II: Caccia ai Redentori
Damnation II: Caccia ai Redentori
E-book134 pagine1 ora

Damnation II: Caccia ai Redentori

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Info su questo ebook

Tasryne e Agmal, in fuga assieme a Elyon, trovano rifugio da Karl, un'amico di Tasryne studioso e collezionista di tomi rari e proibiti sui Diavoli e sull'Inferno. Assieme a lui, si getteranno all'inseguimento dei Redentori e del loro carico di prigionieri. Intanto, da uno dei libri di Karl cominciano ad alzarsi delle voci che solo Agmal sembra sentire...
LinguaItaliano
EditoreNero Press
Data di uscita28 mar 2015
ISBN9788898739370
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    Anteprima del libro

    Damnation II - Eleonora Rossetti

    Felgar.

    1

    Il suono del catenaccio che scorre in fondo al corridoio lo sveglia. Si alza dall’umido pagliericcio allungando le braccia in catene e osservando le sbarre di fronte a sé, distanti quattro passi dalla porta. Un anno, oggi, pensa tra sé passandosi le mani tra i capelli unti. All’inizio aveva pensato di impazzire, da solo e al buio. Poi si era concentrato su un solo pensiero: uscire. Non aveva permesso a quell’umida cella di vincerlo, di distruggere il suo corpo prima del suo spirito. E ora si sente pronto.

    Una donna apre la porta recando un vassoio di legno con delle pietanze. «Il pranzo, prigioniero» afferma con voce dura posandolo di fronte alle sbarre che dividono a metà la stanza. «Ho aggiunto del pane in più» gli sussurra con un sorriso ammiccante.

    Tasryne ricambia il sorriso e comincia a mangiare, famelico. «Anya, ho una richiesta da farti» sussurra tra un boccone e l’altro.

    La donna assume un’espressione sorpresa; sembra riflettere qualche secondo mentre aggiusta le cinghie dell’armatura di cuoio.

    «Ho bisogno che tu chieda un permesso per stanotte, per stare assieme a tuo marito». La voce di Tasryne è seria e tesa, mentre la fissa.

    Anya spalanca gli occhi, incredula. «Non vorrai…» chiede con un filo di voce, ma un veloce segno d’assenso di Tasryne le toglie ogni dubbio. Abbassa lo sguardo.

    «Ti ringrazio di tutto, Anya. Sei sempre stata buona con me».

    La donna alza la destra come a fermare quelle parole. «Siamo stati in addestramento insieme». Si volta e apre la pesante porta di legno della cella. «Buona fortuna» sussurra prima di uscire.

    Tasryne torna a sedersi sul pagliericcio addentando il pane. Gli occhi restano fissi sulla porta, mentre nella sua testa comincia a contare le dieci ore che mancano all’arrivo della guardia con la cena.

    Io me ne vado, sperate di non vedere il giorno in cui tornerò.

    Quando cala il sole e la cella viene immersa nell’oscurità, Tasryne non ha mutato posizione; come una statua, osserva la porta e aspetta. Solo quando sente l’uscio in fondo al corridoio aprirsi con fragore, i suoi pugni si contraggono facendo tintinnare le catene.

    La porta si apre e una giovane guardia entra con un altro vassoio di legno. È un attimo: quando si china per poggiarlo a terra, Tasryne scatta in avanti afferrandolo per i capelli e tirando con forza. Quando il cranio colpisce le sbarre produce un suono sordo, come di campana crepata. La guardia si accascia senza un grido; Tasryne lo sorregge con la destra e con la sinistra afferra l’anello con le chiavi. Sei fortunato che sei un novellino, altrimenti ti avrei accoppato, pensa mentre si disfa dei catenacci e apre la cella con cautela. L’uomo che ha aggredito è disarmato, a riprova che sia nuovo del mestiere: nessuno si reca nelle prigioni senza avere la garanzia di poter avere vantaggio su chi vi sta rinchiuso. Eppure, Tasryne si rammarica di quella sua dimenticanza, che non gli consente di potersi appropriare di una spada.

    Sbircia dalla porta, tenendosi al riparo dello stipite. Nessuno veglia nel corridoio. Quelle carceri non sono fatte per tenerci troppi prigionieri, anche perché per i Redentori — lui lo sa bene — sono merce rara. Sa tuttavia che quel palazzo è pur sempre un presidio militare e il lieve scalpiccio sopra la sua testa gli fa capire che al livello superiore deve aspettarsi compagnia.

    Spera di non dover uccidere troppe persone, quella sera. Almeno, non semplici sottoposti che hanno la disgrazia di avere il turno di guardia proprio quel giorno.

    Armi.

    Il pensiero lo fa agire. Percorre tutto il corridoio fino a giungere alle scale che portano di sopra. Sgattaiola sui gradini, a piedi scalzi, ormai insensibile dopo tanto tempo al freddo della pietra sulla sua pelle. Non cammina da parecchio e le ginocchia gli dolgono: la prolungata inattività gli ha reso i muscoli flaccidi, tuttavia non rallenta il passo fino al momento in cui giunge al piano terra.

    Lo accoglie una biforcazione. Lui tende le orecchie, cogliendo il ritmico rumore di stivali sulla pietra, che cresce sempre più. S’appiattisce nell’ombra della volta delle scale, col timore che l’odore dello sporco che ha addosso attiri l’attenzione. Alla luce delle torce, una lunga ombra si staglia lungo il muro e avanza nella sua direzione.

    Il Redentore che passa davanti alle scale, senza notarlo, è all’apparenza robusto, ma Tasryne vede subito il suo punto debole. Non appena questi gli dà le spalle, proseguendo nel corridoio, il prigioniero esce dal suo nascondiglio e lo agguanta con un braccio, stringendogli la gola in una morsa micidiale. La vittima annaspa senza riuscire a emettere un solo grido, crollando infine sul pavimento con un sordo rumore di ferraglia. Rapido, Tasryne lo trascina lungo le scale, abbandonandolo a metà rampa, e s’impossessa del suo pugnale e della spada prima di tornare sui suoi passi.

    Altri rumori, stavolta oltre l’angolo a sinistra. Tasryne percorre il corridoio opposto e sbircia oltre la curva ad angolo retto. Scorge alcune porte lungo un piccolo tratto che termina in un cancello a grata. Dormitori, pensa.

    Cammina rasente al muro fino alla prima porta, poggiandovi l’orecchio. Dopo qualche secondo riesce a percepire il russare di un dormiente, o probabilmente più di uno. Con cautela apre l’uscio. Solo due dei sei letti sono occupati. Muovendosi con circospezione, Tasryne impugna la spada e colpisce con il pomolo i due alla tempia. Il secondo emette un lieve lamento prima di passare dal sonno alla perdita di conoscenza; la paura di essere scoperto ingigantisce in Tasryne la forza di quel gemito.

    Senza perdere tempo, chiude la porta e accende uno dei candelabri, guardandosi attorno. La stanza non ha ornamenti particolari, essendo d’utilizzo comune, ma ha tutto ciò di cui lui ha bisogno in quel momento. Ai piedi di ogni letto, c’è un baule con tutti gli attrezzi del mestiere, sopra il quale sono deposte le armi e le divise da combattimento dell’Ordine.

    Dopo un rapido giro, Tasryne individua la sua arma preferita: un mazzafrusto. Si appropria anche di un pugnale di fattura migliore di quello che ha, e lo usa per dare due veloci sfoltite alla lunga barba e alla chioma disordinata che gli ricade sulle spalle. Non avrebbe ingannato nessuno se si fosse presentato con un aspetto così trasandato.

    Sta per infilarsi la divisa quando la porta proprio accanto a lui si apre, senza alcun preavviso. Un uomo compare sulla soglia, con gli occhi che passano dall’assonnato al sorpreso.

    Tasryne non gli dà il tempo di urlare: gli salta addosso, una mano dritta a tappargli la bocca, l’altra a spintonarlo verso il muro, aiutandosi anche con una ginocchiata. Il grido di dolore del Redentore viene smorzato dalle sue dita, ma non altrettanto accade al suo spirito di reazione. Agita per un attimo le braccia, poi una delle mani scatta alla cintura sfilandone qualcosa. Tasryne si accorge di cosa si tratta solo quando si sente mordere le carni. Sangue sgorga dal punto in cui un pugnale l’ha colpito sul fianco, tra le costole, arrestando la sua corsa tra le ossa. Il dolore è in un primo momento insopportabile, ma sa di non potersi permettere il minimo lamento.

    Con uno sforzo disperato, tira una poderosa ginocchiata prima all’inguine, poi al mento dell’uomo che si è piegato su se stesso per effetto del colpo precedente. Infine, un gancio piazzato alla tempia pone fine allo scontro: il Redentore s’accascia al suolo, privo di sensi.

    Tasryne stringe i denti mentre trascina la guardia svenuta nel dormitorio e richiude la porta. Vi si accascia contro respirando a fondo, mentre la ferita al fianco vomita sangue. Con un grugnito di dolore si alza, strappa uno dei lenzuoli e ne fa una fasciatura frettolosa ma abbastanza stretta. Apre tutti i bauli e comincia una rapida cernita degli oggetti più utili e in migliori condizioni. Indossata l’uniforme, assicura il mazzafrusto alla cintola e riapre la porta trascinando il baule, cercando di non pensare alle fitte di dolore al fianco che quasi gli tolgono il respiro. Le stalle, raggiungile e rispetta il piano, si impone di pensare in continuazione.

    La grata in fondo dà verso un cortile interno. Tasryne esce con passo sicuro, certo che un’andatura guardinga avrebbe insospettito ancor di più le sentinelle sui camminamenti. Sa per esperienza che i guardiani sulle mura della piccola fortezza hanno la vista acuta, specie quando si tratta di usare l’arco.

    Non ha un cappuccio con cui coprirsi, ma spera che, incrociando qualcuno, le tenebre favoriscano il suo camuffamento. Prega tuttavia che nessuno veda la scia di sangue che si sta lasciando dietro.

    Quando giunge alle stalle, le trova vuote, con due soli cavalli. Sono fuori, riflette. Chissà dove. E chissà se Arkas è con loro. Non vuole pensarci. Apre uno dei recinti e lo stallone al suo interno, svegliato di soprassalto, sussulta scalpitando. Tasryne si cura poco delle sue proteste, mentre lo veste della sella su cui aggancia il baule. La perdita di sangue gli sta facendo appannare la vista, tanto che manca l’occhiello della fibbia un paio di volte prima di riuscire a stringere il morso al muso dell’animale.

    Quando mette il piede nella staffa e si issa sulla sella non riesce a trattenere un grido di dolore. Si sforza di mettersi dritto e dà di sprone al cavallo, uscendo nel cortile. Il portone non è sorvegliato, per sua fortuna; lesto, conduce la bestia per le strade deserte, guardandosi attorno preoccupato. Il destriero non fa in tempo a prendere velocità, che in lontananza s’ode un grido furioso. Non riesce a discernere le parole, ma non ha bisogno di chiedersele. Affonda i talloni nel fianco della sua cavalcatura, imprecando tra sé quando i sobbalzi del galoppo si tramutano in artigliate dolorose al fianco, e si piega su se stesso, sforzandosi di non perdere l’equilibrio assieme ai sensi.

    «Ehi!»

    Uno strattone improvviso, prima al braccio, poi alle redini del suo cavallo. Tasryne sbatté le palpebre e voltandosi a sinistra scorse il

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