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Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto
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Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto
E-book210 pagine2 ore

Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto

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Una lettura critica della legislazione antimafia, che passa attraverso le discutibili operazioni della magistratura, la rigidità del regime carcerario del 41 bis, le anomalie del “concorso esterno”, la presunta “trattativa” tra Stato e mafia. Un diritto imperfetto, che innesca continui conflitti con il potere politico e lede fondamentali garanzie costituzionali del cittadino.
L’accostamento di analisi storiche, sociali, giuridiche, permette inoltre una genuina riflessione su cosa siano divenute oggi le organizzazioni mafiose, e su quali siano gli strumenti migliori per combatterle. Senza farsi influenzare dal crescente allarmismo, dalle paure e dagli inganni che puntualmente ci vengono proposti.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2013
ISBN9788868220242
Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto

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    Anteprima del libro

    Critica dell'antimafia. L'avanzare della paura, l'arretramento delle garanzie, l'imperfezione del diritto - Andrea Apollonio

    Saramago

    Introduzione

    Kafka diceva che scrivere è una forma di preghiera. Non ho mai ben capito cosa volesse realmente significare con questa espressione, ma mi piace pensare che egli si riferisse alla condizione di nudità e vulnerabilità di chi mette su carta riflessioni essenziali che derivano dal proprio vissuto. Di chi mette su carta parti di se stesso.

    Il fatto è che il lavoro che qui si propone ha un contenuto personalissimo. Pesca a piene mani dai miei studi, dai miei percorsi professionali, dai miei viaggi, e prova a trarne delle conclusioni. O meglio, di conclusioni ne sono sparse un pò dappertutto, alla rinfusa, ma con ordinata coerenza. Perché, proprio come Le città invisibili di Italo Calvino – che non a caso sarà spesso richiamato nel corso della trattazione –, questo libro si presenta come una serie di relazioni di viaggio, simili a quelle che Marco Polo espone a Kublai Kan imperatore dei Tartari nella stessa opera calviniana. È uno scritto che si discute e si interroga mentre si fa. Forse perché è nato un pezzetto per volta, seguendo ritmi sincopati, a intervalli anche lunghi, mettendo su carta riflessioni composte poi successivamente.

    Questo libro muove le proprie mosse da due presupposti, che appaiono piuttosto riflessioni.

    Il primo tra questi, quello più evidente e plateale perché di stringente attualità, ci riporta ad un’antimafia che si presenta come un semilavorato ancora da perfezionare e smussare. Un diritto imperfetto, a tratti arbitrario, che innesca continui conflitti con il potere politico e lede fondamentali garanzie costituzionali del cittadino: l’antimafia giudiziaria è divenuta così categoria mostruosa, ma nel senso del mostrare (meglio, dimostrare) quanto le norme penali siano bassamente soggette all’interpretazione varia e discrezionale di Procure e giudici. Una questione che finisce puntualmente per addentrarsi nella stampa e nell’opinione pubblica, grandemente influenzabile dal sensazionalismo giudiziario, sopratutto se esso investe il ceto politico. E le più recenti azioni penali promosse da talune Procure nei confronti di importanti esponenti politico-istituzionali hanno rafforzato in me la convinzione che questo dovesse essere tema centrale e non marginale della Critica dell’Antimafia, che nel frattempo stava prendendo forma.

    Il secondo presupposto è forse meno immediato, ma costituisce senza alcun dubbio il cuore dello scritto: l’osservazione preoccupata della straordinaria vitalità della cultura mafiosa e delle sue espressioni criminali. Nonostante una politica di contrasto legislativo oramai cinquantennale, nonostante sia stato predisposto ogni forma di attacco giudiziario. Oggi la mafia non è ancora stata sconfitta, ed anzi, talvolta risulta ancora ben radicata nei territori di appartenenza: questo dato oggettivo ed inconfutabile può però sviluppare sentimenti che siano diversi dal fatalismo e dalla rassegnazione. Può essere, ad esempio, stimolo per capire.

    Gli studi in diritto hanno cullato in me l’idea che i fenomeni sociali siano comprensibili sopratutto tramite la lente delle leggi che intendono regolarli. Il diritto regola la società, le cui dinamiche vengono formalizzate nel diritto, in un completamento circolare e reciproco dell’uno nell’altra. Quasi per riflesso negativo, occorre dunque analizzare le strategie normative di contrasto approntate nel corso dei decenni per comprendere le ragioni dell’apparente invincibilità del malcostume mafioso, e verificare così l’approccio dello Stato al fenomeno. Ecco, l’approccio: l’unico, vero indicatore, che ci permette di capire perché la mafia non è ancora stata sconfitta.

    Le conclusioni a cui si perverrà sono fin d’ora evidenti: l’approccio meramente criminale e repressivo, associato alla clamorosa sottovalutazione delle cause scatenanti il fenomeno e la speculare sopravvalutazione degli effetti, ha fatto sì che gli scopi e gli obiettivi della legislazione antimafia venissero clamorosamente mancati. Le mafie nel corso dei decenni hanno cambiato strutture, paradigmi, modi d’agire. In alcuni casi, sono state fortemente rimaneggiate e depotenziate; in altri, sono divenute più forti di prima. Ma il dato è un equilibrio stabile: la mafia non è ancora stata sconfitta. E su questo punto, lo si chiarisce fin d’ora, non possono esservi scivoloni semantici: la mafia deve essere sconfitta, prima o poi, una volta per sempre.

    A maggior ragione, si è dunque costretti ad ammettere di essere innanzi ad un diritto imperfetto, perché poco rispettoso della dignità e delle garanzie della persona da un lato, proiettato a finalità di mera politica penale dall’altro.

    Si è consci che lo scritto che qui si propone può essere interpretato – sopratutto da chi (ancora) considera lo strumento penale come unico mezzo possibile per ribaltare i (dis)valori della cultura mafiosa – come una banale provocazione, anche nell’evidenza dei toni aspri con cui si intende indagare la legislazione antimafia, e finanche nel titolo. Eppure, se la posta in gioco è costituita dalle invalicabili garanzie che la Costituzione detta per ciascuno – e che esso sia un mafioso, un politico, un magistrato, ben poco importa – allora non si aveva scelta: ispirandoci ad un grande Maestro del diritto, Norberto Bobbio, potremmo dire che la battaglia in difesa del garantismo è pur sempre una battaglia di minoranza, proprio per questo tanto più difficile e bisognosa di essere combattuta con armi temprate ed affilate.

    Ad ogni modo, se ancora si avesse la percezione della provocazione, il risultato sarebbe egualmente raggiunto se nel lettore si accendesse la scintilla del dubbio, e nel pubblico dibattito un momento di costruttivo confronto. Sul fatto che, forse, un netto cambio di strategia nella lotta alla mafia è necessario.

    Dunque, è nelle regole della partita che il diritto penale – sostanziale, processuale, e l’ordinamento giuridico tutto nel suo complesso – ha ingaggiato contro le organizzazioni mafiose e le istituzioni colluse che intendiamo riflettere. La nostra ricognizione ne lambirà, con piglio tutt’altro che ortodosso e strettamente scientifico (le note e i rimandi bibliografici sono stati per ciò ridotti, per quanto possibile, al minimo), gli strumenti normativi di maggior efficacia: l’articolo 416 bis del codice penale, il c.d. concorso esterno, la reclusione in regime di 41 bis, le misure di prevenzione, e così via. Ma anche, le più discusse operazioni giudiziarie compiute dalle Procure: non ultima, quella riguardante la presunta trattativa tra Stato e mafia, che sarà il fulcro di approfondite riflessioni. Alla luce, ben inteso, delle istanze di garanzia e libertà del cittadino così degnamente espresse nella Carta costituzionale, e dell’idea – ragionevole e necessaria al contempo – che lo Stato non debba utilizzare il diritto come strumento di vendetta estemporanea ma di giustizia a lungo termine. Il quadro che se ne trarrà sarà, per certi versi, sconcertante: l’antimafia delle leggi è un diritto ancora allo stato grezzo. Un semilavorato, per l’appunto.

    Infine, prima di avventurarsi in difficili conclusioni, si è voluto lasciare spazio ad una sorta di operazione verità, un esperimento solo apparentemente teorico e velleitario: la demistificazione dell’antimafia. Un passaggio svelatore, tramite cui si proverà a comprendere quale effettivamente sia la dimensione e la portata del fenomeno mafioso, quali confini segnare, e sopratutto quali paure si dimostrino oggi infondate. Di converso, quali strumenti giuridici opportunamente utilizzare per una repressione che sia efficace ed al contempo rispettosa dei diritti dell’individuo.

    Un binomio antinomico, metafora della complessità del diritto, che Leonardo Sciascia è riuscito a far rivivere in forma letteraria nel tumulto d’animo del giovane capitano dei carabinieri Bellodi, nel romanzo-simbolo sulla mafia Il giorno della civetta. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottoufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti.

    Il percorso mentale del capitano Bellodi sarà, in un certo qual modo, seguito anche in questo scritto; che, può non essere un mistero, si è cominciato dopo aver letto, per l’ennesima volta, Il giorno della civetta. Forse perché, è vero: da questo libro, come ha scritto Francesco Merlo, sono nate tutte le antimafie. E vi si trova persino, appena intuita in una pagina di rara malinconia, la loro degenerazione.

    I. Mafia e antimafia

    1.1. L’impossibile inquadramento del fenomeno

    Lo studio della criminalità organizzata è impresa difficile, talvolta rischiosa. Le attività delittuose si realizzano sottotraccia, i personaggi che ne fanno parte non sono sempre individuabili, hanno apparenze ben diverse da quanto comunemente ci si immagina, ed ogni supposizione teorica è sempre troppo lontana dalla prova empirica e controfattuale. Il fenomeno mafioso – che ne è, poi, l’evoluzione più complessa – assume tratti spiccatamente sociologici ancor più che criminali, per questo estremamente difficili da decriptare. Del resto, lo studio è tanto accidentato quanto impervio è definire in maniera inequivoca il fenomeno mafioso.

    Fino a qualche decennio fa si dubitava persino dell’esistenza di un sotto-potere occulto di stampo mafioso, e "l’idea di scrivere una storia della mentalità mafiosa è apparsa spesso una sciocchezza, un’impresa di poco più sensata che scrivere la storia dell’intuito gallico o della flemma britannica" [1]. E quando all’inizio degli anni Sessanta il sangue e le mattanze della prima guerra di mafia in seno a Cosa Nostra non permisero più il prolungarsi di una troppo palese e voluta sottovalutazione, si preferì attribuire il peccato originale ad una non meglio precisata cultura meridionale, portatrice di disvalori tanto lontani dal comune senso civico, che invece si respirava a pieni polmoni altrove, magari nel Settentrione d’Italia; lì dove venivano convogliati i mafiosi per il soggiorno obbligato, divenuto ben presto periferia operativa dell’impero mafioso. L’intera questione criminale delle mafie è stata incentrata, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso, sullo stereotipo razzista e lombrosiano[2] di popolazioni antropologicamente barbare e delinquenti.

    Negli anni Settanta poi, quando il contrabbando moltiplicò capitali e ricchezze delle famiglie mafiose siciliane e campane[3], si mutò radicalmente prospettiva di studio: l’entità immateriale della cultura mafiosa si trasformò in denaro sonante, la violenza in imprenditoria criminale.

    L’economia che cominciava ad infiltrarsi di capitali illeciti fornì, finalmente, le giuste chiavi di lettura. La mafia non era più soltanto un semplice modo di essere, ma un mezzo per avere. Ed ancora, per creare. Perché le organizzazioni mafiose non si limitano al compimento di reati di varia specie e natura, al sol fine di trarre un indebito profitto, ma perseguono uno scopo più istituzionale, quasi giuridico: la creazione di strutture di governo extra-legali, che possano fornire protezioni al proprio territorio d’origine e dirimere conflitti tra i consociati, legittimando in tal modo la propria presenza ed il proprio arricchimento. Ogni mafia regionale punta alla creazione di uno Stato-ombra, che possa arrogarsi il diritto di vita e di morte sui propri sudditi, l’istituzione di un sistema di tassazione e riscossione efficace e puntuale, l’incorporazione di esso in circuiti di sovranità propri di uno Stato di diritto[4].

    Pur non volendo, rispetto a quest’ultimo, essere un corpo estraneo: non porsi oltre lo Stato, ma nello Stato. Politica, clero, centri di potere economico e finanziario, spesso è difficile sbrogliare una matassa che comunque include tutto e tutto mescola. Perché la mafia non è una forma di governo alternativo. Piuttosto, un sottogoverno tentacolare che, in ossequio alla metafora, ha una consistenza viscida e molle, ben capace nell’arrivare nei meandri più nascosti della società e dell’economia, lì dove, talvolta, la rigida burocrazia statale non può davvero arrivare.

    Anche per questa subdola consistenza – ed il problema sarà affrontato nel proseguio – la mafia è stata valido instrumentum regni, a disposizione dell’apparato statale fin dal principio della sua costituzione unitaria; come scriveva il noto meridionalista Gaetano Salvemini, "i moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i partiti democratici del Nord; i camorristi del Sud hanno bisogno dei partiti moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud"[5].

    Per avere un ulteriore spunto di riflessione: quando, nel 1861, le truppe piemontesi si presentarono dinanzi le mura della città di Napoli, ebbero gioco facile a sbaragliare le truppe borboniche, dacché le locali strutture camorristiche fiutarono in anticipo le regalìe che avrebbero ricevuto in cambio dal neonato Stato italiano[6]. E persino il secondo – e forse più decisivo – momento di genesi italiana, lo sbarco in Sicilia degli alleati, fu organizzato al tavolo della mafia siciliana, che negli Usa avevano ramificazioni ovunque: i gangsters americani diedero specifiche direttive, gli uomini d’onore prepararono il terreno (il fascismo non era stato tenero con loro, inviando il temutissimo prefetto Mori per estirpare la concorrente dittatura mafiosa), ed anche in questo caso gli alleati seppero compensare degnamente. Da cosa nasce cosa, o forse Cosa Nostra. Non un semplice gioco di parole, se si considera il fiorire rigoglioso dell’associazionismo mafioso negli anni del dopoguerra. Almeno quest’ultimo caso, pacificamente accettato dalla storiografia. La componente mafiosa entra dunque di diritto nel Dna istituzionale della Patria; il percorso politico dell’Italia repubblicana diviene così una storia a prestazioni corrispettive, di necessaria reciprocità e di necessità reciproca.

    Così come le ragioni della nascita di una mafia rimangono spesso nell’ombra. Si preferisce immaginare le possibili evoluzioni del fenomeno ed ogni possibile strategia per prosciugarne linfa vitale e ricchezze altrettanto necessarie, piuttosto che evidenziare le condizioni economico-strutturali che hanno costituito culla materna. Che spesso rappresentano, però, un patrimonio conoscitivo da anteporre alle strategie di contrasto.

    Del resto – e limitandoci all’esperienza più ricca di spunti, quella italiana –, tra le quattro temibili associazioni mafiose, solo della Sacra corona unita si può ricostruire la genealogia con esattezza quasi anagrafica; essa è, d’altronde, la più giovane, nata appena sul finire degli anni Settanta. Le origini delle altre mafie si perdono nei meandri spesso non documentabili dell’Ottocento brigante e criminale, e si prestano a ricostruzioni storiche spesso contrastanti, alcune delle quali venate di esoterismo e leggenda, altre corrotte da pura fantasia.

    Lo si ribadisce, un fenomeno così ambiguo, pervasivo e persino istituzionale non è inquadrabile; ogni sforzo risulterebbe vano. Prima di esaminare la legislazione antimafia, appariva opportuno rilevare – in sede storiografica – questo punto di obiettiva incertezza. Un primo dato che già comincia a stridere con un qualsiasi inquadramento normativo, e che ricorrerà spesso nella trattazione. Così come un secondo, forse ancor più importante: le intrinseche ragioni economiche dell’attività

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