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La tenaglia magistrati-economisti sui cittadini
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E-book1.268 pagine18 ore

La tenaglia magistrati-economisti sui cittadini

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Info su questo ebook

Devono le leggi economiche dominare i rapporti sociali? 
Nell’ambito di questo dilemma, nella ricerca di un equilibrio, si muove il presente lavoro. 
Due sono i pilastri su cui esso si fonda: argomenti e temi giuridici da un lato, che, però, hanno anche un impatto economico, e, dall’altro, la pretesa di egemonia del dato economico su ogni altro valore. Pretesa molte volte ammantata di scientificità, che travolge i rapporti reciproci, influenza il caos delle stesse pronunce giudiziali e il caos normativo, rendendo incerto il destino delle persone. “Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli (ma anche con gli economisti non si scherza)” ironizza l’autore, e in questo importante saggio, per contenuti e dimensioni, con garbo e autorevolezza ci spiega chiaramente il perché.

Francesco Felis è nato ad Albenga (SV) nel 1957. Vive a Genova dal 1967, dove si è laureato in Giurisprudenza con 110 e lode nel 1982. È notaio dal 1988. Autore di molteplici pubblicazioni, giuridiche e non, è intervenuto a diversi convegni giuridici e politici.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2019
ISBN9788899706630
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    Anteprima del libro

    La tenaglia magistrati-economisti sui cittadini - Francesco Felis

    Prefazione

    di Michele Mirabella

    Conoscere: è uno dei verbi più importanti di cui disponiamo nel nostro lessico, senza del quale sarebbe impossibile perfino dirci umani; un verbo con radici profonde quanto lontane che ci giunge direttamente dalla culla del pensiero occidentale, l’Antica Grecia, attraverso il consueto filtro della latinità: γιγνώσκω, conosco, che – non certo per caso – condivide la radice con γίγνομαι che vuol dire nasco.

    E non è poco.

    Muovendo dalla riflessione sulla fascinosa importanza di questo verbo nasce – appunto - una collana che tenta di soddisfare un’esigenza fondamentale da sempre della società umana: mettere in comunicazione chi dispone della conoscenza, conquistata attraverso anni di studio e un’intera vita di esperienza, e chi della conoscenza si vuole servire per migliorare la propria condizione, perché afflitto da una malattia, titolare di un diritto da far valere, per promuoversi socialmente o, semplicemente, perché beatamente curioso di un sapere.

    Ci viene proposta, dunque, una serie di opere dedicate alla diffusione della conoscenza: la novità, cruciale, è che i titolari della sua trasmissione non sono intermediari, come spesso accade, ma proprio le persone che detengono il sapere che si fa prassi socioculturale, dimensione antropologica. Sono medici, avvocati, commercialisti, architetti, imprenditori, artisti. Cittadini, insomma della Città dell’uomo.

    Chiunque abbia costruito, negli anni, una competenza basata sullo studio e approfondita dall’esperienza è chiamato a condividerla per formare un bagaglio comune, un alveare di sapienza al servizio dei lettori.

    La Collana è perciò anche una rassegna di buoni professionisti del Paese, donne e uomini che hanno dedicato passione e – diciamolo! – anche fatica, all’acquisizione di un patrimonio che sono disposti a condividere. Per non dimenticare la definizione della cultura data dal filosofo: il sedimento naturale dei saperi condivisi. E da condividere, aggiungerei, con il villaggio globale fatto di informazione del quale tutti, oggi, siamo abitanti.

    La Collana, infine, è un farmaco. Un genere preciso e molto particolare di farmaco: un antidoto. Va assunto senza alcuna preoccupazione di effetti indesiderati perché è l’antidoto a un veleno potente e diffuso: l’ignoranza.

    Fake news, bufale, catene di Sant’Antonio multimediali, chiacchiere di fattucchiere e bugie più o meno telematiche sono gli agenti del contagio, gli untori dell’intruglio velenoso.

    Ogni atto volto a contrastare la progressione del morbo va dunque accolto con la riconoscenza che si tributa al medico intervenuto a salvarci la vita. E a scacciare lo stregone.

    Con la certezza di rivolgervi il più fausto degli auspici, il migliore che possa capitare di ricevere, vi auguro dunque una buona lettura.

    Michele Mirabella

    INTRODUZIONE

    Una delle differenze fondamentali fra scienze sociali e scienze naturali è che i fatti che le prime mirano a spiegare sono storici, ossia mutano non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente e in modo irreversibile nel tempo storico. In altri termini, mentre nelle scienze naturali la realtà è generalmente immutabile, in campo economico la realtà varia col passare del tempo.

    Sylos Labini.

    Il tema in generale

    Due sono gli aspetti che costituiranno il filo conduttore del mio lavoro. Più intrecciati di quanto non si creda.

    Il primo filone è costituito da argomenti e temi più strettamente giuridici che, però, hanno anche un impatto economico. La certezza delle pronunce giudiziali per l’impresa, ad esempio è un valore. Certezza non solo sui tempi, ma anche sulla prevedibilità del loro contenuto, in modo da poter articolare previsioni di comportamento imprenditoriale, tenuto conto degli orientamenti prevalenti.

    Il secondo filone attiene ad una pretesa di egemonia del dato economico su ogni altro valore. Pretesa, molte volte ammantata di scientificità, che travolge i rapporti reciproci, influenza il caos delle stesse pronunce giudiziali e il caos normativo. Rende incerto il destino delle persone.

    A) Il primo aspetto attiene al pianeta Giustizia e si potrebbe sbrigativamente indicare, per usare uno slogan, con il titolo di un saggio del filosofo e giurista statunitense Bruce Ackerman, cioè Good-bye, Montesquieu.

    Per usare un linguaggio più vicino all’Italia si può fare riferimento al fenomeno delle sentenze creative, secondo il quale, anche in mancanza di una disciplina di dettaglio, si invita la Giurisprudenza a considerare che non esiste "un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione di casi loro sottoposti" (Paolo Grossi. L’invenzione del diritto. Laterza. 2017. p.127 e sentenze ivi citate).

    Si legittima ogni operazione che conduce a far sì che le regole non siano poste dal Parlamento, che le questioni anche controverse o laceranti non siano risolte dalla volontà democratica tramite il Parlamento.

    Sono consapevole, in questo primo approccio e presentazione, di essere polemico di fronte alla discrezionalità giudiziale, di fronte al c.d. carattere inventivo (termine suggerito dal termine invenire latino secondo Paolo Grossi, cioè di chi è un cercatore di un ordine giuridico riposto, non appariscente ma esistente, che va trovato, individuato, definito tecnicamente) del giudice/interprete, carattere che mi disturba, come disturberebbe ogni laudatores temporis acti che non sappia adattarsi al diritto post-moderno secondo la terminologia dell’ex Presidente della Corte Costituzionale Grossi.

    Ma premetto, per chiarire ogni dubbio nel corso dell’opera, che sono, anche se può essere un pregiudizio mio, quello che in modo semplicistico si potrebbe definire, per un aspetto più propriamente politico-giuridico, molto convinto dell’impostazione degli Illuministi, nonché di Hans Kelsen, anche se seguendo Kelsen si può ammettere la presenza di pronunce della Giurisprudenza creative, basta che provengano da organi legittimati ad emanarle, al di là del loro contenuto (v. Luigi Ferraioli. Contro la Giurisprudenza creativa; nella rivista Questione Giustizia n.4/2016; il fenomeno diventa devastante in ambito penale con il Diritto Penale giurisprudenziale e spunti di Diritto Comparato, in Id. - a cura di - Sistema penale in transizione e ruolo del diritto in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale. Cedam.1997).

    Per fare una sola incursione in ambito penale attinente quasi ai fatti di ogni giorno, l’assoluta discrezionalità sembra andare oltre il contenuto delle sentenze. Anche questo diventa un fatto economico: riporta il Corriere della Sera del 7 marzo 2014 una strana iniziativa della Procura di Roma.

    L’articolo (Processi a numero chiuso a Roma. Non più di 12mila casi all’anno di Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera) riporta la notizia che i pubblici ministeri definiscono tra i 18.000 e i 20.000 processi l’anno, mentre i giudici sono in grado di celebrarne non più di 12.000: cioè ogni anno resterebbero fuori almeno 6.000 procedimenti, che tra l’altro andrebbero ad aggiungersi ai 34.400 esistenti a fine dicembre 2013. Il Presidente del Tribunale di Roma con una decisione approvata dal CSM, avrebbe stabilito criteri di priorità per la trattazione davanti al giudice monocratico.

    Vengono messi da parte casi come frodi in commercio, minacce, invasione di terreni ed edifici (con un lasciar fare per gli abusivi delle case popolari), commercio di prodotti con marchi falsi ecc., tutte fattispecie con rilevanza anche economica diretta e ai fini di una corretta concorrenza. Stante la situazione, il procuratore Giuseppe Pignatone avrebbe deciso di inoltrare al giudice non più di 12.000 richieste di fissazione di udienze con una circolare che fissa criteri di priorità, il resto verrebbe accantonato in un apposito ufficio chiamato Sdas, Sezione definizione (si usa un po’ di umorismo nelle parole…) affari seriali, senza procedere alla scansione degli atti a conclusione delle indagini, né alle notifiche degli avvisi alle parti, in attesa che dal Tribunale giungano notizie su quando sarà possibile fissare la data dell’udienza.

    Questa la situazione!

    B) Il secondo aspetto è economico. Esso attiene alla pretesa che esistano leggi economiche fuori dalla storia, che si applicano sempre e comunque, che meccanicamente quasi determinano le azioni e i comportamenti. Comportamenti che poi, caso strano, sono sempre di un certo tipo, che presuppongono un uomo razionale, che agisce in modo razionale ma al tempo stesso in un modo sempre determinato.

    Tornando al primo aspetto, combattere la riduzione del diritto a legge e combattere la riduzione della legge alla produzione statale, se può essere una valida concezione a livello culturale generale, se lo è stata in passato, anche lontano, prima ad esempio della Rivoluzione Francese, oggi considerare il diritto come un insieme di prassi, di regole che nascono dal basso, che la società civile si darebbe al di là della statualità, diviene di fatto una concezione che può mettere in difficoltà la stessa economia, per la forza pastoie, dei particolarismi presenti in questo caso.

    Pensiamo alla nota espressione di Voltaire, per il quale "vi sono, si dice, centoquarantuno coutumes in Francia che hanno valore di legge, queste leggi sono quasi tutte diverse. Un viaggiatore, in questo paese, cambia legge quasi tante volte quante cambia i cavalli da posta" (Voltaire. Dizionario filosofico. Mondadori 1962. p.437).

    Si crea un terreno fertile dove gruppi economici potenti possono fare il bello e il cattivo tempo, senza neanche dover esercitare la loro attività di lobby verso un Parlamento, ma semplicemente mettendosi d’accordo con altri gruppi simili, a danno dei concorrenti più piccoli o delle persone. Una situazione caratterizzata da legali che elaborano schemi contrattuali tratti un po’ dall’esperienza, un po’ da vari ordinamenti, che poi impongono con un procedimento opaco quando va bene, se non antidemocratico, cioè almeno non oggetto di dibattito pubblico o dibattito tout court.

    Diritto senza Stato tende a diventare sinonimo di prateria sconfinata senza regole, con il solo mercato che ha il compito di regolare gli affari e i destini degli individui, con accordi internazionali, quando vi sono, che sovrintendono e giudici che interpretano che diventano onnipotenti.

    Ma con un diritto privato prodotto da privati, magari nell’ambito delle prassi commerciali, con avvocati che diventano essenziali per predisporre testi, ai quali viene rimessa la scelta della lex fori e della lex contractus (oltre che la scelta del modello contrattuale di riferimento), viene a mancare la politica come motore della legge, la fabbrica della legge.

    Viene a mancare il controllo e la produzione democratica della legge. Invece se la politica è il motore della legge, risulta chiaro che il diritto è interpretazione e applicazione della legge: formulazione della legge e sua applicazione sono due fasi distinte, e pur nell’autonomia della seconda per l’attribuzione di significato, abbiamo due ruoli diversi in una sorta di divisione del lavoro.

    Abbiamo una prima fase dove si passa da un controllo democratico. E così, si possono controllare non solo chi formula la legge, ma anche i giuristi (Guido Alpa. Giuristi e interpretazioni. Il ruolo del diritto nella società postmoderna. Marietti 1820.2017. p.312, 320, 331). Il giudice, tendenzialmente, deve essere servitore della legge, perché questo, oltre che un requisito per la convivenza civile, è un valore economico: la legge diventa garanzia di eguaglianza e di imparzialità e la sua astrattezza diventa connaturata alla certezza del diritto, valore economico e di convivenza. Senza arrivare alle aberrazioni di chi, nel passato, ha collocato il sentimento del popolo al posto delle garanzie della giustizia, o ha fatto ricorso alle clausole generali o ai principi generali dello Stato (che magari diventa totalitario), anche predicare la Giurisprudenza che mima il mercato o deve mimare il mercato con assoluta libertà e discrezionalità, avendo esso come criterio direttivo, siamo sicuri che in realtà aiuti il mercato?

    O non si privilegiano solo le idee o gli interessi di un giudice, di una corporazione di giudici, di certe imprese contro altre o verso i cittadini?

    Il controllo di legalità, la ricostruzione logica del discorso e dell’argomentazione del giudice, il controllo su di essa come conformità ad un precetto legislativo, tutto diventa anche garanzia di libertà, contro ogni abuso da parte di singoli, corporazioni o poteri economici.

    Tornando al secondo punto, la pretesa meccanicità e astoricità delle leggi economiche, slegate dal mondo sociale, dal diritto, pone un quesito.

    Devono le leggi economiche dominare i rapporti sociali?

    Se la risposta è giustamente negativa, neanche, però, può esserci "l’abdicazione di fronte al potere totalitario dello Stato solo per evitare che la concezione individualistica della libertà... [conduca] a una sostanziale liquidazione dell’uomo da parte dell’espressione capitalista" (Henri Denis. Storia del pensiero economico. Da Platone a Ricardo. Vol. I. Mondadori. 1990, p.294).

    Nell’ambito di questo dilemma, contrapposizione, nella ricerca di un equilibrio, si muove il presente lavoro.

    La presenza dello Stato, storicamente, lo si vedrà a proposito di certe considerazioni sul diritto islamico, dalla Pace di Westfalia in poi, è stata anche una garanzia contro l’assoluta sottomissione ad un credo religioso, contro il dominio assoluto degli appartenenti all’ordine ecclesiastico sulla società. Era, magari, l’arbitrio del sovrano, la sua religione a contare, ma proprio per questo si formava una separazione tra Stato e Chiesa.

    Questo dilemma sarà sullo sfondo delle idee che si proporranno anche in tema di concorrenza.

    Per venir e al ruolo del liberalismo nel XXI secolo, acute sono le osservazioni di Dario Velo che vanno nel senso che propongo di un liberalismo che si ponga quale argine e risposta sia al potere statale sia al potere economico, delle grosse corporation, che vada nel senso delle affermazioni circa l’esistenza di due liberalismi già indicati da Natalino Irti.

    Sullo sfondo rimane il discorso generale dei rapporti tra democrazia ed economia e della distinzione e tra diritto e morale e tra diritto ed economia (v. per tutti Hans Kelsen. Democrazia. Il Mulino. 2017).

    Kelsen esplicitava come il liberalismo classico che pure significava completa libertà economica, non ha mai richiesto che "l’ordine coercitivo dello Stato non interferisse in alcun modo nelle questioni economiche e aggiungeva che tra le funzioni del diritto civile capitalista è quella di proteggere la proprietà privata e imporre l’adempimento dei contratti... lo sviluppo dello Stato moderno è caratterizzato da una sempre crescente tendenza ad una disciplina legale delle questioni economiche" e pur sostenendo che la democrazia, come sistema politico, non è necessariamente legata ad un determinato sistema economico, mette in evidenza come chi non ha proprietà individuale possa non avere libertà, il valore del compromesso politico.

    Il rapporto tra diritti politici ed economici dove i secondi in uno Stato democratico non possono soverchiare i primi (Benedetto Croce. Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia. Giuffrè.2016; Michele Zanzucchi. Potere e denaro. La giustizia sociale secondo Bergoglio. Città nuova. 2018); Dario Velo di recente è intervenuto su questi temi con osservazioni acute.

    Velo (Dario Velo. Liberalismo e liberismo nel XXI Secolo in Libro Aperto. Gennaio/Marzo 2018. p.9 e ss.; Dario Velo. D’Unione monetaria all’Unione economica europea. Il ruolo della grande impresa federale in Libro Aperto. Aprile/Giugno 2017. p.55 e ss.) sottolinea con le sue osservazioni e non si pone nel solco del consueto main stream, della teoria economica dominante. Dal punto di vista definitorio, indica nel termine liberale la teoria economica che si è contrapposta e si contrappone all’approccio prevalente. Terminologia che non corrisponde a quella dominante a livello internazionale. Si è verificata una scissione tra pensiero liberale e pensiero liberista.

    Scissione già presente nelle fasi iniziali della scienza economica. Il pensiero liberale afferma "il mercato come luogo di libertà economica all’interno dello Stato, che pure costituisce luogo di libertà nel senso più ampio". Fa della scienza economica una scienza sociale, che attinge ad una cultura interdisciplinare, una cultura che comprende anche l’economia.

    I liberisti vedono la scienza economica come una scienza fisica. All’interno dello Stato e della società si individua una sezione, l’Economia, che richiede lo sviluppo di una scienza sua, quella economica, che studia il mercato senza lo Stato. Questo approccio liberista si confronta con un tema che per l’approccio liberale non esiste: il problema del governo del mercato. Per il liberalismo il governo era prerogativa dello Stato. Per il liberismo, un mercato autonomo rispetto allo Stato deve risolvere il problema del governo. In pratica si tende ad annullare lo Stato, a limitarlo e relegarlo in stretti limiti, che può essere un bene ma anche un male, perché appunto anche il mercato, le corporation, al pari dello Stato possono essere un pericolo per l’individuo e la persona.

    Si rivendica una presunta non naturalità dello Stato e una naturalità del mercato fatto da individui.

    Ma anche qui in realtà siamo in presenza di concezioni ideologiche, non di scienza fisica.

    È nota la contrapposizione tra stato di natura (che non è mai esistito ma è una idealizzazione, fatto da individui e come luogo di rapporti di scambio tra individui, luogo dove nasce l’economia politica popolato da individui) e la tradizione classica che risale ad Aristotele che vede lo stato di natura composto dalla famiglia, la prima società naturale (non ridotta a luogo di riproduzione e pedagogico, che non ha niente a che fare con l’attività economica, come nell’opposta concezione).

    In realtà dalla famiglia e fino allo Stato c’è continuità, sviluppo, nel senso che dallo stato di famiglia allo stato civile si arriva per gradi.

    Lo Stato naturale non è fatto da individui che vivono isolati ma sono riuniti in gruppi organizzati (le società familiari), cioè esistono situazioni in cui i rapporti fondamentali che esistono all’interno di una società gerarchica, come la famiglia, sono rapporti tra superiore e inferiore, tra genitori e figli: l’evoluzione da questo stato prepolitico allo Stato vero e proprio è un’evoluzione naturale tra società minori e società maggiori e l’evoluzione avviene per cause naturali come l’aumento della popolazione o l’ingrandimento del territorio.

    Perciò lo Stato non è meno naturale della famiglia e il suo fondamento non è il consenso ma lo stato di necessità o la natura delle cose.

    Se questa ricostruzione sia vera non è il caso di approfondire ma è indice di come sono variabili, nella storia delle idee e dei concetti, le visioni per le quali con costruzioni ideologiche si può concepire lo Stato un fenomeno naturale e la famiglia un ente naturale a rilievo politico oppure si può affermare l’esistenza di uno stato di natura non fatto di famiglie (con ruolo politico) ma di individui che formano e danno vita essi soli ai rapporti economici regolati da leggi naturali fatte per individui isolati e non gruppi.

    Paolo Grossi (Paolo Grossi. L’invenzione del diritto. Laterza 2017. p.113 e 124) circa i rapporti e la derivazione del diritto, delle norme prima dal Principe, dal Re e poi dallo Stato e dalla società e della tradizione italiana statalistica e legalistica, (passando a concepire un’evoluzione da un’epoca di monoclasse a una pluriclasse, prima della Grande Guerra e dopo di essa), giunge ad affermare un’emancipazione da una visione illuministico-giacobina dove il diritto era di fonte statale e il giudice un mero esecutore e il giurista un esegeta, per condannare questa visione oramai superata e con la nuova visione del processo interpretativo e dell’interprete "la riduzione di costui ad esegeta gli apparirà, allora, quel che storicamente è: il risultato di una abilissima strategia messa in opera dalla ufficialità borghese per rafforzare il monopolio del legislatore. Gli apparirà come un luogo comune da cui è urgente affrancarsi, visione che non tiene conto che oggi il Parlamento è diverso da prima ed è meglio che leggi chiare e facilmente applicabili dalla applicabilità prevedibile le facciano organi costituzionalmente e politicamente responsabili. E ancora a proposito del giudice civile l’esegesi non si addice più oggi a questo giudice o meglio non può costituire il cuore del suo procedimento interpretativo [fin qui ancora accettabile] ma prosegue perché non si addice più il sillogismo. Questo procedimento rigidamente deduttivo che sembra fatto apposta per vanificare la volontà personale di chi lo usa [perciò dovremo temere appunto i giudici e non la giustizia] si addiceva perfettamente al giudice del vecchio Stato di diritto di marca liberal borghese…. Cosa deve fare il nuovo giudice? Così conclude: Oggi in questo nostro tempo giuridico [2017] postmoderno, il giudice attraverso operazioni squisitamente valutative deve comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto di vita, individuandone la più adeguata disciplina. E la sua ricerca si concretizza in un’invenzione [intende dal latino in un cercare] che è un procedimento contrario a quello sillogistico perché in essa non è coinvolta solo la razionalità del giudice con le sue capacità di loico, ma soprattutto qualità di intuizione percezione comprensione, tutte segnate sul piano assiologico" (Norberto Bobbio. Il positivismo giuridico. Lezioni di filosofia del diritto. Giappichelli. 1996; Norberto Bobbio. Giusnaturalismo e positivismo giuridico. Laterza. 2011, per i rapporti tra positivismo giuridico e giusnaturalismo e per quale versione del positivismo Bobbio, in una posizione equilibrata, propende; Norberto Bobbio. Thomas Hobbes. Piccola biblioteca Einaudi. 1989. p.9-26, 39-70).

    Forse il pensiero liberista trae le proprie fondamenta dalla cultura occultista inglese del ‘700-‘800, il governo garantito da una mano invisibile (che poi oggi sono mani spesso di grosse corporation); una visione un po’ romantica, dice Velo, che promuove la concorrenza a dignità di governo del mercato. Ma la concorrenza, aggiungo io, quale, di che tipo? La concorrenza perfetta, con piccole imprese price taker, non esiste e la concorrenza monopolistica o peggio che esiste, non richiede anche lo Stato per governare il mercato? Piccole imprese, taker price, dice la teoria sulla concorrenza, in modo che non abbiano potere di mercato e politico?

    Oggi esistono programmi di ricerca ed incentivo finanziario economico che partendo dalla visione realistica dei costi per la ricerca e innovazione, perché non siamo più nel ’700, cercano di sviluppare le imprese facendo crescere il loro fatturato da 10 milioni di euro a svariati miliardi, per renderle tali da poter competere e produrre, altrimenti chiuderebbero: questa è l’alternativa. Basta vedere le notizie sul programma europeo Eic pilota che cerca di sostenere gli imprenditori con idee rivoluzionarie, tipo quelli che si dedicano a prodotti innovativi come batterie al grafene, stampanti 3D per il cibo, esoscheletri o tecnologia che produce sensazioni tattili, anche se non si tocca alcun oggetto (Guido Romeo. Europa a caccia di unicorni su Il Sole 24 ore del 8 aprile 2018. p.10).

    Nel campo liberale esiste una contrapposizione, che se rievoca la nota polemica tra Croce ed Einaudi, almeno in Italia, oggi si connota diversamente, anche per i nuovi sviluppi nel campo finanziario. Sviluppi epocali.

    Per il liberismo il mercato è governato dalla concorrenza. Per il liberalismo il mercato è governato dalle leggi e dalla concorrenza. In questo senso io sono liberale. Esiste una scienza economica che è scienza sociale, che va storicizzata nei suoi rapporti con le leggi dello Stato.

    Altrimenti esiste solo il liberismo con la concorrenza che diventa violenza del più forte sul più debole, che crea un vincitore. E se anche tutto questo fosse giusto, comunque non regge socialmente, nei rapporti con gli altri, tende a creare rivoluzioni o desideri di riequilibrio.

    Il liberalismo vede la concorrenza come una forza ma contemperata da altre forze. L’equilibrio dei poteri, il potere che limita il potere applicato in ambito economico.

    Le regole dell’economia è un’espressione liberista che vede un concetto neutrale e scientifico, come se esistessero regole economiche simili a quelle della fisica o della meccanica, da qui anche i concetti tra breve e lungo periodo, dove certi fenomeni devono almeno nel secondo verificarsi. Gli economisti credono di essere i protagonisti di una scienza come le scienze fisiche.

    L’economia si autoregola con proprie regole che derivano da forze interne quali la concorrenza.

    Per l’approccio liberale l’economia è governata, così come la società nel suo insieme, dallo Stato e dalle forze che ne determinano l’assetto.

    Per i liberisti se la concorrenza è la migliore forma di governo del mercato, essa ha una legittimazione che prescinde da quella delle istituzioni pubbliche. Unica forma di legittimazione è quella utilitaristica per la quale gli individui massimizzano il loro interesse. Ma a parte le obiezioni sempre più forti, già fatte un tempo anche da liberali come Amendola dopo il primo conflitto mondiale a proposito dell’interdipendenza dei vari fenomeni, le obiezioni della moderna economia comportamentale sulla razionalità limitata e non solo, la finanziarizzazione dell’economia dimostra, oggi, come danni possono provocarsi anche in chi non ha minimamente relazione con certi comportamenti giusti o sbagliati che siano.

    Ma soprattutto la logica liberista sbaglia perché procedendo con la sua impostazione si arriva a concepire l’assenza dello Stato, di qualsiasi Stato, anche internazionale o sovranazionale, ma di fatto si lascia la persona in balia del potere economico che avrebbe solo limiti interni.

    Il liberismo diventa quasi anarchismo ma con la presenza di grossi poteri economici e finanziari soprattutto.

    Invece la logica liberale è quella logica che richiama l’equilibrio.

    L’esigenza dell’equilibrio è connaturata al vivere sociale, altrimenti ci sono le rivoluzioni! L’equilibrio diventa una condizione per il funzionamento del mercato stesso, di un ordinato mercato e "nessuna istituzione può vivere sotto lo stimolo incessante della guerra".

    Non ci sarebbe lo spazio per un governo del sistema secondo una logica pubblica, la legge della domanda e dell’offerta a condizione che sia lasciata libertà ai prezzi di adeguarsi all’eccesso o alla scarsità dei beni (anche il fattore lavoro), l’autoregolazione del mercato concorrenziale non richiede istituzioni pubbliche?

    La risposta c’è stata di recente: le banche, attori del mercato che si autoregola, che non si fidavano più l’una dell’altra, nel 2008 tutto era bloccato, con le stesse imprese manifatturiere invischiate e annodate nelle vicende di una società di assicurazioni, A.I.G., proprio in attesa di interventi e regole pubbliche perché l’autoregolamentazione non funzionava.

    Il liberismo che cerca di occupare uno spazio come l’ordine costituzionale che non gli appartiene diventa una logica totalizzante, che dovrebbe prevedere un uomo Ercole, un uomo nuovo, che non esiste, un uomo che ha la capacità di anticipare i risultati di qualsivoglia processo pubblico o privato. Ma se anche ci fosse o ci fossero questi Ercole, dovrebbero poi tra loro convivere e molti effetti che riguarderebbero la loro vita richiedono relazioni e derivano da fenomeni anche lontani da loro.

    Comunque, come dice l’economista Thaler, esistono gli Human e non gli Econ.

    Perciò le istituzioni risultano necessarie e non superflue grazie all’emersione di questo nuovo uomo creato dal liberismo. Che comunque deve convivere con gli altri presunti uomini nuovi.

    Perciò il presente lavoro sarà caratterizzato da un continuo rimando tra economia e istituzioni, tra economia e diritto.

    Velo precisa che il termine liberismo, abbiamo detto all’inizio, non coincide con la denominazione usata dal pensiero economico prevalente, ma lo usa solo per meglio spiegare una contrapposizione quando si parla di liberali.

    L’importante è comprendere che assimilare il pensiero economico alle scienze fisiche è sbagliato e molti economisti lo hanno detto e oggi meglio lo comprendono.

    Un errore metodologico di fondo, che spesso si porta dietro quello tra breve e lungo periodo.

    Il liberalismo, perciò, con questa premessa terminologica, è diverso, è l’alternativa al liberismo anche se l’inizio delle due teorie avviene pressoché contemporaneamente.

    Il liberalismo è stato il tentativo di mettere ordine e di mettere in discussione, ad un tempo, in una situazione sociale e istituzionale fondata sui diritti di nascita, la nobiltà.

    Indubbiamente il liberalismo affermandosi con la prima Rivoluzione Industriale, si contrappone ai diritti di nascita ed ha un approccio umanistico perché l’ordine politico-economico è basato e creato dall’uomo.

    Approccio umanistico cui non è indifferente la considerazione che l’uomo è essenzialmente un animale sociale.

    Dopo Aristotele, secoli dopo, Cartesio notò come l’uomo fosse l’unico animale che piange e adesso il prof. Vingethoets (Vingethoets. Who only humans week. Unravelling the mysteries of tears. Oxford Univeristy Press. 2013. p.304; Arnaldo Benini. Solo gli uomini piangono. Perché? su Il Sole 24 ore nel Domenicale del 7 luglio 2013. p.27) mette in evidenza come le lacrime, per disperazione o gioia, sono una manifestazione dell’essere sociale dell’uomo, sono un segnale sociale e per questo sono rimaste "non per un errore, come pensava Darwin. Piangono solo gli uomini perché da piccoli sono dipendenti dagli adulti più che qualunque essere vivente e da adulti per la loro emotività e socialità uniche nella natura". Almeno hanno queste manifestazioni in modo più complesso, articolato ed evidente di altri animali.

    L’approccio umanistico fa contrapporre il liberalismo al liberismo.

    In qualche modo, dopo alterne vicende storiche, trova su questo un punto di incontro con il cattolicesimo, sia quello di Maritain che esalta la persona ("la persona umana ha dei diritti per il fatto stesso che è persona: un tutto signore di se stesso e dei suoi atti; che per conseguenza non è soltanto un mezzo, ma un fine che deve essere trattato come tale... Vi sono cose che sono dovute all’uomo per il fatto stesso che è uomo" cfr. Maritain. I diritti dell’uomo e la legge naturale in Enrico Opocher e Franco Todescan. Compendio di storia delle dottrine politiche. Cedam.2012. p.304) sia dell’enciclica Centesimus Annus.

    In particolare, dal punto di vista metodologico, mantiene stretti rapporti con la storia, oggetto della storia è, per natura, l’uomo, gli uomini nel tempo, cioè si tiene conto di come si trasformano le condizioni, la sua igiene e alimentazione, le condizioni esterne ecc., come ricorda Marc Bloch (Marc Bloch. Apologia della storia o Mestiere di storico. Piccola Biblioteca Einaudi. 2009. Pag.22), mantiene stretti rapporti con la filosofia, gli studi teologici e le leggi economiche non sono leggi della fisica, secondo una logica tendenzialmente invariabili ma leggi storicosociali.

    Si inserisce in una logica costituzionale e non siamo in presenza di leggi imposte da una élite di scienziati, ma frutto della storia e della società.

    Non esiste un metro valido in assoluto per misurare il valore di un sistema economico, ma in modo relativistico spetta agli uomini indicare il criterio per valutare un sistema economico. Perciò la sua azione, del liberalismo, sia verso lo Stato sia verso il potere economico e le corporation, essendo la sua attenzione concentrata sull’uomo. I prezzi e la produzione dei beni devono essere presi in considerazione insieme ad altri fattori.

    Da qui i limiti alla concorrenza, almeno le eccezioni, il rilievo ad esempio delle professioni legali che guardano ai diritti dell’uomo. Stato e mercato si definiscono in sede storica, senza far richiamo alla provvidenza (tema di ispirazione religiosa). Al centro della visione liberale sta la storia. Senza la presenza di teoremi necessari che determinano l’evoluzione di un sistema, ma con un continuo riferimento all’affermazione di valori, storicamente ed idealmente determinati dall’uomo stesso. Bedeschi (Giuseppe Bedeschi. Storia del pensiero liberale. Laterza. 1992. p.47 e 48) ritiene che il pensiero liberale non possa esistere senza una precisa scelta di valore, cioè esiste la priorità dell’individuo rispetto alla società ma significa sua difesa verso lo Stato e verso il potere economico e significa anche accettare un politeismo di valori, cioè confronto e discussione, riconoscere che ogni persona ha una scala di valori da rispettare, una dignità da rispettare finché non infrange la nostra, significa una ricerca di consenso che indica l’evoluzione sociale, politica, costituzionale ed economica di un sistema e senza alcuna assolutizzazione del principio di concorrenza che spesso diventerebbe accettazione della "violenza come forza che plasma la storia" (Velo), tipica concezione liberista.

    Non sono questi solo discorsi teorici.

    Vediamo alcune applicazioni pratiche.

    L’opera di Luigi Luzzati a inizio Novecento che operò sul debito pubblico per rafforzare la nostra economia (la conversione della rendita – relativa a uno stock di titoli pari a 8.100 milioni –, il 29 giugno 1906, fu la maggiore dopo quella inglese del 1888, per il capitale assoggettato all’operazione; venne considerata "la meglio riuscita di quei tempi, la meno costosa"; una vicenda di grande rilievo nella storia dell’Italia contemporanea) partiva proprio dall’idea che non esistendo leggi naturali dell’economia, si allontanava dal dogmatismo liberista prima vigente dal 1870 e dimostra come questi discorsi abbiano un’applicazione pratica (Pier Luigi Ballini. Debito pubblico e politica estera all’inizio del ’900. Istituto Veneto di Scienze, lettere e arti. Venezia. 2018). L’Italia occupava, nel 1905, il sesto posto per l’ammontare del debito, fra i sei maggiori paesi d’Europa, ma il primo se si considera la percentuale delle entrate ordinarie assorbite dal suo servizio. La conversione della rendita del 1906 fu l’emblema del risanamento monetario e finanziario del paese; rappresentò l’ultimo atto del lungo processo di riacquisizione, da parte dell’Italia, della propria autonomia finanziaria.

    Un’altra applicazione di questi discorsi che sembrano teorici, proprio a proposito della concorrenza, è l’istituzione e il funzionamento delle autorità Antitrust.

    Servono autorità terze e imparziali, non solo per il funzionamento del mercato, si potrebbe dire, le professioni legali, alcune almeno, possono offrire modelli.

    Ma si è creata una pretesa.

    In un mondo dove se la nomina è politica, delle autorità politiche o statali, subito viene meno la caratteristica di imparzialità e appare (ma l’apparenza diventa, spesso, un fenomeno reale in sé anche se non lo fosse) che l’unica cosa che conta è la fedeltà o l’appartenenza ad una forza politica o, se la nomina è tecnocratica, appare la dipendenza da certi poteri economici (regole per cui i responsabili di certe autorità possono svolgere funzioni in organi pubblici, dopo averne svolte di contrapposte subito prima in società commerciali, non favoriscono l’immagine di indipendenza).

    Se poi vige la pretesa di leggi economiche naturali, come fossero leggi della fisica, solo da applicare (quando non è così perché sono frutto di scelte ideologiche che appaiono solo neutre), ecco che vengono create Autorithy che se dovessero applicare le leggi votate dal Parlamento, da un organo politico, come un notaio, sarebbe una cosa, magari con i membri selezionati a questo punto solo per le competenze (per ritornare all’esempio fatto come per un concorso notarile), ma altro è se si affida a questi enti poteri politici, di suggerire, di fatto imporre scelte politiche ed economiche, di svolgere attività creative di norme sul presupposto che comunque non potrebbero far altro, non potrebbero che suggerire certi interventi perché stanno applicando o rifacendosi a leggi economiche di tipo fisico, scientifico, naturali che richiedono certi interventi appunto.

    In pratica si consente che queste Autorithy facciano operazioni politiche o ideologiche e si pone, come disse molti anni fa Natalino Irti (nell’opera L’ordine giuridico del mercato) un problema di democrazia. Cioè un problema attuale, tanto attuale che spesso la risposta sfocia in quello che dispregiativamente viene detto populismo.

    Perciò con la consapevolezza di cui sopra, se Borges diceva che "per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli", anche per avere paura degli economisti, si potrebbe aggiungere, non bisogna essere necessariamente colpevoli.

    Non tenere conto del contenuto delle sentenze, nel senso non di controllare i giudici, ma della loro metodologia, ha un impatto economico, ma anche sui cittadini in generale. È il problema di valutare non quante pizze si fanno ma la qualità della pizza.

    Cosa voglio dire?

    Per efficacia, si intende la capacità di raggiungere un determinato obiettivo, mentre per efficienza la capacità di raggiungerlo con la minima allocazione possibile di risorse.

    Comunque è indubbio che efficienza ed efficacia sono diversi e le aziende efficienti non sono per definizione efficaci e le aziende efficaci non sono sempre efficienti.

    In genere, oggi, si privilegia il secondo aspetto, cioè l’efficienza, soprattutto per quanto riguarda molti discorsi, politici e nei mass media, sulla giustizia e sul suo rilievo in termini di competitività-paese.

    Devono, al contrario, essere tenuti in considerazione entrambi, cioè l’efficienza e l’efficacia.

    Non esiste, nel tema specifico, discorso valido sull’efficienza se non collegato all’efficacia della giustizia.

    Che significa avere, quale obiettivo, la tutela dei diritti dei cittadini. Altrimenti per migliorare l’efficienza si penalizza l’efficacia, cioè l’obiettivo, la tutela dei diritti.

    Facciamo un piccolo esempio (v. Alessandro Scaletti. Università Parthenope. Lezioni su Efficienza, efficacia, economicità).

    La mamma vuole cucinare una pizza per cena. Valutiamo la sua efficienza e la sua efficacia.

    Compra un 1 kg di farina, i pomodori e il lievito. Per valutare l’efficienza bisogna vedere il parametro di riferimento, che può essere costituito dai risultati ottenuti in passato (numero di pizze con lo stesso ammontare di risorse) dalla mamma o dalla concorrenza (potrebbe essere un concorrente la suocera) o può essere costituito da un parametro produttivo (per esempio una ricetta). Per l’efficienza produttiva, se la mamma ottiene, di solito, con lo stesso ammontare di risorse, due pizze, sarà inefficiente le volte che otterrà un numero inferiore.

    Ma se ottiene un numero di pizze superiore a due, sarà, di sicuro, efficiente, ma non è detto che sia efficace.

    Infatti, se la ricetta, per esempio, diceva di utilizzare mezzo kg di farina, mezza conserva e mezzo lievito, la mamma sarà inefficiente se utilizzerà un ammontare maggiore di risorse o tutte quelle a disposizione.

    Sarà efficiente se utilizza meno risorse. Ma potrebbe essere non efficace perché la ricetta (cioè il parametro) prescriveva specifiche quantità per aver un buon risultato.

    Spesso i discorsi politici sulla giustizia non guardano a controllare se la pizza è buona.

    Egualmente se, secondo i prezzi di mercato, 1 kg di farina costa 1 euro, mezza conserva di pomodori costa 0, 90 euro e mezzo lievito costa 0, 50 euro, la mamma sarà inefficiente le volte in cui avrà pagato, per lo stesso ammontare di risorse, un prezzo maggiore.

    Ma se la mamma riesce a pagare di meno, sarà efficiente, ma non è detto che sia efficace, perché il minor costo rispetto al mercato potrebbe indicare una scarsa qualità dei prodotti comprati.

    Anche in questo caso, molti, nei discorsi sulla giustizia, non tengono conto se la pizza è buona.

    CAPITOLO I

    IMPOSTAZIONE DEL PROBLEMA ECONOMICO

    "In realtà proprio il caso degli Stati Uniti, con le imprese gigantesche che si sono affermate, sta a dimostrare che il venire meno della concorrenza basata sulla molteplicità delle imprese non si deve tanto o soltanto, all’esistenza di privilegi e protezioni, quanto ai progressi della tecnologia che portano all’affermarsi della produzione su larga scala e della concentrazione economica. Il prevalere delle ingenti immobilizzazioni tecniche che sono appunto un inarrestabile portato della tecnologia, spinge all’ampliamento della produzione, nell’intento di ripartire gli elevati costi fissi su una massa crescente di prodotti. I consumatori sono avvantaggiati da un processo del genere che (per fare un esempio di evidenza immediata) trasforma un bene come l’automobile, in passato indice di prestigio per le classi abbienti, in un bene accessibile anche alla generalità dei consumatori. Ma, nel contempo, il potere economico si concentra. L’impresa produttrice di automobili acquisisce o promuove altre attività collaterali: dalle partecipazioni finanziarie per esercitare un controllo su altre imprese, ai giornali per influire, ove occorra, sulla pubblica opinione; alle squadre sportive, per trarre un alone di prestigio e popolarità. Viene meno in sostanza, la diffusione del potere economico che costituisce l’essenza di una situazione concorrenziale" (Federico Caffè. Lezioni di Politica economica. Bollati Boringhieri. 2008, ristampa 2017, p.82-83).

    Il nostro tema economico specifico

    Le concentrazioni e le grosse imprese sono sempre un male per i consumatori o i cittadini in genere? Nascono e prosperano solo perché ci sono protezioni? In realtà a questa seconda domanda si è risposto, spesso, negativamente.

    Molto più incerta è la risposta alla prima che riguarda circa l’interesse dei cittadini per il pluralismo e la libertà politica. Ma allora il liberalismo, anche in economia, si potrebbe dire, più che concentrarsi sui limiti da opporre allo Stato dovrebbe porre attenzione, studiare i mezzi, per frapporre limiti alle grosse organizzazioni economiche, che posseggono pure, oggi, molti nostri dati. In questo senso gli organi di controllo, terzi, dovrebbero sempre più avere un rilievo sia economico sia politico-costituzionale.

    Una perdurante mancanza di accordo, tra diversi indirizzi, esiste anche a proposito del monopolio considerato nei diversi aspetti che assume per i vantaggi che può apportare accanto, naturalmente, agli svantaggi.

    Molti mettono in evidenza le perdite verso la collettività che il monopolio crea, in termini di efficienza produttiva, di discriminazione verso i consumatori, di eccessivo potere che si esercita anche in altri campi. Ma molti hanno avuto anche opinioni diverse: un economista come Samuelson ha detto "se il monopolio quando sia giudicato dallo stretto punto di vista statico, può apparire fonte soltanto di svantaggi e sicuramente inferiore alla concorrenza polverizzata... è possibile che questi giudizi debbano essere capovolti in un mondo dinamico" (P. A. Samuelson. Foundations of economic analysis. Harvard University Press Cambridge, Mass 1948).

    Opinioni simili sono state espresse da Schumpeter.

    Bisogna che del monopolio, persino di esso, comunque del tema della concorrenza, si valutino anche i possibili effetti positivi per la collettività, in termini di avanzamento tecnologico. Non solo i difetti. Il mio lavoro sarà concentrato non solo e non tanto sulla valutazione in generale degli effetti anche positivi di certi assetti concorrenziali spesso giudicati negativamente, ma soprattutto su certe impostazioni che applicate acriticamente anche a certi organi di controllo, mentre non impediscono il sorgere di monopoli o di grosse concentrazioni (con i loro effetti sia positivi sia negativi), fanno sì che non si possano apprestare quei rimedi, nell’interesse di tutti, per attenuare o limitare o eliminare gli effetti negativi. Si applicano, spesso, anche a questi organi di controllo concetti che poi, di fatto, favoriscono le grosse organizzazioni economiche.

    Esse, che non sono sempre e solo negative, possono essere (al contrario) positive, ma solo a certe condizioni: che le impostazioni negative, veri e propri pregiudizi, verso gli organi di controllo impediscono che si verifichino. Inoltre non si tiene conto che certi configurazioni iper concorrenziali potrebbero causare o preservare assetti, nel mondo agricolo, industriale e dei servizi, caratterizzati da imprese inadeguate in rapporto alle condizioni tecniche o scientifiche o potrebbero determinare la non applicazione di forme di standardizzazione dei processi produttivi o indurre forme di localizzazione industriale negative, frutto solo di un casuale meccanismo competitivo senza alcuno sforzo di coordinamento o potrebbero determinare insufficienze nella ricerca scientifica.

    Di fronte a questi problemi, mi pongo non con certezze, se non quella che non bisogna esaltare ed assolutizzare nulla. Neanche il concetto di concorrenza come salvifico per ogni circostanza.

    E soprattutto se non arriverò a conclusioni certe vorrà dire che mi consolerò con l’osservazione di Norberto Bobbio secondo il quale a volte, io aggiungo di fronte a soluzioni fragili, è preferibile porre domande serie (sulla concorrenza e la sua utilità e con che limiti) anziché dare risposte fatue (Norberto Bobbio. Il Buongoverno, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei - adunanza solenne del 26 giugno 1981, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1983).

    Pertanto, quello che intendo fare, con questo lavoro, è anomalo, contrario alle impostazioni prevalenti in economia? Gli autori classici dovrebbero tenere conto delle modifiche quasi genetiche che l’assetto economico ha subito a seguito dell’evoluzione finanziaria degli ultimi decenni (sui quali Minsky ha avuto impostazioni preveggenti).

    Gli studiosi che si sono occupati di concorrenza per molto tempo non hanno avuto dubbi. La concorrenza è il motore dello sviluppo economico, stimola l’innovazione, il progresso tecnico, economico, accresce l’efficienza. La Comunità Europa avrebbe costituzionalizzato le regole sulla concorrenza nel senso di far sì che le regole comunitarie sono divenute regole costituzionali. La concorrenza è il cardine del sistema, bisogna sempre ostacolare i cartelli tra imprese. Se negli Stati Uniti il discorso sulla concorrenza non è mai stato univoco, se c’è stato un contrasto tra autori, Schumpeter e Arrows, tra le scuole di Harvard e Chicago, in Europa si è, di recente, enfatizzato il ruolo della concorrenza che può portare alla ricchezza del paese. Se la concorrenza fosse perfetta, i profitti, almeno in teoria, dovrebbero tendere a zero. Ma se anche così fosse, bisogna vedere se un bene per lo sviluppo e la crescita: bisogna investire e avere un ritorno per i propri sforzi lavorativi che non possono essere compressi più di tanto e il profitto può essere un incentivo non solo economico ma anche psicologico, anche a un livello che prescinde da quello economico. Nella realtà, a differenza del mondo ideale della concorrenza perfetta, abbiamo oligopoli che fanno profitti altissimi e questo pone il problema, comunque, del loro controllo.

    Perciò, non tutte le regole della concorrenza perfetta possono applicarsi a tutti, almeno non a quelli che controllano. Il principio che viene enfatizzato è quello della concorrenza come motore di ricchezza. In realtà vi sono difficoltà ad accettare acriticamente certe impostazioni sempre e comunque a favore della concorrenza (la concorrenza vigorosa come motore per la competitività e la crescita economica). Certe impostazioni che non tengono conto della storia, di quello che si è effettivamente verificato, che l’economia è una scienza sociale non matematica o biologica. Ad esempio, storicamente, è stato lo Stato che ha anche recitato un ruolo liberalizzante.

    Lo Stato mercantile, in contrasto con un commercio locale e uno di lunga distanza non concorrenziale, ha di fatto superato un sistema mercantile di città e principati protezionisti, imponendo, attraverso l’abbattimento di barriere, un mercato nazionale senza più distinzione tra città e campagna e tra le varie città e le province, industrializzando la campagna senza la supervisione delle corporazioni. Dopo l’azione dello Stato mercantile, storicamente, è stato il governo ad adottare provvedimenti che realizzarono il laissez faire. Esso all’inizio significava, in Inghilterra, libertà dalle regolamentazioni circa la produzione, non il commercio. Numerosi provvedimenti relativi a questo secondo aspetto vennero adottati dal governo: fu, ad esempio, concesso un premio di esportazione per il calicò, nel 1800, fu proibita l’esportazione del filato ecc..

    Le origini libero-scambiste dell’industria del cotone sono in gran parte false, perché l’industria non voleva regole nella produzione, la libertà nello scambio era considerata pericolosa e venivano chieste ed ottenute regole in senso contrario al libero scambio ai fini protettivi. Così anche venivano chieste ed ottenute una serie di regole che, per esempio, gettavano un gran peso della disoccupazione sui fondi pubblici o misure di analogo tenore. Le manifatture del cotone, la principale industria del libero scambio, furono create con l’aiuto di una normativa pubblica, tariffe protettive, premi di esportazione, legislazione che ampliava le funzioni amministrative dello Stato per realizzare i compiti chiesti dai sostenitori del liberalismo ecc.. Per paradosso se l’economia del laissez faire era il prodotto di un’azione deliberata dello Stato, le limitazioni al laissez faire iniziarono più spontaneamente come reazioni a certe degenerazioni per quanto riguarda il trattamento umanitario dei lavoratori. Attorno al 1870 si sviluppò un movimento protezionista, un movimento che portava a leggi sulle fabbriche e le assicurazioni sociali, i servizi sanitari, come reazione a certe degenerazioni legate alla libertà nell’attività produttiva. Leggi, come quelle che poi limitarono i trust e la possibilità da parte delle imprese di imporre i prezzi che si volevano, al pari delle leggi che prevedevano salari minimi, che i liberali videro come un tradimento del laissez faire. In realtà esso era nato in base ad un’azione del governo, il laissez faire veniva ristretto da un’azione del governo sulla base di spinte spontanee della società, mentre le spinte che ne videro la nascita (come dimostrano le misure che proteggevano il commercio) provenivano dai produttori. La legislazione antiliberale relativa alla salute pubblica di fine Ottocento in Inghilterra e altrove, relativa alla condizione delle fabbriche, ai servizi municipali, dimostrava un intervento governativo, come c’era stato alla nascita del laissez faire, ma questo secondo intervento era più originato da moti d’animo spontanei e a volte richiesto dagli stessi liberali per la realizzazione e conservazione del mercato (Karl Polanyi. La grande trasformazione. Einaudi. 2010. p.186-192). Oggi, però, più che alla realtà storica si guarda ai teoremi logici!

    In Economia è famoso il teorema della mano invisibile, la teoria della Pareto-ottimalità: date certe premesse, le conclusioni ne derivano logicamente. Ma bisogna verificare se le premesse sono solide. Le premesse consistono in genere in:

    - le azioni e le scelte dei soggetti si basano sul principio della razionalità individuale; l’attività economica è completamente libera;

    - i mercati sono perfettamente concorrenziali.

    Queste premesse, più che coerenti, sono realistiche? E se ne manca anche solo una o una viene modificata? Per esempio la concorrenza perfetta è una forma di mercato estremamente improbabile: perché il mercato possa essere considerato in un tale sistema, occorrerebbe una serie di requisiti che è impossibile che siano presenti tutti. Perciò, quando i mercati non sono perfettamente concorrenziali, gli esiti non sono neanche pareto-ottimali, cioè pressoché sempre. Perché si verifichi la situazione prevista dalla teoria della mano invisibile occorrerebbe l’assenza di esternalità, cioè anche qui, situazioni improbabili. In realtà perché si possa parlare di mercato, cioè uno scambio che si afferma come sistema generalizzato e non come fatto episodico, occorre che la libertà delle azioni economiche e l’attività commerciale e di scambio siano garantite e tutelate, siano regolate.

    Occorre il diritto, anche nel selvaggio West!

    La teoria dei giochi, semplici osservazioni di illustri e antichi economisti la provano e contrastano con una pretesa di una concorrenza che oggi va di moda. Dalla teoria dei giochi si trova una smentita a certi principi individualistici-egoistici.

    A) L’esempio classico della teoria dei giochi è il caso del dilemma del prigioniero.

    Si dà il caso di due prigionieri (ripetiamo l’esempio da un noto manuale: Paul Samuelson, William D. Nordhaus, Carlo A. Bollino. Economia, McGraw-Hill Education, p.195) Carmen ed Edoardo, che hanno commesso un reato insieme. Vengono interrogati separatamente. Viene data a ciascuno la possibilità di confessare, denunciando l’altro. Così si otterrebbe, per chi denuncia una condanna a 3 mesi e per il compagno a 10 anni. Se ammettessero entrambi la propria colpa, senza denunciare l’altro, verrebbero condannati a 5 anni ciascuno. Se entrambi negassero, verrebbero condannati ad 1 anno ciascuno. Cosa devono fare? Confessare e prendersi 3 mesi che sono meglio di 5 anni? Non confessare sarebbe rischioso, perché se uno dei due confessa, all’insaputa dell’altro, fa condannare a 10 anni chi non ha confessato. Perciò meglio confessare e prendersi 5 anni anziché rischiarne 10. In realtà un atteggiamento cooperativo sarebbe preferibile, tra i due, che, al contrario, agendo egoisticamente prendono una pena più lunga.

    Certamente un accordo o comportamento cooperativo porterebbe migliori risultati ad entrambi i soggetti protagonisti del dilemma del prigioniero: negare per entrambi li porterebbe, per esempio, ad una pena di 1 anno, che non è 3 mesi ma potrebbe essere invitante. Questo lo sanno già molte organizzazioni malavitose, iniziando dalla mafia, che spingono, per questo e altri motivi utili agli interessi dell’organizzazione, a far tenere comportamenti collusivi. Spingono a tacere. Nella realtà la spinta a tacere, a cooperare o no, è determinata da tanti e diversi fattori. Anche dalla ripetitività e molteplicità dei rapporti (Robert Axelrod. Giochi di reciprocità. Feltrinelli. 1985; A. Massarenti. Strategie per cooperare. Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2000; F. Carlini. L’altruismo conviene in Il Manifesto del 23 gennaio 2001; Oskar Morgenstern. Teoria dei giochi. Bollati Boringhieri. 2013 Antonella Meniconi. Storia della magistratura italiana. Il Mulino. 2012).

    Certo, la teoria dei giochi non dovrebbe trascurare l’antico insegnamento che deriva da una vecchia favola, probabilmente di Esopo, che testimonia dell’agire irrazionale, al di là delle prove empiriche e degli esperimenti degli economisti comportamentali che vedremo. La favola della rana e dello scorpione narra di uno scorpione che chiede a una rana di lasciarlo salire sulla schiena e di trasportarlo dall’altra sponda di un fiume. La rana temendo di essere punta durante il viaggio si rifiuta; tuttavia lo scorpione sostiene che anche lui cadrebbe nel fiume e non sapendo nuotare morirebbe insieme alla rana. Così la rana accetta e inizia a trasportarlo ma a metà strada lo scorpione effettivamente punge la rana condannando a morte entrambi. Quando la rana sente la puntura dello scorpione chiede il perché del suo gesto e lo scorpione risponde: È la mia natura. La favola è utilizzata per indicare il comportamento di alcune creature che, incontentabili, trascurano le conseguenze delle loro azioni. Ma torniamo alla teoria dei giochi e al nostro dilemma del prigioniero. Si possono fare anche altri esempi che rientrano nello schema B. Vediamo un secondo esempio dove si dimostra che comportandosi razionalmente, in modo individualistico, non si raggiunge la migliore soluzione sociale.

    B) C’è un appartamento dove vivono due studenti che hanno ciascuno 700 euro.

    Devono decidere se acquistare un televisore.

    Ad ognuno l’acquisto del televisore porterà un beneficio quantificabile in 500 euro a testa. Il costo del televisore è di 600 euro. I servizi del televisore possono essere considerati come un bene pubblico perché la televisione può essere vista da entrambi contemporaneamente e, una volta acquistata, ben difficilmente si può vietare ad uno dei due di vederla. Vi possono essere comportamenti c.d. del free-rider (vedremo meglio il concetto, che è di colui che si approfitta, gratis, del lavoro altrui). Ciascuno spera che ad acquistare il televisore sia l’altro. Perciò potrebbe dichiarare di non essere interessato all’acquisto, che preferisce leggere o piuttosto non trova conveniente sborsare 300 euro, perché asserisce che il vantaggio monetario di avere il televisore è inferiore a quell’importo. Comportandosi entrambi così, il televisore non verrà comprato. In realtà sarebbe economicamente efficiente per entrambi comprarlo, dato che la somma dei benefici individuali (500+500=1000) eccede il costo complessivo di 600. Ma se entrambi scelgono di non contribuire, il televisore non verrà comprato e ciascuno percepirà un’utilità di 700 euro, il reddito iniziale. Se entrambi decidono di contribuire, ciascuno sborserà 300 euro e quindi la situazione di ciascuno sarà pari a 700-300+500=900 euro. Nel caso in cui soltanto uno dei due decida di contribuire all’acquisto, chi spende l’intero ammontare, alla fine avrà un’utilità pari a 700-600+500=600 euro, mentre chi non ha speso nulla conseguirà un’utilità pari a 700-0+500=1200 euro. Cioè la non contribuzione sarebbe la strategia dominante, per ciascuno dei soggetti: infatti se uno decidesse di contribuire, per l’altro sarebbe meglio non contribuire; qualunque sia la scelta di uno dei due, l’altro dovrebbe trovare ottimale non contribuire. Ma così, agendo individualmente in modo razionale, (entrambi scelgono di non contribuire) si dà luogo a una situazione per la quale entrambi sarebbero potuti star meglio in un’altra situazione. Se entrambi gli studenti avessero scelto di contribuire, avrebbero ottenuto un’utilità pari a 900, dunque maggiore di 700 euro. La stretta razionalità individuale, porta ad un esito socialmente inefficiente.

    C) Un terzo esempio può essere costituito da due soggetti che, in un lago, vogliono pescare, intensamente o moderatamente. Pensiamo a tutte le situazioni di pesca e sfruttamento di risorse biologiche. Se entrambi pescano intensamente, la riproduzione dei pesci si arresta e, nel breve periodo, nessuno potrà più pescare alcunché (utilità 0); se uno pesca intensamente e l’altro moderatamente, il primo ottiene un vantaggio molto elevato (mangia molto e i pesci possono continuare a riprodursi), mentre il secondo è danneggiato in modo particolare (si astiene dal pescare abbondantemente e vede l’altro mangiare); se entrambi pescano moderatamente, entrambi ottengono moderati vantaggi.

    Per ciascun pescatore si presenta come dominante la strategia di pescare intensamente, ma diventerebbe a lungo andare una situazione peggiore per entrambi. Tutti questi esempi dimostrano che ha rilievo anche il notariato, in contrasto con l’assunto di Adam Smith.

    Il gioco dimostra che, nel momento in cui ogni giocatore persegue il suo ottimo e si comporta in modo individualmente razionale, ciascun giocatore determina una situazione sub-ottimale dal punto di vista sociale. L’ottimo individuale non porta all’ottimo sociale e, dall’altra parte, l’ottimo sociale non è compatibile con comportamenti individuali ottimizzanti.

    Cioè il dilemma del prigioniero è l’esatto contrario della metafora della mano invisibile di Adam Smith. Occorrono regole, istituzioni per risolvere certe situazioni, che non possono essere lasciate alla sola iniziativa di ciascuno che persegue il suo interesse. Infatti vediamo:

    1 - Gioco della battaglia dei sessi

    Ci sono due fidanzati (M e F) che non possono comunicare perché non hanno i telefoni cellulari ma sanno che devono incontrarsi la domenica pomeriggio. Non hanno deciso preventivamente di andare al cinema o alla partita di calcio. Per entrambi è prioritario stare con il fidanzato, ma lui (M) preferisce vedere con lei (F) la partita.

    Lei preferirebbe vedere con lui un film al cinema.

    Ciascuno dei due può scegliere tra la mossa di andare al cinema (C) e la mossa di andare alla partita (P). Nessuno può scegliere l’esito che è frutto della simultanea scelta di entrambi ma soltanto la propria mossa. Per verificare l’esito del gioco basterebbe chiedere al proprio fidanzato cosa ha scelto, incrociare le mosse e tirare le somme. Nessuno dei giocatori ha una strategia dominante (prioritario è vedere il partner), perciò non si può prevedere ex ante cosa succederà. Ma in Italia, società maschilista, cioè dove ci sono regole, consuetudini, istituzioni particolari, si può dire che vi sarà un comportamento consolidato anche se determinato, prescindendo che vi sia una formalizzazione di una norma di legge.

    In una società maschilista si può prevedere che sia M sia F scelgano P.

    Al contrario in una società dove prevale il galateo, M (ma anche F) sceglierebbe C, il cinema. Le regole, formali o informali (galateo), sono importanti per arrivare a soluzioni sociali soddisfacenti.

    Il Common Law parte dalle consuetudini ma... sino ad un certo punto, perché poi, negli stati, vi sono regole legislative e chi controlla, impone il maschilismo o impone il galateo. Ma di più, in alcuni casi le regole sono sicuramente non consuetudinarie.

    2 - I turisti all’incrocio

    Due turisti si fronteggiano ad un incrocio con due motorini. Uno viene da destra (D) e uno da sinistra (S). Ciascuno può decidere se fermarsi (F) o passare (P). Possono esserci 4 soluzioni e nessuno dei due ha una soluzione dominante. Ma a differenza dei due fidanzati, dove c’era una regola consuetudinaria, maschilista o che preferisce il galateo, qui un’istituzione ha stabilito a chi spetta la precedenza. Dal punto di vista della razionalità economica è assolutamente irrilevante che la precedenza sia per chi viene da destra o da sinistra: l’importante è che ci sia una regola e un controllore per evitare un esito inefficiente. In realtà, al di là di quanto abbiamo detto circa la relazione tra Adam Smith e la razionalità in economia e il criterio di guida costituito solo dall’interesse individuale, come sembra emergere dal famoso detto, le cose sono un po’ più complicate e non stanno, neanche in Smith, proprio così (gli esempi sopraindicati sono tratti da: Roberto Cellini. Politica economica. Introduzione ai modelli fondamentali. McGraw editore. II Edizione. 2011. p.101-108).

    Analizziamo, dunque, una serie di punti che costituiranno la base per lo sviluppo nei prossimi capitoli.

    I. Dal punto di vista generale certe impostazioni di microeconomia, di tipo neoclassico, oggi devono essere riviste alla luce delle nuove acquisizioni.

    Penso a Daniel Kahnemann e alla sua teoria comportamentale su base psicologica (Daniel Kahneman. Economia della felicità. Il Sole 24 ore, 2007; Daniel Kahneman. Pensieri lenti e veloci. Mondadori, 2012; Marco Novarese. Economia comportamentale e scelte del consumatore in Consumatori, Diritti e Mercato. Argomenti, n.3/2010; George Akerlof. Racconti di un Nobel dell’economia. Asimmetria informativa e vita quotidiana. Ed. Il Sole 24 ore. 2003; George Akerlof e Rachel Kranton. Economia dell’identità. Come le nostre identità determinano lavoro, salari e benessere. Laterza. 2012; Herbert Simon. Il comportamento amministrativo. Il Mulino. 2001; Paul Krugman e Robin Wells. Microeconomia. Zanichelli, II Edizione. 2013, p.239-253; John Sloman, Dean Garrat. Microeconomia. Quarta edizione. Il Mulino. 2014, p.44-47). L’economia comportamentale, a mio modesto parere, è una vera rivoluzione ed anche tentativi di alcuni suoi esponenti come Thaler, di trovare una linea di intesa, sono tentativi tattici (v. Emiliano Brancaccio. Nobel 2017: Thaler e le contraddizioni della spinta gentile su Economia e politica del 10 ottobre 2017). Robert Solow ha sostenuto che i più accaniti neoclassici contemporanei, Lucas ecc., dovrebbero essere considerati come quei matti che si credono Napoleone e che vogliono discutere con il resto della popolazione della battaglia di Austerlitz ed è ridicolo sia analizzare i dettagli di quella battaglia come le minuzie dei modelli neoclassici assolutamente improbabili circa la loro possibilità di accadere. Perciò non si può considerare l’equilibrio neo classico un ideale cui tendere come se ritenessimo che quella persona che si presenta come Napoleone non sia in fondo così pazzo ma un saggio massimizzatore da emulare. L’impostazione di Kahnemann in realtà è basata sui due sistemi di pensiero. Uno veloce, che porta a decisioni automatiche, sottratto al controllo dell’attenzione, che genera reazioni spontanee ma ci porta ad errori o ci fa scegliere soluzioni solo soddisfacenti o comunque ci allontana dal criterio dell’optimum razionale; il secondo, lento, riflessivo, improntato all’attenzione, che cerca di analizzare passo dopo passo gli aspetti di un problema. Due sistemi operano congiuntamente nelle scelte, così come opera la considerazione che è importante come si costruisce l’architettura delle scelte o la considerazione che spesso si vuole che altri scelgano per te, che non si ha sempre tempo per un vaglio analitico di tutti gli aspetti ed è preferibile affidarsi in modo automatico, inconsapevole, agli usi, al modo in cui sono presentate le soluzioni (Cass R. Sunstein. Semplice. L’arte del governo nel terzo millennio. Feltrinelli. 2014; Cass R. Sunstein, Richard. Thaler. Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità. Feltrinelli. 2009). Sunstein fa un esempio a proposito delle scelte. Dice Obama, in modo un po’ paradossale: Sto cercando di ridurre il numero di decisioni da prendere. Non ho voglia di stare a decidere cosa mangiare o indossare. Ho già troppe scelte da fare. Bisogna economizzare la propria energia decisionale. Si ha bisogno di routine. Aggiunge Sustein: "È un consiglio utilissimo, e non solo per i Capi di Stato: le persone intelligenti fanno ricorso alla routine, ma anche le nostre vite sono routinizzate e rese vivibili da innumerevoli decisioni prese

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