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Riscontri. Rivista di cultura e di attualità: N. 2 (MAGGIO-AGOSTO 2020)
Riscontri. Rivista di cultura e di attualità: N. 2 (MAGGIO-AGOSTO 2020)
Riscontri. Rivista di cultura e di attualità: N. 2 (MAGGIO-AGOSTO 2020)
E-book490 pagine3 ore

Riscontri. Rivista di cultura e di attualità: N. 2 (MAGGIO-AGOSTO 2020)

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Info su questo ebook

Fondata nel 1979 da Mario Gabriele Giordano, “Riscontri”, la Rivista che Mario Pomilio ebbe a definire “bella e severa”, ha sempre conservato la sua fondamentale connotazione così originariamente definita nell’Editoriale programmatico: «la fede in una cultura che non sia strumento in rapporto a fini prestabiliti, ma coscienza critica della realtà; non filiazione di precostituite ideologie, ma matrice di fatti e di comportamenti anche etici e politici: che insomma proceda e operi nel vivo della comunità civile non per dogmi ma per riscontri».
In questo numero:
  • Il Decamerone come documento della peste del 1348
  • La prova di Vincenzo Cuoco. Un tentativo molto attualedi “pedagogia sociale”
  • Leonardo Da Vinci e Galileo Galilei: la nascita della scienza moderna
  • Il mondo al tempo del coronavirus. Dallo shock mediale alle nuove sfide lanciate dal digitale
  • Kandinsky e l’esperienza estetica dell’arte: spirituale e reale
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2021
ISBN9791220249010
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    Anteprima del libro

    Riscontri. Rivista di cultura e di attualità - Riscontri

    AA. VV.

    RISCONTRI

    RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ

    UUID: 7d7c30ab-1612-442f-b654-5367c4e99389

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    EDITORIALE

    STUDI E CONTRIBUTI

    Il Decamerone come documento della peste

    Giocando alla teologia. E barando

    La logica nell’indagine poliziesca

    La prova di Vincenzo Cuoco

    OCCASIONI

    Leonardo Da Vinci e Galileo Galilei

    Il caso Ivanyc

    Il mondo al tempo del coronavirus

    MISCELLANEA

    Le trasformazioni della metamorfosi

    Kandinsky e l’esperienza estetica dell’arte: spirituale e reale

    Percorsi dell’illuminismo giuridico

    ASTERISCHI

    Banche e supermercati

    RECENSIONI

    Mad Max chiama Franz Kafka

    La fatica sprecata di vivere

    Le ragioni della poesia

    Le iene che minacciavano Emilio Salgari

    Ombre antiche sull’isola del mare e del sole

    Leggeri incontro alla vita

    La leggerissima sostenibilità del caos apparente dell’essere

    Cocktail di sacro e profano

    Antica modernità

    Regina ti presento Angus

    Operazione nostalgia

    La simbologia del rito dell’incenso per comprendere il mondo di oggi

    Dritti al Cuore della Terra

    Libri consigliati

    Note

    In copertina:

    A Tale from the Decameron

    di John William Waterhouse (1916)

    Tutti i diritti di riproduzione e traduzione

    sono riservati

    Responsabile: Ettore Barra

    Registrazione presso il Tribunale di Avellino, n. 2 del 15/03/2018

    Amazon Media EU S.à.r.l. (AMEU), 5 rue Plaetis, L-2338 Luxembourg

    Anno XLI (Nuova Serie II) - N. 2, MAGGIO-AGOSTO 2020

    Periodicità: quadrimestrale

    email: direttore.riscontri@gmail.com

    sito: www.riscontri.net

    EDITORIALE

    SPIRITO E FORMA DELLA DEMOCRAZIA

    Si tende ormai, da tempo, a valutare la tenuta di un regime democratico solo dagli aspetti formali. Ovvero dal regolare e periodico svolgimento di elezioni, dalla garanzia della libertà di stampa, dalla certezza del diritto, ecc… Tutti aspetti fondamentali e di cui – specialmente per l’Italia – ci sarebbe molto da discorrere. Eppure si dovrebbe tenere presente che il cardine, su cui si regge tutto il delicato equilibrio di una democrazia, è invece culturale e spirituale. Può verificarsi, infatti, che un Paese contempli nel suo ordinamento tutti i principii democratici, salvo, nella pratica, svuotarli del tutto di contenuto. È il caso, per esempio, dell’Afghanistan che – dopo l’invasione americana del 2001 – ha visto l’instaurarsi di un regime democratico con tanto di costituzione e di legge elettorale. L’occasione di alcune tornate elettorali non mancò di illudere molti osservatori occidentali sulla compitezza del passaggio dal regime dittatoriale a quello democratico. Salvo poi svelare l’inconsistenza stessa del nuovo Stato, composto solo di corruzione e di interessi privati, e la mancanza di una cultura democratica percepita anzi come estranea.

    Il rischio non riguarda, però, solo le nuove democrazie. Anche le più antiche vanno infatti incontro a processi di progressivo deterioramento, i cui segnali sono ormai evidenti. Nessuna democrazia può infatti vivere senza una cultura autenticamente democratica, che sia interiorizzata e fatta propria dalla popolazione.

    Sulla formazione spirituale del cittadino sembra che però nessuno voglia investire. Per questo è ormai scontato, e socialmente accettato, che non si riconosca più il diritto di critica. Quasi nessuno sembra più accettare l’opinione contraria, che si parli di sport o di politica. Invece di essere accolta con interesse e con curiosità, l’idea difforme viene sempre più spesso accolta, con indignazione, come offensiva per il fatto stesso di essere espressa. Completamente perso, o forse mai avuto, quel sano atteggiamento laico che spinge a dubitare delle proprie posizioni, per ascoltare le ragioni anche di chi si fa latore di una visione del mondo diametralmente opposta. È anche questo il motivo per cui il dibattito politico è sostanzialmente privo di argomenti e ricco di invettive ad personam indirizzate all’avversario o al giornalista di turno.

    Fa molto riflettere l’episodio accaduto di recente in un piccolo paese. Di fronte ad una manifestazione – organizzata privatamente nella sede di una libera associazione, con lo scopo di esprimere dissenso nei confronti di un disegno di legge – il sindaco ha pensato bene di capeggiare una contromanifestazione, proprio di fronte alla sede dell’associazione dove si teneva l’evento. Manifestazione apparentemente, ed evidentemente, non autorizzata data l’impossibilità, nel giro di pochi minuti, di chiedere e di ottenere le necessarie autorizzazioni; senza tenere conto del fatto che difficilmente un Prefetto autorizzerebbe una contromanifestazione in contemporanea e a pochi metri dal primo evento. Quando accade qualcosa di simile il minimo che ci si possa aspettare è l’arrivo delle Forze dell’Ordine, con relativa identificazione dei presenti. In tutta risposta, il sindaco impediva ai carabinieri di fare il loro lavoro e – in stato di agitazione – intimava loro di identificare piuttosto le persone all’interno della sede.

    Il risultato di tutto ciò è stato il grande successo mediatico del sindaco, unanimemente esaltato come modello di coraggio e di tolleranza. Sì, di tolleranza. Perché il sindaco è fermamente convinto che il disegno di legge sia giusto e che questo lo autorizzi a trattare come pericolosi nemici – processandone le intenzioni – i cittadini di altro avviso (tra l’altro nel pieno esercizio di un diritto costituzionale). Ora, a prescindere dal dibattito sul disegno di legge in particolare, il dato è la generale mancanza di obiettività. Chi ha esaltato il sindaco, condividendone le idee, non può non vedere la gravità di un simile comportamento. E senza dubbio, a parti invertite, lo denuncerebbe come squadrista e fascista. Però il sindaco ha ragione e quindi tutto è lecito.

    Ecco quindi posto il problema. Può una democrazia sopravvivere se a fare da padrona è la faziosità? Possono applicarsi pienamente i principii democratici dove quasi nessuno si sforza più di comprendere le ragioni dell’altro, in un dibattito anche franco e acceso, senza identificarlo come un nemico da censurare, processare e condannare se non, quanto meno, isolare come un appestato? Può una società civile dirsi tale senza un’opinione pubblica veramente formata, informata e plurale?

    Una soluzione, pronta ed immediata, a mali di questo tipo ovviamente non c’è. Potrebbe, però, essere utile pensare ad una rifondazione della cosiddetta educazione civica nelle scuole, riorganizzata secondo principi più profondi di quelli – banali e stucchevoli – del non calpestare le aiuole. Così come la televisione, in primis il servizio pubblico, potrebbe ricordarsi della democrazia anche senza l’approssimarsi di una scadenza elettorale, spiegando non solo le modalità del voto ma anche le sue ragioni. Piccole pillole di democrazia che potrebbero, chissà, nel tempo produrre qualche risultato.

    Ettore Barra

    STUDI E CONTRIBUTI

    Il Decamerone come documento della peste

    Testimonianze illustri della gran moria

    Nel 1364 Francesco Petrarca scrisse all’amico Giovanni Boccaccio una lettera, nella quale rievocava l’anno tragico della peste di Firenze:

    Anno di pianto fu per noi il 1348, ed ora conosciamo che al nostro pianto fu quello il principio, né mai d’allora in poi esser cessata questa straordinaria e, da che mondo è mondo, inaudita violenza di morbo, che a modo di ferocissimo battagliere, a dritta e a manca senza intermissione colpisce ed uccide[1].

    Per il Petrarca il 1348 fu, dunque, l’anno di inizio di una serie prolungata di lutti, anche se non tutti dovuti alla violenza di morbo: il 19 maggio di quell’anno, mentre si trovava a Parma, apprese che Laura, l’amata delle sue liriche, era morta ad Avignone, stroncata dalla peste, che infuriava ovunque in Europa[2]. La peste gli tolse anche il suo potente protettore, il cardinale Colonna e molti dei suoi amici, fra i quali il poeta Sennuccio del Bene. Nel corso dell’anno 1349 il Petrarca perse il padre Petracco, per cause non riferibili all’epidemia, alla quale scampò anche il fratello Gherardo, unico superstite fra tutti i monaci della certosa di Montrieux. Ma nel 1361 il poeta venne a sapere che suo figlio Giovanni era morto di peste a Milano, non sappiamo in quale anno.

    In questo arco di tempo piuttosto lungo, nel quale una serie di eventi dolorosi gli tormentò la vita, la peste lasciò il suo segno luttuoso nella personalità umana del Petrarca: ma la peste si tenne, per così dire, fuori della letteratura ed entrò nell’esistenza privata e personale del poeta, tanto che i cenni più dolenti e immediati dei lutti arrecatigli dalla peste sono nelle lettere, cioè nella sfera della comunicazione riservata. Sappiamo che il Petrarca fu a Firenze nel 1350, durante il viaggio per Roma in occasione dell’Anno Santo; non era a Firenze nel tragico anno 1348, culmine della peste fiorentina.

    A Firenze in quell’anno si trovava, invece, il Boccaccio, che fu, perciò, testimone diretto dello sconvolgimento della città, investita dalla furia dell’epidemia: l’introduzione del Decamerone, nella quale la peste viene copiosamente descritta nelle sue manifestazioni e nei suoi effetti, è una testimonianza diretta, frutto di un’esperienza personalmente vissuta, anche se priva di ricadute personali perché il Boccaccio, a differenza del Petrarca, non fu colpito dalla peste negli affetti familiari e personali[3]. Forse da questa immunità personale e familiare deriva l’impressione che il Boccaccio ci comunica con la sua introduzione, ossia che egli non sia stato intimamente toccato dalla peste. Sembra, anzi, che la sua testimonianza abbia un carattere spassionato, oggettivo, tanto più minuziosa, esatta e completa in quanto resa da una posizione di non-coinvolgimento, di estraneità di fatto, di osservazione né appassionata né partecipata e, dunque, sostanzialmente letteraria. Le espressioni di dolore, numerose ed eloquenti, tutte incentrate sulla diffusione del morbo in Firenze e sulla degradazione fisica e morale a esso conseguente, rimangono sul piano della funzionalità letteraria, nel senso che costituiscono una sorta di polo negativo dal quale trarrà risalto il polo positivo che seguirà nei racconti delle dieci giornate. Circa questa scelta obbligata di utilizzare lo sfondo letterario della peste come antitesi della vivacità ottimistica delle novelle, scrive il Boccaccio: «E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io desidero, che per così aspro sentiero, come fia questo, io l’avria volentier fatto»[4].

    Funzione letteraria e valore storico dell’introduzione del Decamerone

    Il contrasto fra la lugubre drammaticità della peste e la vitalità dei racconti ha sempre incuriosito i critici. La descrizione boccaccesca della peste sembrò al Momigliano un esempio di tragicità gagliarda; ma il Russo parlò di «divertente stupore», aggiungendo che «le cose che Boccaccio narra sono terribili, ma lo spirito con cui le narra non è terribile, ma solo graziosamente stupito»; Giovanni Getto vi lesse «un sentimento di curiosa meraviglia, che spunta sul piacere della memoria»[5]: prevale – come si vede – nel giudizio dei critici, la sensazione che il Boccaccio si ponga, nei confronti della peste da lui vista e descritta, più o meno nella stessa condizione dei giovani gaudenti che si scambiano le favole del Decamerone, allarmati, prudenti, sostanzialmente fatalisti perché spettatori (e, fortunatamente, non attori) di un evento non conoscibile e non controllabile, portatori di quell’atteggiamento composito e variegato che corrisponde all’inserimento del dramma della peste nella sfera estetizzante ed edonistica di chi la vive come un grandioso, tragico spettacolo. Ci pare che Alberto Moravia abbia più degli altri colto nel segno trovando assai significativa

    la finzione della peste e della lieta brigata ritiratasi in villa a novellare. I giovani, che si appartano in campagna mentre in città la peste fa strage, rispecchiano in forma indiretta quel solito invaghimento del pericolo, quella contemplazione affascinata delle cose più dure e più crudeli della vita da parte di chi sa benissimo di esserne al sicuro […]. La peste nutre del suo orrore le piacevolezze della vita come il terreno grasso di cadaveri di un cimitero i fiori che vi crescono sopra. Peste vagheggiata, dunque, in confronto alla peste cristiana del Manzoni, a quella moralistica del Defoe, a quella storica di Tucidide, a quella grottesca di Poe[6]

    e, possiamo aggiungere, a quella politica di Camus e all’analoga snervata malattia di Mann. L’argomento delle pestilenze ha affascinato, per la grandiosità e la spietatezza del conflitto fra vita e morte che in esse si combatte, la fantasia dei letterati di ogni tempo [7] .

    Proprio questo livello di superiore, oggettiva testimonianza rende possibile al Boccaccio comporre un quadro della peste fiorentina del 1348 che assume un valore storico in quanto completo e descrittivamente esaustivo: nessun aspetto del rapporto della città con il morbo incontrollabile viene eluso o omesso, anche se ogni tratto della descrizione si fonda sui presupposti che ben poco vi sia da capire delle cause e della natura della malattia e ancor meno sia possibile fare con qualche prospettiva di risultato[8].

    Questo clima di fatale inutilità delle prevenzioni e delle terapie alleggerisce la tensione narrativa che, del resto, si limita ad alcune pagine introduttive, a fronte delle cento novelle che costituiscono l’opera: non vi sono responsabilità, colpe, mancanze e, dunque, nessuna dialettica di carattere etico coinvolge le persone, la cui sola condizione esistenziale possibile in tale frangente è la speranza che il morbo colpisca altrove. L’impotenza delle autorità e dei medici, le diverse manifestazioni della malattia, che la rendono imprevedibile e traditrice, la disperazione delle masse attonite, nella quale si sgretola il tessuto morale della città, escludono dal quadro dell’analisi letteraria e storica ogni pensiero critico circa quello che si sarebbe potuto fare e non fu fatto: l’atteggiamento del Boccaccio verso la peste fiorentina non è quello del Manzoni verso la peste milanese e la ricerca di eventuali responsabilità è del tutto fuori del suo orizzonte.

    Testimonianze storiche fiorentine

    Una testimonianza propriamente storica dell’arrivo della peste è data dal cronista e commerciante Giovanni Villani, che ricordò in primo luogo le catastrofi naturali che precedettero la peste nei primi mesi del 1348, tra le quali il terremoto registrato a Venezia il 25 gennaio. Il Villani fu egli stesso vittima della peste e morì nell’estate di quell’anno; nella sua Cronica scrive:

    Nel detto anno e tempo [1347], come sempre pare che segua dopo la carestia e fame, si cominciò in Firenze e nel contado infermeria, e apresso mortalità di genti, e spezialmente in femine e fanciulli, il più in poveri genti, e durò fino al novembre vegnente MCCCXLVII ma però non fu così grande, come fu la mortalità dell’anno MCCCXL come adietro facemmo menzione; ma albitrando al grosso, ch’altrimenti non si può sapere a punto in tanta città come Firenze, ma in di grosso si stimò che morissono in questo tempo più di IIIIm persone, tra uomini e più femmine e fanciulli; morirono bene de’ XX l’uno[9].

    Un’altra preziosa testimonianza è offerta da Marchionne di Coppo Stefani, che iniziò a scrivere la sua Cronaca immediatamente dopo il 1348[10] ed ebbe agio di valutare tutte le conseguenze della peste sulla vita civile, amministrativa ed economica della città. Marchionne pose in evidenza come la vita fiorentina durante la peste fosse una singolare coniugazione del crescente disprezzo delle leggi con l’unica strategia alternativa al terrore del morbo, cioè con «la ricerca del piacere e delle gioie dei sensi»[11]. Tale è, appunto, il quadro della vita fiorentina univocamente tracciato dagli autori che videro la peste e notarono con raccapriccio l’involuzione della vita e dei rapporti umani nella città durante l’epidemia.

    Il lungo cammino della peste dall’Asia all’Europa

    Geograficamente la peste è una calamità che, attraversando il mar Nero e il mar Mediterraneo, giunge in Italia dall’India e più precisamente dall’altipiano ai piedi dell’Himalaya, dove essa è rimasta per secoli allo stato endemico: «peste dei roditori, epizoozia, prima che peste degli uomini, epidemia»[12]. Sei secoli prima, nel 542, durante l’impero di Giustiniano si era avuta una terribile pandemia, seguita per circa duecento anni da un’ondata di epidemie cosiddette altomedievali. Quella del Trecento è la seconda ondata, detta anche bassomedioevale, notevolmente favorita dall’agglomerarsi della popolazione nelle città, dai traffici, dai contatti connessi con un’economia sempre più mercantile.

    Questa seconda ondata entrò nello stretto di Messina alla fine di settembre del 1347. Dodici navi, sfuggite all’assedio posto dai Mongoli alla città di Caffa, base in Crimea dei traffici genovesi nel mar Nero, navigarono a lungo nel Mediterraneo come vascelli fantasma, avendo a bordo cadaveri e moribondi. Si trattava di appestati ai quali la malattia era stata trasmessa dai morti per peste catapultati dai Mongoli oltre le mure della città assediata, come proiettili, in una sorta di primitiva e ripugnante guerra batteriologica.

    In Sicilia la peste dette un primo saggio della sua potenza: Catania, Siracusa, Sciacca, Agrigento, Trapani persero gran parte della loro popolazione. Si diffuse, poi, per le città portuali della costa adriatica e tirrenica, prime fra tutte Venezia, Pisa e Genova; poi, «nello stesso modo in cui l’epidemia aveva fatto strage di vite in Sicilia e nelle città portuali italiane, invase in pochissimo tempo anche la Toscana, la Campania, il Lazio e, da Genova, la Lombardia». Nelle città toscane, la peste durò a Pisa dalla primavera al settembre del 1348; a Siena imperversò da aprile a ottobre dello stesso anno. A Firenze la peste giunse nel 1347, come narra Giovanni Villani, che fece in tempo a vederne e descriverne solo le prime manifestazioni; Matteo Villani, continuando il racconto del fratello maggiore Giovanni, scrisse che

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