Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le più potenti famiglie della mafia
Le più potenti famiglie della mafia
Le più potenti famiglie della mafia
E-book271 pagine4 ore

Le più potenti famiglie della mafia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tutti i nomi e i cognomi di Cosa Nostra dalle origini a Matteo Messina Denaro

Questo libro ripercorre le vicen­de delle più pericolose e spietate famiglie siciliane che hanno fatto la storia della criminalità organiz­zata nel nostro Paese, inserendosi nelle dinamiche della società civi­le e inquinando la politica e l’im­prenditoria. Non solo Cosa No­stra. Vengono inquadrate le storie delle aggregazioni criminali che, con alterne vicende, hanno sfidato l’organizzazione madre, o hanno trovato un accordo nel nome degli affari. Un’analisi che getta una luce sui territori di nuovo insediamen­to mafioso, come Roma, Milano e Napoli, dove, da decenni, sono presenti filiali del sodalizio nato in Sicilia. Se inizialmente Cosa No­stra ha espresso un’assoluta ege­monia sulle altre organizzazioni mafiose, oggi sembra non essere più così: da un lato ci sono allean­ze basate sul reciproco sostegno, nella ricerca di un comune profit­to illegale, in particolare sul ver­sante del narcotraffico; dall’altro, i vertici delle diverse consorterie appaiono sempre più orientati a delineare un sistema criminale che vada ben oltre i confini dell’Italia.La storia dell’organizzazione criminale più potente del mondo attraverso le gerarchie, i legami nascosti e le stragi che tengono sotto scacco l’Italia da decenni

I Greco: l’inizio del male
Gaetano Badalamenti e la cosca di Cinisi
Il regno dei Bontate
L’epopea degli Inzerillo
I corleonesi: Luciano Liggio, Salvatore Riina
Il clan di Porta Nuova: Gerlando Alberti, Pippo Calò
I Madonia e la strategia della tensione
Gli Ercolano-Santapaola
Matteo Messina Denaro, il quarto fratello
Vincenzo Ceruso
È nato a Palermo, dove vive e lavora. Allievo di padre Pino Puglisi, si è occupato di minori a rischio di devianza con la Comunità di Sant’Egidio. Già ricercatore presso il Centro studi Pedro Arrupe, collabora con l’Osservatorio Migrazioni e scrive di mafia su diverse testate. Per la Newton Compton ha pubblicato Uomini contro la mafia; I 100 delitti della Sicilia; Provenzano. L’ultimo padrino; La mafia nera; Le più potenti famiglie della mafia, Le due stragi che hanno cambiato l’Italia e, con Pietro Comito e Bruno De Stefano, I nuovi padrini.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2020
ISBN9788822751102
Le più potenti famiglie della mafia

Correlato a Le più potenti famiglie della mafia

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Criminalità organizzata per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Le più potenti famiglie della mafia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le più potenti famiglie della mafia - Vincenzo Ceruso

    cover.jpge-saggistica.jpg
    739

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Seconda edizione ebook: febbraio 2023

    © 2020, 2023 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5110-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione elettronica a cura di Il Paragrafo, (Udine)

    Vincenzo Ceruso

    Le più potenti famiglie

    della mafia

    Tutti i nomi e i cognomi di Cosa Nostra

    dalle origini a Matteo Messina Denaro

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Introduzione. Perché continuiamo a sottovalutare i mafiosi?

    Capitolo I. I Greco o l’inizio del male

    Capitolo II. Nel regno dei Bontate…. Da Villagrazia alla Loggia P2

    Capitolo III. La mafia delle tre frontiere

    Capitolo IV. L’epopea degli Inzerillo…, tra via Castellana e Cherry Hills

    Capitolo V. I corleonesi nascono a Milano

    Capitolo VI. Gli intrighi di Porta Nuova

    Capitolo VII. I Madonia, tra strategia della tensione… e terrorismo politico-mafioso

    Capitolo VIII. I garanti di Pagliarelli

    Capitolo IX. Gli Ercolano-Santapaola….All’ombra della muntagna

    Capitolo X. Messina Denaro, il quarto fratello

    Bibliografia

    In memoria di Aldo Naro, giovane medico siciliano

    ucciso nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 2015,

    vittima di un contesto mafioso segnato

    dalla violenza e dall’omertà.

    In memoria di Filippo Salvi, giovane carabiniere bergamasco morto in un incidente il 12 luglio 2007,

    mentre lavorava alla ricerca di Matteo Messina Denaro.

    I fatti riferiti nel presente saggio fanno riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi giudizio, sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva. Al contempo, un legittimo giudizio di tipo storico-politico dev’essere distinto da qualunque giudizio penale, così come il fatto di essere citati in fonti giudiziarie o investigative non implica alcun genere di condanna.

    Introduzione.

    Perché continuiamo

    a sottovalutare i mafiosi?

    La domanda che introduce questo libro possiede, a mio parere, tre risposte possibili. Continuiamo a sottovalutare i mafiosi perché riteniamo non credano in quello che dicono; perché pensiamo che siano meno intelligenti di noi, persone civilizzate e aliene all’uso della violenza; perché disprezziamo l’idea di sé che intendono trasmetterci. Queste tre risposte hanno a che fare con altrettanti elementi essenziali per Cosa Nostra: le regole, l’organizzazione, le risorse ideologiche.

    Le regole

    Il 29 luglio 1983 venne assassinato a Palermo il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Il magistrato fu ucciso con un’autobomba, una Fiat 126 collocata davanti alla sua abitazione, in via Pipitone Federico. L’esplosione provocò una strage, in cui rimasero vittime, oltre a Chinnici, il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, e i due carabinieri di scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta. L’autista giudiziario Giovanni Paparcuri sopravvisse per un caso, ma rimase gravemente ferito. Da allora, ripete la domanda che accompagna tutti i sopravvissuti: «Perché mi sono salvato io?»¹.

    Tra i componenti del commando vi era un soldato della cosca di San Lorenzo, Giovan Battista Ferrante, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. Ferrante apparteneva a una famiglia in cui la fedeltà a Cosa Nostra si era trasmessa una generazione dopo l’altra. Prima di lui, ne avevano fatto parte il padre, due zii, il nonno e il bisnonno. Il pentimento di Ferrante, stando al suo racconto, sarebbe stato determinato dal desiderio di strappare i figli alla stessa sorte. In un incontro in carcere, il figlio adolescente gli avrebbe detto: «Anche tu ti sei fatto sbirro?»². Si tratta di una di quelle scene in cui la mafia si mostra più nitidamente, non solo come una congrega di assassini, ma come «un fenomeno che appare soprattutto culturale, identitario, formativo»³. La collaborazione con la giustizia di Ferrante sembrerebbe quindi essere stata frutto di una scelta sofferta.

    Il suo ruolo nella strage di via Pipitone Federico sarebbe consistito nel guidare sul luogo dell’eccidio un furgone, lo stesso su cui si trovava Antonino Madonia, regista dell’operazione militare. Il killer sapeva di dover partecipare a un omicidio, ma non gli era stato detto quale fosse l’obiettivo, né le modalità di esecuzione.

    Leggiamo lo scambio con il magistrato che lo ha interrogato:

    PRESIDENTE: Quindi, in sostanza, mentre lei era al volante del camion e aveva accanto Nino Madonia, lei non gli chiese: «Ma che cosa ci stiamo a fare qui? Chi è l’obiettivo del nostro… del nostro progetto criminoso?». Lei neanche in quel momento sapeva che l’obiettivo era il consigliere istruttore Chinnici?

    FERRANTE: No, assolutamente. Ripeto, io ho semplicemente eseguito… anche perché a Nino Madonia, essendo una persona… anche se la conoscevo… la conoscevo bene, ma essendo una persona estranea alla nostra famiglia io non avrei avuto neanche il diritto di chiedere: «Ma che stiamo andando a fare?». Perché… perché la persona che me lo avrebbe dovuto dire, in ogni caso, non era Nino Madonia, ma mi avrebbe dovuto informare Pippo Gambino, cosa che non ha fatto; non ha fatto perché abitualmente non… si faceva così. Ma ripeto, io la persona del dottore Chinnici non… cioè, prima non lo avevo mai sentito dire.

    PRESIDENTE: Quindi, in sostanza, lei si è reso conto di avere partecipato alla strage in cui perse la vita il dottore Chinnici soltanto quando lo seppe dai giornali, in sostanza.

    FERRANTE: Mi sono reso conto di avere partecipato alla strage quando, praticamente, è saltato tutto in aria⁴.

    L’incredulità del giudice è anche la nostra, perché ci sembra impossibile che una persona diventi partecipe di una strage a propria insaputa. Ma, se ci soffermiamo sulle regole di Cosa Nostra, vediamo quanto sia infondata ogni diffidenza. Il soldato di una famiglia mafiosa non può in alcun modo violare la gerarchia a cui appartiene, pena l’espulsione dalla struttura a cui ha giurato fedeltà. Le regole sono qualcosa che gli uomini del sodalizio prendono estremamente sul serio. Il fatto che queste regole vengano violate non le rende meno serie, allo stesso modo per cui il fatto che una qualunque legge venga trasgredita non la rende meno vincolante per un normale cittadino. Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia, già reggente del mandamento di Brancaccio, era un componente del gruppo di fuoco destinato a preparare le stragi del biennio 1992-1994, direttamente agli ordini di Salvatore Riina. In un passaggio di un interrogatorio, mentre raccontava di una riunione avvenuta in provincia di Palermo, veniva interrotto dal magistrato di turno, che gli chiedeva se all’incontro fosse presente il boss Antonino Giuffrè, o se lui lo avesse mai conosciuto. Di fronte alle risposte negative del pentito, il giudice motivava la sua domanda con il fatto che la riunione si era svolta nel territorio di Giuffrè. La risposta di Spatuzza fu perentoria: «Sì, ma noi facevamo quello che volevamo»⁵. La regola della competenza territoriale, in quel particolare momento storico, era stata messa da parte per il prevalere di un organismo creato ad hoc dai vertici criminali, nel superiore interesse dell’organizzazione. Il fatto che una regola venisse ignorata (e gli esempi potrebbero essere innumerevoli), o accantonata, non significava che la regola stessa non esistesse più.

    Uno dei maggiori storici della mafia, Salvatore Lupo, nell’invitare a una «salutare diffidenza nei confronti delle regole, o meglio della loro effettiva messa in atto»⁶, ha scritto: «Perché mai i mafiosi dovrebbero essere più inclini a rispettare le leggi degli altri esseri umani?»⁷. Questo è vero solo in parte. Forse, potremmo dire che gli affiliati sono mediatamente portati a seguire le norme imposte dall’organizzazione, più di quanto un cittadino comune segua normalmente le leggi in molti Paesi.

    «La prima cosa che mi hanno spiegato sono le regole»⁸; dice ogni nuovo collaboratore di giustizia. Questo non vuol dire equiparare le regole mafiose alle leggi, così come gli ordini sostenuti da minacce non esauriscono il concetto di diritto, ben più articolato; ma significa ribadire che le regole imposte da Cosa Nostra sono qualcosa che un mafioso prende estremamente sul serio. Cito ancora una volta, seppure a memoria, Salvatore Lupo.

    Nell’ormai lontano 2007, di fronte a un giovane studioso che difendeva il cristianesimo autentico dalle forme idolatriche che assumeva nella quotidianità mafiosa, il professor Lupo ribatteva: «Il problema non è quel che noi pensiamo debba essere la religione. Ma è quello che i mafiosi pensano sia la religiosità e l’uso che ne fanno». Il problema era l’uso che gli appartenenti a Cosa Nostra facevano della religione, non che, di fatto, trasgredissero i precetti della fede a cui dichiaravano di aderire.

    Allo stesso modo, quel che conta, principalmente, non è che le regole del sodalizio vengano frequentemente violate, ma il fatto che queste regole esistano e abbiano una ricaduta concreta nella vita degli associati. I mafiosi sono convinti che le loro vite siano guidate dall’adesione a una legge non scritta e immutabile, che si esprime mediante determinate norme che ogni soldato è obbligato a conoscere e a seguire, a costo della propria vita. Ciò significa che anche noi dobbiamo prendere sul serio queste regole. Non farlo è la prima forma di sottovalutazione nei confronti della mafia da parte nostra.

    La più grande delle fake news

    La seconda forma di sottovalutazione viene attuata ogniqualvolta riteniamo che i mafiosi siano meno intelligenti di noi.

    Walter Veltroni è stato fondatore e capo del Partito democratico, il principale partito del centrosinistra in Italia. Il 23 maggio 2010, anniversario della strage di Capaci, l’autorevole esponente politico era invitato davanti alle telecamere di Che tempo che fa, la popolare trasmissione di Fabio Fazio. Dopo aver presentato un suo libro sulla strage dell’Heysel, Veltroni, da poco nella Commissione parlamentare antimafia, iniziava un ragionamento sulla mafia, in cui ricordava Giovanni Falcone e riprendeva la sua famosa espressione sulle «menti raffinatissime», all’opera nel fallito attentato all’Addaura del 1989. L’ex sindaco di Roma parlava anche del famigerato terzo livello, la misteriosa entità, più volte evocata, che starebbe sopra Cosa Nostra e ne dirigerebbe le strategie. Veltroni, inconsapevolmente, usava le parole di Falcone per confutare Falcone stesso, poiché è noto, o dovrebbe esserlo, che il magistrato siciliano condusse una tenace battaglia culturale contro l’idea stessa del terzo livello, inteso come un organismo esterno alla consorteria criminale che ne determini l’indirizzo politico. Per Falcone non c’era nessuna entità che si ponesse in posizione sovraordinata rispetto a Cosa Nostra. Purtroppo, su questo versante, dobbiamo constatare che il coraggioso magistrato ha perso la sua battaglia. Negli ultimi decenni si è diffusa sempre più l’espressione mafia militare, usata esplicitamente per distinguere un livello operativo e un livello strategico esterno alla struttura criminale, secondo una visione che non trova corrispondenza in nessun dato acquisito sulla mafia siciliana. Nel corso della sua riflessione, Veltroni diceva: «Lei l’ha visto Totò Riina? Si può immaginare che Riina sia il cervello della mafia? Il cervello della mafia è nella finanza»⁹. L’interrogativo dell’uomo politico era chiaramente retorico e faceva appello a un’idea largamente (e trasversalmente) condivisa dall’opinione pubblica, e cioè che Salvatore Riina, con la sua faccia da contadino e il suo italiano stentato, non potesse essere il leader di un’organizzazione criminale che era stata capace di tenere tanto a lungo sotto scacco lo Stato italiano.

    La risposta corretta da dare a Walter Veltroni sarebbe stata: «Sì, Salvatore Riina è il cervello di Cosa Nostra, perché è stato riconosciuto come tale da innumerevoli sentenze dei tribunali italiani e descritto come tale da innumerevoli collaboratori di giustizia. Se lei ha, se non le prove, almeno argomenti concreti che dimostrino il contrario, ce li dica. Ci dica i nomi. Perché parlare di un cervello della mafia nella finanza, astrattamente, non significa nulla». Veltroni, naturalmente, non avrebbe avuto difficoltà a trovare dei nomi, per esemplificare l’intreccio mafia-finanza. Anzi, probabilmente, mentre esprimeva la sua domanda, aveva in mente la vicenda di Roberto Calvi, il banchiere trovato impiccato, misteriosamente suicidato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra; oppure di Michele Sindona, il finanziere a lungo stimato sulle due sponde dell’oceano, mandante dell’assassinio, per mano mafiosa, dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della sua banca d’affari. Sono state solo alcune delle vicende più note che hanno fatto emergere le connessioni tra grandi banche e Cosa Nostra, ma è proprio in queste situazioni che non s’intravede una mente finanziaria capace di indirizzare l’organizzazione mafiosa a suo piacimento. Si scorgono relazioni, una rete intricata di complicità, ma non un cervello raffinato al di sopra di una massa brutale di assassini. D’altronde, il discorso del leader democratico non aveva la necessità di attingere a dati concreti, in quanto si fondava piuttosto su un presupposto immediatamente comprensibile a tutti.

    Lo definirei un sentimento dominante. Guardiamo Riina e, istintivamente, diciamo: la potentissima e oscura setta criminale legata alla politica, alla massoneria e all’alta finanza è qualcos’altro. Deve essere qualcos’altro. Esiste un modo di ragionare diffuso, che porta a identificare nella mafia sempre qualcosa di diverso, rispetto a quello che è veramente. Un modo di parlare di mafia senza parlarne. O parlando di qualcos’altro.

    In questo libro parlerò di mafia e, per farlo, elencherò una serie di nomi. Fare i nomi, antica esortazione poliziesca, ci riporta alla concretezza di un potere criminale che si trasmette attraverso le generazioni. Chi scrive ha vissuto in tempi e in luoghi in cui fare i nomi dei mafiosi era qualcosa che non poteva essere fatto in pubblico e che molti avevano timore a fare anche in privato, tra le mura di casa.

    I nomi indicano le famiglie dominanti in un determinato territorio, per un lungo arco di tempo.

    Uno dei problemi da affrontare nella comprensione delle dinamiche mafiose consiste nel mettere in luce le sottili interazioni che si innescano tra sistema parentale-familiare e famiglia intesa come cellula primaria dell’organizzazione in un quartiere o in un paese, che in più di un’occasione hanno innescato tensioni e conflitti nella lunga storia di Cosa Nostra. L’altro problema riguarda le dinamiche tra reti informali e struttura organizzativa. La celebre espressione zona grigia, che troviamo già nel famoso Rapporto dei 162, indica l’area di contiguità a Cosa Nostra, ed è di grande utilità, ma presenta anche dei rischi. Spesso, nei commenti di alcuni analisti, il grigio copre ciò senza cui la mafia non esisterebbe: i membri della consorteria. Questi, nella loro quotidiana vita criminale, agiscono sia come membri del soggetto collettivo di cui fanno parte, la famiglia, sia individualmente, come autonomi imprenditori del crimine. Gli uomini d’onore non sono semplici «specialisti della violenza»¹⁰ al servizio dei colletti bianchi, così come non esiste una «mafia politica»¹¹ che indica la direzione ai componenti della mafia militare impegnati a fare il lavoro sporco. Anche in questo campo, esistono rapporti complessi, che vanno sviscerati caso per caso, in quanto a volte possono impegnare i singoli uomini d’onore nei loro rapporti con determinati uomini politici, altre volte coinvolgono Cosa Nostra nella sua totalità. Infine, elencherò dei luoghi ben individuabili.

    Nel film I cento passi (Italia, 2000), girato da Marco Tullio Giordana e dedicato a Peppino Impastato, vi è una celebre scena, in cui il giornalista e militante ucciso dai mafiosi nel 1978 contava i cento passi che separavano la sua casa da quella del capomafia Gaetano Badalamenti. Questa scena descrive una delle cifre del mio lavoro. La mafia si trova a cento passi da noi, non in un limbo irraggiungibile per i comuni mortali.

    Ci lasceremo guidare dalla geografia, cioè dalle connessioni che legano una famiglia di mafia a un’altra, nello spazio.

    Lo spazio, nelle pagine che seguono, è superiore al tempo.

    Le famiglie, o meglio, le aree su cui ho scelto di soffermarmi, non sono esaustive dell’universo mafioso ma, a partire da ciascuna di esse, è possibile individuare delle linee di forza costanti nel lungo periodo.

    Sono, in parte, quelle stesse direttrici che Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel ruolo di Comandante della Legione dei Carabinieri di Palermo, aveva già individuato e aveva descritto in una preziosa mappa, consegnata alla Commissione Parlamentare Antimafia il 4 novembre 1970¹².

    Inoltre, anche se può apparire superfluo sottolinearlo, parleremo di fatti realmente accaduti e verificabili, tentando di usare gli strumenti della storiografia. Faremo anche delle ipotesi, che ci condurranno a intravedere complicità inedite, o semplicemente poco note, tra Cosa Nostra e il mondo dell’eversione in Italia, tra Cosa Nostra e i servizi segreti italiani e stranieri, tra Cosa Nostra e la Loggia Propaganda 2 del Venerabile Licio Gelli. Ma anche queste ipotesi saranno basate su dati reali.

    Le rappresentazioni

    La terza e ultima forma di sottovalutazione degli appartenenti a Cosa Nostra, avviene nel momento in cui prendiamo sotto gamba quello in cui essi dicono di credere e l’idea di sé che vorrebbero trasmetterci.

    Indossare i panni degli osservatori delle molteplici manifestazioni criminali, distinguendo tra le diverse interpretazioni e le immagini della consorteria che i mafiosi vorrebbero diffondere, non è scontato. Ciò è possibile se utilizziamo una moderata forma di empatia, che è altra cosa dalla simpatia: «siamo esseri umani; nessuno capisce sino in fondo perché ci comportiamo nel modo in cui lo facciamo. […] L’empatia consente di cogliere la complessit໹³.

    Provare a comprendere la rappresentazione di sé che l’altro vorrebbe comunicarci è la prima, essenziale forma di empatia.

    Nel luglio 2020 Santi Pullarà, killer ergastolano condannato per diversi omicidi e figlio di Giovan Battista Pullarà, capo di un importante mandamento mafioso morto nel 2001, è stato rimesso in libertà dal Tribunale di sorveglianza di Firenze¹⁴. I giudici hanno ritenuto che l’uomo d’onore fosse una persona diversa, rispetto all’epoca in cui aveva commesso i suoi delitti, pertanto doveva essergli concessa una seconda possibilità. Non abbiamo strumenti migliori dei magistrati fiorentini per giudicare, per cui ci auguriamo che il carcere abbia svolto effettivamente una funzione rieducativa. Pullarà, tra l’altro, da detenuto aveva conseguito la laurea in lettere e aveva seguito dei corsi seminariali di scrittura. Aveva anche pubblicato un romanzo, dal titolo enigmatico, La combinazione¹⁵.

    La storia si svolge nell’immaginaria Villalta, ed è chiaramente un romanzo di formazione criminale, ispirato all’ascesa dei corleonesi dentro Cosa Nostra. Il libro si presta a una piacevole lettura, per chi è interessato alla pubblicistica mafiosa, ma, al di là del suo valore letterario, è interessante per come riadatta la retorica cara agli uomini d’onore di ogni tempo: la funzione d’ordine del sodalizio, la punizione delle devianze (nel libro vengono descritte le fasi che precedono l’esecuzione di un pedofilo), la distinzione tra vecchia e nuova mafia e l’elogio degli antichi valori, incarnati da colui che riveste il ruolo di consigliere della famiglia, Pietrinu il Professore, che non commette omicidi ma si limita a votare nelle riunioni e a dispensare consigli di moderazione, per lo più inascoltati. Ma quella che viene rovesciata è la tradizionale narrazione, dominante da Buscetta in poi, che vede nei corleonesi coloro che hanno tradito gli ideali di Cosa Nostra. Nel lavoro di Pullarà i mafiosi di campagna ristabiliscono l’ordine violato dai mafiosi degenerati di città. Non si tratta di preferire un racconto a un altro. Quel che interessa è la rielaborazione dei miti fondanti dell’identità mafiosa. Per Cosa Nostra vale, in parte, quel che vale per le nazioni: quelle finzioni storiche che sono i miti, favoriscono «l’identificazione, la mobilitazione, la velocità di risposta in caso di crisi, permettendo una ristrutturazione mentale della collettivit໹⁶. Le rappresentazioni contano.

    1 https://www.famigliacristiana.it/articolo/giovanni-paparcuri-tre-vite-una-sola-memoria.aspx; Paparcuri, dopo aver continuato a lavorare accanto ai magistrati impegnati contro la mafia, ha creato il Museo Falcone e Borsellino, al primo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo.

    2 Corte di Assise di Palermo, Sentenza contro Riina Salvatore e altri, 15 luglio 1998, p. 138.

    3 S. Casabona, Pedagogia dell’odio e funzione educativa dei genitori, Giuffrè editore, Milano 2016, p. 59.

    4 Corte di Assise di Caltanissetta, Sentenza contro Riina Salvatore e altri, 14 aprile 2000, p. 409.

    5 G. Spatuzza, Io accuso. Tutti i verbali, Novantacento, Palermo 2010, p. 87.

    6 S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Einaudi, Torino 2008, p. 247.

    7 Ivi, p. 240.

    8 Corte di Assise di Palermo, Sentenza contro Riina Salvatore e altri, 15 luglio 1998, p. 377.

    9 http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a40b495c-9d12-4ffe-8e7a-c1d4a41ab2c9-ctcf.html

    10 S. Lodato - R. Scarpinato, Il ritorno del Principe. La criminalità dei potenti in Italia, Chiarelettere, Milano 2008, p. 42.

    11 G. Mottola - M. Torrealta, Processo allo Stato, BUR, Milano 2012, p. 290.

    12 V. Ceruso, Uomini contro la mafia. Da Giovanni Falcone a Paolo Borsellino, da Libero Grassi a Carlo Alberto Dalla Chiesa: storia degli uomini in lotta contro la criminalità organizzata, Newton Compton, Roma 2008, p. 43.

    13 G. Friedman, Geopolitica profonda, in «Limes», Il potere del mito, 2/2020, p. 248.

    14 https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/07/30/news/il_boss_studia_latino_e_cambiato_in_liberta_un_killer_di_mafia-263253485/

    15 S. Pullarà, La combinazione, Marcianum Press, Venezia 2016.

    16 P. E. Thomann, L’idea di sé è la principale risorsa della Francia, in «Limes», Il

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1