Edgar Morin. Cinema e immaginario
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Attraverso questa molteplicità di contributi è possibile analizzare il cinema da una prospettiva particolare: quella che mira a cogliere l’esperienza effettivamente vissuta dallo spettatore.
Con “Edgar Morin. Cinema e immaginario”, Marco Trasciani si propone di individuare e proporre al lettore i tratti essenziali della visone del cinema che caratterizza l’opera di Morin, così come è esposta nei tre scritti che sono dedicati al tema ( Il cinema o l’uomo immaginario, I divi, Lo spirito del tempo).
Il cinema per Morin è una “macchina per pensare” che coinvolge ed emoziona, capace di determinare una attività immaginativa che si confonde con il flusso delle immagini provenienti dallo schermo.
Attraverso le particolari modalità in cui la partecipazione cinematografica si realizza, cuore tematico di questo scritto, vengono alla luce gli elementi magici occultati all’interno delle società tecnologicamente avanzate, si rivela la natura semi-immaginaria dell’uomo. La sua propensione a farsi accompagnare nell’esistenza, ed anche nello stato di veglia, dalle sue fantasie.
Alla base dell’immaginario, che attraverso la visione cinematografica si viene costituendo, si collocano i processi di proiezione ed identificazione. Questi processi trovano una loro particolare forma di espressione nel fenomeno del divismo che, nella parte centrale del lavoro, è ampiamente analizzato, sia negli aspetti di nuova liturgia di massa, sia come desiderio di salvezza individuale, a fronte delle potenze alienanti e spersonalizzanti operanti nella società di massa.
Nella parte finale del saggio è infine affrontata la questione della cultura di massa, dalla particolare prospettiva dell’autore, una “terza via”, né apologetica, né apocalittica. L’humus dei nostri pensieri e delle nostre vite.
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Anteprima del libro
Edgar Morin. Cinema e immaginario - Marco Trasciani
Copyright© Officine Editoriali 2013
Tutti i diritti riservati
E’ vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook
ISBN 978-88-98041-05-3
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Ebook by: Officine Editoriali
Officine Editoriali rimane a disposizione degli aventi diritti sull’immagine di copertina.
INDICE
INTRODUZIONE
1. Scrivere sul Cinema
2. La specificità del cinema: fotogenia e immaginario
2.1 Una macchina per pensare
2.2 Immagine fotografica e fotogenia
2.3 Immagine e doppio
3. Una storia del cinema: cinematografo e cinema
3.1 Lumière e Méliès
3.2 Sviluppo delle tecniche cinematografiche e metamorfosi spazio-temporali
3.3 Antropomorfismo e Cosmomorfismo
4. La specificità del cinema: proiezione, identificazione, partecipazione affettiva
4.1 Proiezione e identificazione
4.2 La partecipazione affettiva e la partecipazione cinematografica
4.3 Tecniche del cinema e partecipazione affettiva
5 Il divismo
5.1 Le stelle lontane e vicine
5.2 Una breve storia del divismo
5.3 La star comica: Charlie Chaplin
5.4 Il mito oltre l’industria del mito: James Dean
6. Lo spirito del tempo
6.1 Società di massa e cultura di massa
6.2 La terza via di Morin
6.3 Genesi e caratteristiche della cultura di massa
6.4 Produzione e consumo nella cultura di massa
7. Conclusioni
Nota biografica
Bibliografia
Letteratura critica
INTRODUZIONE
Il sociologo e filosofo Edgar Morin, intellettuale noto oggi soprattutto per la sua proposta del «pensiero complesso» contro il riduzionismo e la specializzazione esasperata, nel 1956 scriveva Il cinema o l’uomo immaginario, un testo in cui il dispositivo cinematografico viene indagato attraverso il ricorso costante all’antropologia, alla sociologia e alla psicologia, con un approccio trasversale inconsueto per quegli anni. Tale originalità può forse spiegare la collocazione defilata che questo lavoro ha assunto se non in Francia almeno in Italia, dove nel periodo successivo alla sua pubblicazione avrebbero dominato gli studi di semiotica. Da qualche tempo, invece, l’interesse nei confronti di questo libro di Morin sul cinema comincia a rinascere, come testimonia – oltre, per esempio, al largo spazio che gli assegna Francesco Casetti nel suo testo sulle Teorie del cinema (1990) – anche il libro che state per leggere.
Il motivo principale di questo interesse risiede nel fatto che la visione di Morin sul cinema è ampia, interdisciplinare e in un certo senso radicale: in questa prospettiva, come Marco Trasciani in questo libro non manca di sottolineare, il cinema è prima di tutto una «macchina per pensare» analoga allo spirito umano. Se la conoscenza dell’uno si illumina grazie all’altro, è il primo a rappresentare una materia di studio favorita dal fatto che –ultimo nato tra le arti– abbiamo potuto assistere alla sua nascita e al suo sviluppo. Interloquendo in particolare con la posizione teorica di André Bazin, Morin si colloca sul suo stesso terreno –ovvero rispondere alla domanda «ontologica»: cosa è il cinema?– per uscirne però seguendo una linea opposta: lungi dall’essere specchio del reale, il cinema ci proietta nel sogno, creando una realtà parallela e lontana dal quotidiano.
La chiave di volta per la costruzione di questo mondo differente dal reale è dunque la partecipazione dello spettatore, tema che in questo libro è collocato non a caso in una posizione centrale, in senso teorico e in senso letterale: viene trattato infatti dopo due capitoli che analizzano le questioni della fotogenia e del doppio e la particolare visione della storia del cinema di Morin e prima dei due capitoli finali, dedicati al divismo e alla società di massa. Si tratta di uno spettatore che si lascia coinvolgere dalla visione cinematografica e dalle emozioni da essa suscitate al punto da viverla come possibilità di esperienza di un universo alternativo alla realtà.
Per capire quanto sia forte in Morin questo aspetto produttivo e insieme derealizzante della coscienza dello spettatore, non bisogna allora mai dimenticare che l’aggettivo usato nel titolo, immaginario, deve essere assunto nel suo stretto significato filosofico, che è quello proposto da Jean-Paul Sartre in L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, uscito nel 1940, su cui mi interessa spendere qui qualche parola. La tesi di questo testo di Sartre cui Morin fa esplicito riferimento – un testo che riunisce nella medesima famiglia dell’immaginario i sogni, i ritratti, le immagini mentali e quelle ipnagogiche, senza tuttavia mai nominare il cinema – è l’idea che tra coscienza immaginativa e percezione vi sia una radicale differenza. I tratti percettivi esperiti dal soggetto possono cioè trasformarsi in immagine vera e propria soltanto a condizione che la coscienza di tale soggetto sia in grado di allontanarsi dalla realtà, di annullare momentaneamente il mondo. L’immagine sarebbe dunque un semplice atto di pensiero, un particolare rapporto tra la coscienza e il suo oggetto; o meglio, un certo modo in cui l’oggetto appare a una coscienza che, nella sua libertà di immaginare, è in grado di porre quella che il filosofo chiama una tesi di irrealtà.
Tuttavia, a dispetto di quello che spesso si dice del movimento nullificante avviato dalla coscienza secondo Sartre, spesso descritto come un distacco che annulla totalmente il reale, e rischiando di confondere un po’ le acque di una tesi che posta nella sua radicalità appare molto limpida, occorre dire che questa negazione, facendo arretrare i tratti percettivi del mondo reale per produrre l’immagine, costituisce il reale stesso come sfondo irrinunciabile nel momento stesso in cui lo nega (come sottolinea, in alcune pagine dedicate a Sartre, Silvia Vizzardelli nel suo Verso una nuova estetica, del 2010). Con parole ancora più nette: l’immaginario non perde mai del tutto la realtà che è quel differenziale rispetto a cui soltanto si caratterizza. La dimensione immaginaria, prodotta dalla coscienza umana attraverso un atto di libertà che trasforma il reale in una sorta di fondale sbiadito e affievolito, si può definire allora come un analogon della realtà, sia esso un quadro, un sogno, o un’immagine mentale. O anche, aggiungiamo noi insieme a Morin, un film.
In che modo, allora, questa tesi si può applicare al cinema? Gli aspetti più lampanti della teoria dell’immaginario di Sartre sono l’affermazione della capacità liberatrice della coscienza, tratto tipico della sua ripresa della fenomenologia di Husserl, e la posizione di irrealtà del mondo immaginario (che tuttavia, come abbiamo appena detto, non vuole significare negazione assoluta né naturalmente definitiva del reale). Ebbene, Morin li accoglie entrambi. In primo luogo, il suo presupposto teorico è proprio la nozione di immaginario inteso come punto di contatto tra l’immaginazione e l’immagine, come relazione derealizzante tra un soggetto e un oggetto. Nel cinema, però, c’è un raddoppiamento di questa derealizzazione: l’attitudine dello spettatore che attua una proiezione identificativa incontra sullo schermo un’immagine della realtà esterna che è già costituita come un doppio, in quanto copia fotografica. Inoltre, se il coinvolgimento dello spettatore è il medesimo che emerge a tratti nella vita quotidiana, cioè l’atteggiamento umano naturale che si caratterizza come una «partecipazione affettiva», nell’esperienza cinematografica anche questa attitudine subisce un potenziamento ed erompe con un’intensità maggiore, in quanto disgiunta dalle scelte pratiche e animata da una coscienza prettamente estetica. La partecipazione dello spettatore, atto libero che crea il mondo immaginario a partire da ciò che percepisce sullo schermo, viene stimolata per di più da una serie di tecniche atte a coinvolgerlo, a suscitare emozioni. Tra sistema cinematografico e flusso psichico dello spettatore si realizza una vera e propria «simbiosi», per cui i due poli risultano complementari, integrandosi reciprocamente. Oggettività del dato apparente e soggettività di colui che guarda il film si fondono, dando vita a quello che l’autore definisce un «complesso di sogno e realtà», unità circolare, dialettica di reale e irreale. Restituire la complessità della concezione di Sartre, senza cedere a una interpretazione semplificata che dall’immagine come nulla di oggetto conduca alla negazione assoluta della realtà intera, ci consente di accettare la tesi di Morin ancora più agevolmente, figurandosi il cinema come un altro mondo rispetto al quotidiano, che ci sollecita a dimenticare la vita reale, conservandola però come sfondo della nostra esperienza di spettatori.
Daniela Angelucci
1. Scrivere sul Cinema
Nell’introduzione alla edizione del Cinema o l’uomo immaginario{1} del 1978, Edgar Morin spiega le ragioni che circa venti anni prima (1956) lo hanno spinto a scrivere un’opera sul cinema.
Una tale decisione sarebbe ricollegabile ad una duplice contingenza. Da un lato la mancanza di coraggio nell’affrontare un soggetto virulento da un punto di vista sociologico e direttamente politicizzabile
; non il comunismo
nella sua degenerazione staliniana, con il suo corollario di menzogna e di pensiero mutilato, ma il cinema, un soggetto rifugio
, apparentemente lontano dalle questioni che lo ossessionavano
all’epoca.
Di questo dottrinarismo arrogante
, che Morin si rammarica di non aver apertamente affrontato, è esemplare il racconto di un episodio accaduto verso la fine degli anni Sessanta e riportato nella autobiografia intellettuale I miei Demoni{2}: ad una riunione di intellettuali francesi, quando l’autore aveva manifestato il proprio amore per il western, Lucien Goldmann{3} era letteralmente saltato sul palco per spiegare che il western era la peggiore mistificazione capitalistica destinata ad anestetizzare la coscienza rivoluzionaria della classe operaia, suscitando applausi a scena aperta.
Dall’altro il desiderio di cimentarsi su un soggetto gradito al suo protettore, Georges Friedmann{4}, alla cui decisiva influenza Morin doveva la sua ammissione al CNRS.
"E Friedmann{5} vedeva e pensava macchine".
Se si seguono questi due spunti di riflessione offerti dall’autore, per quanto il tema possa tradire intenti di tipo