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Politica delle immagini. Su Jacques Ranciere
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E-book499 pagine4 ore

Politica delle immagini. Su Jacques Ranciere

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Info su questo ebook

La politica e l’arte, come i saperi, costruiscono delle ‘finzioni’, cioè dei riconcatenamenti materiali dei segni e delle immagini, dei rapporti fra ciò che si dice, fra ciò che si vede e ciò che si può fare. Gli enunciati politici o letterari hanno effetto sul reale. Definiscono dei modelli di parola o d’azione ma anche dei regimi di intensità sensibile. Tracciano delle carte del visibile, delle traiettorie tra il visiibile e il dicibile, dei rapporti tra modi d’essere, di fare e di dire. Definiscono delle variazioni di intensità sensibili, delle percezioni e delle capacità dei corpi. (JACQUES RANCIÈRE).
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2012
ISBN9788881018413
Politica delle immagini. Su Jacques Ranciere

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    Anteprima del libro

    Politica delle immagini. Su Jacques Ranciere - Roberto De Gaetano

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    POLITICA DELLE IMMAGINI

    Su Jacques Rancière

    a cura di

    Roberto De Gaetano

    Si ringraziano Alessandro Canadè, Loredana Ciliberto,

    Andrea Inzerillo e Antonietta Petrelli

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di marzo 2011

    per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Introduzione

    Rancière è un filosofo anomalo, ma con un percorso esemplare. È questo il contrassegno dei grandi filosofi, la cui singolarità e originalità è tale perché intercetta sempre un universale che li travalica. Partito a metà degli anni Settanta con uno scandaglio degli archivi operai nella Francia di metà Ottocento, per ritrovare le forme della presa di parola di chi non aveva nome, ha attraversato la pedagogia eterodossa di Jacotot e, passando per la stesura di due testi capitali del pensiero politico contemporaneo come Il disaccordo e L’odio per la democrazia, è giunto a una riflessione sulle forme estetiche e sull’immagine (quella cinematografica in particolare).

    Dalla politica all’immagine e ritorno. Ma non si tratta né di un percorso per cui a una tappa ne segue un’altra, né di una coesistenza per cui tutto si tiene insieme, ricerca d’archivio, pensiero politico, riflessione estetica, discorsi sull’immagine. Si tratta di qualcosa di più specifico e più indeterminato allo stesso tempo, cioè dell’idea di una «potenza comune del pensiero» che non si esercita né come riflessione (trascendentale), né come interpretazione (di segni), né come captazione (di forze), ma come pratica di configurazione del sensibile, che significa in primo luogo pratica di strutturazione dello spazio-tempo, dei rapporti tra le parole e le cose, il visibile e il dicibile, gli enunciati e i corpi.

    Il carattere operativo del pensiero si può iscrivere direttamente in un atto politico, nella scrittura letteraria, nella configurazione di una immagine, e ciò che distinguerà questi modi di «partizione del sensibile» sarà il loro rispondere o a una logica di potere (poliziesca) o a una logica politica, cioè o a un dispositivo consensuale verso lo status quo e le sue partizioni gerarchicamente consolidate, o a una dinamica discordante, per cui l’uguaglianza, come l’infondato alla base di ogni ordine sociale e come principio vuoto di ogni democrazia, nella sua affermazione destituisce ogni forma di gerarchizzazione di soggetti, atti, parole, temi. È questa «uguaglianza delle intelligenze» il dato di partenza che deve orientare ogni atto politico, che per essere tale deve essere sempre emancipativo, e quindi sottrarre a ogni posizione minoritaria e assoggettata.

    Letteratura prima, e cinema poi, essendo la prima una invenzione del secondo Ottocento coincidente con lo sviluppo del grande romanzo, e il secondo la forma espressiva dominante del Novecento, hanno al loro interno un grande potenziale politico ed emancipativo che non coincide con i contenuti, ma con la forma e i dispositivi discorsivi: la scrittura romanzesca per la prima volta ha dato parola a chi non l’aveva, non solo ai soggetti anonimi (che hanno sostituito i nomi propri della tradizione classica), ma anche all’inanimato e all’infinitamente piccolo: i granelli di polvere e la molecolarità della materia occupano la scena flaubertiana, soppiantando azioni e dialoghi. Così come il cinema è nato e si è sviluppato, in un sentiero già tracciato dalla fotografia, dando visibilità all’inanimato e all’insignificante, giungendo perfino all’intensivo e al molecolare, evocato da Epstein: «Diciamo: rosso, soprano, zuccherato, Cipro, quando non ci sono che velocità, movimenti, vibrazioni».

    Certo, le arti, e il cinema in particolare, corrono il rischio di smarrire la loro potenza innovativa, che permette loro di cogliere il tessuto intensivo che compone il reale, prima e oltre i principi della sua identificazione, piegandosi al «regime mimetico» e alle sue istanze confermative della situazione.

    Insomma, se la «partizione del sensibile» è la procedura in cui una pratica e un pensiero si realizzano, questa partizione è dunque anche il luogo in cui la filosofia, l’arte e le immagini trovano il loro fondo comune e dunque anche la loro distinzione, attraversando il confine, inidentificabile una volta per tutte, fra potere (polizia) e politica, fra consenso alla situazione e sua messa in questione. Ma questa messa in questione non coincide con la sostituzione di alcuni valori ad altri, differenti, magari opposti, ma nel far emergere nella configurazione del sensibile il contingente, l’aleatorio, il vuoto che lo fondano e lo abitano (il fondamento anarchico di ogni pratica, politica o estetica), che sottraggono la soggettività politica al pieno dell’identità, e la forma estetica al suo statuto mimetico; inscrivendo, dunque, e nella prima e nella seconda uno scarto da sé, una non coincidenza con sé come unico contrassegno del loro proprio.

    Ma politica ed estetica, anche se intrecciate, non sono la stessa cosa. L’opera d’arte non comporta nessun processo soggettivante, ma in un certo senso ne costituisce la precondizione, perché senza la possibilità di immaginare altrimenti l’ordine sensibile, spazio-temporale, delle cose, finanche la loro trama molecolare, non è possibile alcuna nuova soggettivazione, nessun nuovo enunciato collettivo.

    Ognuna delle tre parti in cui è articolato il presente volume individua solo la porta d’accesso al discorso rancièriano, apra essa sull’estetica (parte I), la politica (parte II) o l’immagine e il cinema (parte III). Ma gli accessi poi rimandano a uno stesso campo, quello definito dall’unità-differenza (da uno scarto tra pratiche configuranti) fra l’atto politico, il racconto che una comunità fa di se stessa e le immagini con cui si mostra.

    Questo volume nasce da una settimana di seminario e convegno che Rancière e gli studiosi qui presenti hanno tenuto all’Università della Calabria nel marzo del 2010: La semaine Rancière. La grande disponibilità e l’intensa partecipazione di Rancière all’iniziativa hanno fatto dell’incontro un’occasione memorabile per tutti i partecipanti, studiosi di cinema, di estetica e filosofia politica, specialisti e non di Rancière, che su e con il filosofo francese hanno aperto uno spazio intenso di discussione e di incontro.

    Due contributi qui inclusi fuoriescono dagli atti: un saggio di Jean-Louis Leutrat sulla cinefilia di Rancière, e un importante testo di Alain Badiou, filosofo tra i più significativi della contemporaneità.

    Il volume è aperto da un saggio di Jacques Rancière sulle politiche del cinema, dove emerge con chiarezza che la politicità del cinema non è pensabile in termini contenutistici, ma come inscrizione di una tensione dialettica tra la parola e l’immagine, il linguaggio e i corpi, il visivo e il sonoro, il dentro e il fuori; tensione che non viene mai risolta, e che dunque apre a nuove riorganizzazioni del sensibile, inedite e discordanti, e dunque politiche (e questo riguarda il cinema degli Straub, di Godard, ma anche di Béla Tarr, di Pedro Costa).

    Molto cinema che vediamo è un cinema consensuale, e quindi al fondo poliziesco, non per i contenuti, ma per una forma che non prevede scarti, suturata su se stessa, attraverso un accumulo di cliché che alimentano un’adesione (sia essa comica o drammatica) a un mondo senza possibilità di modifica alcuna. Puri dispositivi attrattivo-emotivi che restituiscono lo spettatore al luogo della sua impotenza, alle forme di una rassicurazione abbrutente. Nessuna inquietudine, nessun tremolio, nessuno scarto che rimandi a una sottrazione e dunque a un’apertura, che ci faccia sentire la contingenza radicale a cui siamo esposti e su cui si fonda ogni vera espressione politica ed estetica, occultata da dispositivi de-soggettivanti, ma anche, e questo è il contrassegno inquietante del contemporaneo, de-identificanti: né soggetti politici né identità sociali, né emancipazione né assoggettamento (per assenza di disciplina e di istituzione), né luoghi per la politica né spazi (identificati) per il potere (e se è vero che i due si tengono assieme, l’assenza dell’uno è anche la scomparsa dell’altra). Il contrassegno più forte di tutto questo sta nell’annullamento dell’idea di formazione: né maestro sapiente né maestro ignorante, nessuna possibilità di professare alcunché, perché professando ne va in gioco della soggettività del docente e del discente. Resta solo, per riprendere Nietzsche, un’idea di formazione come pratica di sartoria, del cucire l’abito sulle esigenze del cliente. Ma quali esigenze? E quali abiti per fare cosa?

    Nessun intervallo è previsto nel funzionamento dei dispositivi, e al fondo ciò che emerge non è tanto l’anarchia della politica, il suo carattere infondato, quanto quella del potere, di cui parlava Pasolini, testimoniata dall’attuale cronaca politica italiana.

    Nessun carattere destinante in tutto questo, nessun racconto di un inesorabile tramonto, solo il determinarsi di una situazione che può e deve essere pensata altrimenti. Aprire una possibilità di vita, pensare altrimenti il mondo, questo mondo e la sua configurazione sensibile, raccordarlo pezzo su pezzo, non più secondo «inglobanti», ma secondo «linee di universo» (Deleuze), linee spezzate capaci di connettere lo spazio frammento su frammento, questo è uno dei compiti che ci spettano, che spettano all’artista, al filosofo, al formatore, al politico. E Rancière e la sua opera costituiscono un’occasione importante per provare a tracciare queste linee.

    Roberto De Gaetano

    Roma-Arcavacata di Rende, febbraio 2011

    Jacques Rancière

    POLITICHE DEL CINEMA

    Che ne è della politica del cinema? Questa domanda mi è stata posta in occasione di una settimana dedicata al tema: dove va il cinema?[1] Ma per sapere verso quale punto si dirige un mobile, bisogna chiedersi in che spazio esso si muova. Questo spazio è costituito da quei film che lo rendono pensabile, proponendone un certo numero di configurazioni singolari possibili, mettendo in opera in maniere diverse il rapporto tra i due significati del termine politica tramite cui si può definire una finzione in generale o una finzione cinematografica in particolare: la politica come ciò di cui parla un film – la storia di un movimento o di un conflitto, l’esibizione di una situazione di sofferenza o d’ingiustizia –, e la politica come strategia propria di un percorso artistico: un modo di accelerare o rallentare il tempo, di restringere o dilatare lo spazio, di accordare o far confliggere lo sguardo e l’azione, di articolare o disarticolare il prima e il dopo, il dentro e il fuori. Potremmo dire: il rapporto tra una questione di giustizia e una pratica di giustezza.

    All’interno di questo quadro ho deciso di scegliere un film che possa servire da punto di riferimento per un’investigazione sui modi possibili di pensare oggi il rapporto tra le certezze dell’ingiustizia, le incertezze della giustizia e i calcoli della giustezza. Ho scelto Dalla nube alla resistenza (1979) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet non perché si tratti di un film politico esemplare, ma perché è un buon punto di partenza per tre grandi ragioni. Innanzitutto perché mette in opera un’idea e una pratica del rapporto tra cinema e politica che si inscrivono esse stesse in un paradigma più ampio del rapporto tra arte e politica. Chiamiamolo, per brevità, paradigma brechtiano: quello di un’arte che è politica per la decisione di voltare le spalle alle continuità e alle progressioni del modello narrativo-empatico tramite l’adozione di una forma spezzata, capace di mostrare le tensioni e le contraddizioni che ineriscono alla presentazione delle situazioni e alla maniera di formularne caratteristiche, poste in gioco e soluzioni. Questo paradigma ha influenzato diverse forme del rapporto tra cinema e politica, per esempio gli esercizi dialettici di Godard. Ma i film degli Straub ne rappresentano la forma più sistematica, la più adatta dunque a fissare l’immagine cinematografica del paradigma brechtiano, e a definire una prospettiva a partire dalla quale affrontare i film di oggi. La mia scommessa è che all’interno di questa singolarità si possano riflettere problemi che riguardano il rapporto tra cinema e politica comuni anche ad altre forme che sono estranee a questo paradigma.

    In secondo luogo, questo film rappresenta una svolta all’interno di questo paradigma.

    Classicamente, la forma frammentaria e il confronto dialettico dei contrari miravano ad affinare uno sguardo e un giudizio che dovevano elevare il livello di certezza al fine di sostenere l’adesione a una spiegazione del mondo, quella marxista. In questo film, grazie ai testi scelti e per il modo in cui la parola viene messa in scena, essi diventano il supporto di una tensione senza risoluzione che caratterizzerà di qui in avanti tutti i film degli Straub. Propongo di chiamare post-brechtiana questa forma, e focalizzerò la mia attenzione sul rapporto tra questa forma post-brechtiana e i modi di fare politica propri dei cineasti politici contemporanei.

    In terzo luogo, questa svolta nel cammino dei due cineasti corrisponde a un preciso mutamento storico. Il film esce nel 1979, alla fine del decennio di sinistra, che era stato liquidato in Germania, Italia e Giappone attraverso la radicalizzazione dello scontro militare tra l’estrema sinistra e lo stato; in Portogallo con la fine dell’era delle turbolenze aperte dalla Rivoluzione dei garofani; negli Stati Uniti e in Inghilterra col trionfo dei programmi di liquidazione delle conquiste sociali; in Francia col duplice aumento di potenza di una sinistra socialista avida di recuperare a suo profitto l’energia del decennio di sinistra, e di un’opinione intellettuale intenta a rinnegare quello stesso decennio e con esso tutta la tradizione rivoluzionaria. È anche la fine di una certa era del rapporto tra cinema e politica, segnata innanzitutto da forme militanti come quelle del gruppo Medvedkin o del gruppo Dziga Vertov, e infine da alcuni affreschi storico-politici di cui Novecento (B. Bertolucci, 1976) offre l’esempio più spettacolare. La formula post-brechtiana proposta in Dalla nube alla resistenza mi pare emblematica di un andamento politico-cinematografico rivolto ormai più verso l’esame delle aporie dell’emancipazione che verso la rivelazione dei meccanismi del dominio.

    Per queste tre ragioni il film degli Straub mi è sembrato un buon punto di riferimento per fissare le trasformazioni del rapporto tra cinema e politica e determinare una prospettiva che permetta di riflettere sulle continuità e le rotture che caratterizzano lo stato attuale di questo rapporto. Comincio subito a entrare più in dettaglio nella determinazione del paradigma che il film mette in campo. Vorrei precisare che questa determinazione è il lavoro di uno spettatore: non si tratterà di esplicitare i principi che hanno guidato il lavoro di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Proverò a ricostruire la logica che mi ha permesso di vedere ciò che ho visto sullo schermo, e a inscrivere quanto ho visto in una storia dei rapporti tra le forme sensibili che il cinema ci presenta e le promesse che esso consente loro di portare. Partirò dunque da un episodio particolare del film, il sesto episodio, dal titolo I fuochi. Si tratta di un episodio privilegiato perché fa da cerniera tra le due parti del film: l’ultimo dei sei Dialoghi con Leucò di Pavese che gli autori hanno scelto di cucire a una seconda parte ispirata all’ultimo romanzo di Pavese, La luna e i falò. All’interno di un rituale destinato a propiziare la pioggia, un pastore e suo figlio discutono dell’uso antico di offrire sacrifici umani, uso che il padre tenta di giustificare ma che suscita l’indignazione del figlio. I due condividono lo spazio con due personaggi non umani: i fuochi che stanno attizzando e la luna che rischiara la scena.

    Questa sequenza richiede due considerazioni iniziali. La prima ha a che fare col cinema, la seconda con la politica del film. Innanzitutto bisogna notare che la conversazione notturna attorno a un fuoco è un topos cinematografico. Basti pensare ai western, in cui questa scena offre all’azione momentaneamente sospesa una duplice profondità: quella dello spessore biografico dei personaggi, portati a parlare del luogo da cui provengono e di quello verso cui vorrebbero andare; e quella della valutazione della giustizia dell’azione intrapresa per affermare un diritto, esercitare una vendetta o riscuotere una taglia. La conversazione tra padre e figlio sposa i contorni di questa forma topica. La differenza risiede nel fatto che le questioni poste dal notturno western sono sempre risolte dalla ripresa dell’azione. Così, nello Sperone nudo (1953) di Anthony Mann o nella Magnifica preda (1954) di Otto Preminger si dibatte per sapere se uomini dal passato discutibile abbiano il diritto di perseguire dei criminali per interesse o vendetta personale. Ma la questione viene risolta dal criminale stesso che, sfoderando la sua arma per primo, prova questo diritto. Non succede lo stesso nel nostro film. Nessuna azione risolverà l’oggetto della discussione. L’azione del film è costituita interamente da questi dialoghi in cui i personaggi sono posti immediatamente come coloro che discutono del giusto e dell’ingiusto. E il film si chiuderà con l’invocazione di una condanna a morte – quella della giovane Santa nella Luna e i falò – sulla cui giustizia rimarrà sempre un velo d’incertezza. Questo mi porta alla seconda considerazione, che ha a che fare col rapporto tra soggetto e forma. La forma-conversazione è qui generalizzata perché l’oggetto della discussione eccede il quadro di ciò che un intreccio western può risolvere. La questione sulla giustizia porta in effetti su un’ingiustizia che neanche il più abietto dei criminali da western sosterrebbe mai, e che è invece giustificata dall’onesto padre di famiglia: l’uso di sacrificare nel fuoco vittime innocenti per assicurare il buon andamento del raccolto. Non ci troviamo più nell’universo morale del western, bensì in quello della tragedia antica in cui la giustizia si definisce in rapporto a degli dèi che non hanno bisogno di essere giusti.

    Tornerò sul modo in cui è trattata qui l’aporia della giustizia ingiusta. Cominciamo con l’esaminare le implicazioni della scelta della forma dialogica. A un primo sguardo, questa scelta inscrive la politica del film in un quadro che appartiene meno alla specificità cinematografica che a un’idea dell’arte politica come arte dialettica. Siamo apparentemente lontani da ciò che un tempo era considerato l’essenza stessa del cinema e della sua politica, ossia il montaggio come linguaggio delle immagini, pensato come ciò che lega (Vertov) o come ciò che oppone (Ejzenštejn). La politica del film si rivolge verso l’altra grande forma di politica del frammentario, la dialettica teatrale. Sin dall’antichità questa forma è connessa alla questione della giustizia. Da Eschilo fino a Brecht e a Sartre il dialogo teatrale si è spesso identificato con la discussione del rapporto tra due ingiustizie, e lo ha fatto tramite due grandi forme che fanno funzionare in maniera opposta la morale dialettica che sostiene il dialogo.

    La prima è la forma tragica. Essa rende nettamente indeciso il rapporto tra le due ingiustizie: quella di Agamennone e quella di Clitennestra, quella di Creonte e quella di Antigone, quella del troiano Paride e quella dei greci che hanno assassinato Polissene. Il mondo moderno crede volentieri, sulla scia di Hegel, di esser stato sollevato da questa indecisione con l’assoluzione di Oreste da parte del tribunale delle Eumenidi. Il regno del diritto sopprimerebbe l’indecisione tragica. Ma il nucleo della questione risiede altrove, e ha a che fare con la natura dell’ingiustizia e con i soggetti che essa concerne. La tragedia greca che metteva in scena la dialettica tra ingiustizie equivalenti ne limitava tutto sommato la portata: se la decisione era sempre ingiusta, dipendeva dal fatto che gli uomini si attribuivano per orgoglio un sapere sulla volontà degli dèi che in realtà non potevano possedere. Ma questa ingiustizia riguardava solamente i grandi personaggi che erano obbligati dalla loro posizione a decidere, non senza tendere all’irragionevolezza. Una seconda figura si impone quando l’ingiustizia diventa un torto fatto non più agli dèi ma agli umani, e quando il conflitto sulla giustizia verte sulla partizione stessa tra il piccolo numero di quelli che decidono della vita degli altri e la moltitudine di quelli che subiscono questo potere. Decidere diventa allora il compito degli oppressi e la dialettica è l’arma di cui si devono impadronire. A questo punto la dialettica si raddoppia, diventando da una parte la tensione tra argomenti opposti e dall’altra la scienza dei mezzi e dei fini che gerarchizza le ingiustizie in nome dell’interesse dei più. Il teatro decide allora tra le ingiustizie: così per Brecht, nella Linea di condotta, bisogna lasciar morire il giovane compagno per salvare la città, e per Sartre, nel Diavolo e il buon Dio, bisogna permettere alle ingiustizie e alle menzogne di fondare l’autorità necessaria per portare avanti la lotta degli oppressi. Ma se esso decide così nettamente, non lo fa per dare un modello di condotta, ma piuttosto per risvegliare la capacità dei combattenti di giudicare situazioni e argomenti. Questa tensione tra una decisione dirimente e l’abilità a tenere in equilibrio gli argomenti opposti sta al cuore della politica del dialogo brechtiano.

    L’importanza del dialogo immaginato da Pavese risiede nel fatto che il rapporto tra le due ingiustizie (quella dei sacrifici umani, denunciata dal figlio, e quella dello sfruttamento di classe, argomentata dal padre) è anche un rapporto tra le due dialettiche: la dialettica etica della tragedia dei Grandi e la dialettica politica della lotta degli umili. Tornerò sulle conseguenze di questo spostamento. Esaminerò per primo il rapporto che si stabilisce qui tra le aporie della giustizia, la forma dialogica e la visualità cinematografica. In teatro, qualunque sia la parte che si vuole affidare al gesto e allo spazio, è la parola innanzitutto a essere concreta. La conversazione tra pastori attorno a un fuoco può prescindere dal fuoco, dall’erba e dal vento. L’assenza di questi elementi non può che accrescere la forza sensibile della giustizia e dell’ingiustizia. Al cinema, al contrario, quale che sia lo sforzo per intellettualizzarla, la concretezza si lega col visibile dei corpi che parlano e delle cose di cui parlano. Da cui due effetti contraddittori: il primo è quello di intensificare il visibile della parola, dei corpi che la esprimono e delle cose di cui parlano; l’altro è di intensificare il visibile come ciò che nega la parola o mostra l’assenza di ciò di cui parla. Il fuoco, l’erba e il vento accrescono la presenza sensibile dei corpi che parlano e l’evidenza delle cose concrete di cui parlano. Ma lo fanno al prezzo di manifestare la loro impotenza a esibire la posta in gioco del dialogo: i corpi suppliziati, certo, ma anche la giustizia stessa.

    Da un lato, dunque, il film presenta dei corpi, dei gesti, degli atteggiamenti in un confronto verbale: la robustezza del padre, la postura stabile del suo corpo, la sicurezza della sua voce che dà alla parola canicola la presenza sensibile della cosa non immaginabile, il gesto retorico delle mani che dispiegano la dialettica in cui bisogna rinchiudere l’ingiustizia dei sacrifici; la magrezza del figlio, la voce non ancora mutata, il suo volto quasi imberbe, il profilo acuto contrapposto alla dimostrazione dialettica, il primo piano finale sul gesto di una mano che si apre e presenta il palmo in segno di rifiuto. Dall’altro lato, il film confronta gli argomenti con ciò di cui parlano ma anche con la causa stessa della discussione: li rapporta a ciò che di essa è visibile (l’erba grassa e la tazza di latte, metonimia delle greggi assenti, la luna che determina il successo o l’insuccesso della semina, il fuoco del sacrificio acceso per invocare la pioggia, il vento che attizza l’uno e forse annuncia l’altra) e li confronta all’invisibilità della giustizia e dell’ingiustizia.

    Questo gioco cinematografico tra presenza e assenza sembra raddoppiare innanzitutto le aporie del dibattito dialettico. La calma dell’ambientazione bucolica si presta qui in effetti al dispiegamento di una dialettica che sembra avvolgersi su se stessa nel suo uso di una retorica tradizionale, quei luoghi comuni cui attingono le risorse dell’argomentazione: esempi probanti, testimonianze che fanno fede, forme discorsive efficaci, deduzioni ammesse. In bocca al padre, i ragionevoli argomenti sulla necessità di adattarsi alle differenti situazioni e sulla scelta del male minore sembrano mandati all’aria, così come la forza probante degli esempi. La storia del re Atamante, raccontata dal padre, offre due conclusioni: ha piovuto perché si stava per sacrificare Atamante, oppure ha piovuto perché non lo si è sacrificato. Ciò che rimane è la semplicissima questione posta dal figlio: come possono degli uomini giusti bruciare uomini innocenti? A causa di un fatto che non ammette repliche, risponde il padre: la canicola. Ma questa risposta ne contiene due, che non si accordano: la prima dice che la canicola trasforma gli uomini in bestie feroci che ignorano qualunque giustizia; l’altra, che è giusto sacrificare in nome del bene della maggioranza quegli individui che sono meno utili alla comunità, zoppi o vagabondi. Ciò che conta non è il dolore delle vittime o la sua forza emozionale, bensì sapere chi è che grida. È il classico argomento del fine che giustifica i mezzi. Ma l’argomento è a doppio fondo. Perché per giustificare l’omicidio di innocenti con la necessità di portare la pioggia, bisogna considerare come un fatto inequivocabile che il primo è causa della seconda. Bisogna ammettere che la superstizione è buona se procura il bene del popolo. È l’argomento di Nuto, il saggio, il comunista della Luna e i falò, nei confronti delle superstizioni sugli effetti della luna che denota il senso pratico dell’Americano: le credenze popolari sono buone o cattive a seconda che servano la causa del popolo o dei suoi sfruttatori. Ora, la canicola di oggi sono i padroni, dice il padre. E se un tempo era sufficiente bruciare un vagabondo per far piovere, quante case di padroni bisognerà bruciare e quanti bisognerà ucciderne perché il mondo diventi giusto? Da questo calcolo tuttavia non si arriva ad alcuna conclusione, se non che dèi e padroni sono d’accordo nel conservare i privilegi della loro pigrizia, e che gli oppressi devono attenersi, nella scelta delle vittime, al principio di massima utilità. La dialettica marxista non produce nient’altro che la saggezza di una rassegnazione a commettere l’ingiustizia perché è così che va il mondo. Ciò che il figlio oppone a questa logica, da parte sua, è la rivolta che conduce a un altro tipo di rassegnazione: è giusto che gli oppressi siano oppressi perché essi accettano l’ingiustizia.

    È quanto afferma il figlio. Ma è qui che l’indecisione della dialettica fornisce ai cineasti l’occasione di intervenire per forzare contemporaneamente il silenzio del luogo materiale e l’aporia dei luoghi comuni. Due sono le iniziative dei registi: la prima riguarda il solo testo, essi lasciano l’ultima parola all’interruzione del figlio, mentre il dialogo di Pavese restituisce la parola al padre che schernisce la sua ignoranza e lo invita a riprendere l’aspersione. La seconda è quella di accompagnare le parole del figlio con un gesto ripreso in primo piano: una mano che scende lungo la tunica, gesto dai molteplici significati possibili che sta allo spettatore dover identificare: designazione della terra, dichiarazione di un rifiuto, mano aperta a un altro avvenire… L’irresolutezza del gesto è nello stesso tempo un potere di risoluzione, che rompe l’armatura dello scambio dialettico. La tensione tra testo e immagine è allora a doppio senso. Non è un caso se alla fine degli anni ’70 Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sostituiscono al drammaturgo comunista Brecht, maestro delle certezze dialettiche, lo scrittore comunista Pavese, che constata il ritorno dell’ordine antico sulle colline che erano state il rifugio dei partigiani, e si interroga sulla possibilità stessa che il mondo delle colline, della terra e dei raccolti sia compatibile con le promesse del rivolgimento rivoluzionario. «Anche i greci praticarono i sacrifici umani. Ogni civiltà contadina ha fatto questo. E tutte le civiltà sono state contadine», scrive Pavese in esergo al dialogo. Integrare questa affermazione all’esercizio dialettico significa chiaramente aprire quest’ultimo a una nuova forma dell’irresolutezza tragica, obbligare la riflessione su ogni futuro del comunismo a tenere in considerazione la provocazione del mito e della sua storia ripetitiva. Significa sospendere le promesse della dialettica per ridare forza sensibile allo scarto tra l’acquiescenza nei confronti dell’ingiustizia, che è sempre stato ragionevole commettere, e la semplice dichiarazione del suo rifiuto. Ma significa anche rovesciare i topoi dell’argomentazione dialettica, trasformarli in blocchi sensibili di parole portatrici di un’esperienza storica. L’immemoriale del mito e del destino non è più allora ciò che impedisce la strada della lotta per la giustizia, ma diventa ricchezza sensibile del possesso di un’esperienza collettiva e della possibilità di esprimerla. Da questo punto di vista, la saggezza del padre e il rifiuto del figlio si eguagliano nella capacità comune dei pastori di parlare all’altezza del proprio del destino e del destino di tutti. E non è indifferente che questa uguaglianza sensibile tra argomenti contrari sia incarnata qui da dei non-attori, operai o impiegati reclutati tra quelli che frequentavano il circolo Primo Maggio di una piccola borgata comunista della Toscana. Questa capacità di tutti di dare la più grande intensità sensibile anche alla parola più difficile è ciò che i film successivi degli Straub proveranno a sviluppare. Il lavoro della macchina da presa nei loro film è volto ad aumentare questa potenza sensibile: il gesto del figlio non interrompe solamente la dialettica del padre, ma incorpora anche la ricchezza di esperienza sensibile dei suoi blocchi di parola e di esperienza, intrecciandola con la presenza della ricchezza della luce, del paesaggio e del vento. A partire da qui la luna e i falò, l’erba e la vigna, lo scricchiolio dei passi sulla sabbia del sentiero, il rumore del ruscello o quello del vento fra gli alberi e la confusione stessa degli antichi saranno messi alla prova ogni volta nella loro dualità di ricchezza sensibile comune e di ritaglio del mondo che rende invisibile la giustizia.

    La tensione tra dialettica e mito è allora assorbita in un processo di condensazione lirica di presenza e assenza. Questa trasformazione della dialettica assume il suo senso se la si compara a un’altra, riassumibile nel percorso di Godard. Pur realizzato più di venti anni dopo (e dunque contemporaneo a Operai, contadini, 2001), diversi aspetti di Éloge de l’amour (2001) possono infatti ricordare Dalla nube alla resistenza: un comune riferimento alla resistenza e allo sperpero della sua eredità, uno stesso modo di confrontare un insieme di testi, custodi di un’eredità storica, con dei luoghi storici ormai muti. Ma il divenire del dialogo brechtiano vi si presenta in maniera ben diversa. Da un lato, il confronto dialettico tra le parole e le cose ha preso una piega nostalgica, i significanti storici si rapportano al vuoto del loro luogo o all’esaurimento del loro tempo. Penso al percorso erratico di notte nel deposito delle ferrovie o alla sosta davanti l’Île Seguin, vecchio cuore delle industrie Renault in attesa di demolizione, al gioco di parole sulla «fortezza vuota» che si riferisce tanto alla cittadella sindacalista quanto al cervello dell’autista, agli operai scomparsi rappresentati metaforicamente da quattro giardinieri, al passato popolare metaforizzato dalla canzone dell’Atalante (J. Vigo, 1934) o alla voce ansimante della vecchia signora, depositaria della memoria della Resistenza. Dall’altro, lo choc degli elementi eterogenei esaspera le sue provocazioni fino a produrre una radicale impossibilità di scegliere tra le ingiustizie. Al celebre aforisma di René Char commentato da Hannah Arendt («La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento») risponde in Éloge de l’amour un testamento alla maniera di Villon, quello del collaborazionista fucilato Robert Brasillach, cantato dall’assistente che il collezionista ebreo defraudato mette a disposizione del regista. Le sue parole si concludono di fronte al bar La Liberté, prima di introdurci al discorso di un testimone di ritorno dal Kosovo le cui parole sugli orrori commessi dai serbi sono accompagnate da quelle di un giornalista kosovaro che deplora gli orrori cui si sono abbandonati i suoi fratelli. L’equivalenza tra le ingiustizie non può essere interrotta da nessun gesto, né può essere detta dalla voce di chiunque. Solo il regista ha il potere di metterne in scena la tensione. Le copertine dei libri si dischiudono appena per far uscire qualche aforisma che si confronta o si scontra col vuoto delle ambientazioni.

    La scena si riproduce in maniera diversa in Notre Musique (J.-L. Godard, 2004) rispetto a un altro luogo vuoto, la biblioteca incendiata di Sarajevo: in questo luogo distrutto dalle granate serbe, come davanti al ponte di Mostar distrutto dalle bombe croate, il cineasta convoca tre indiani che indossano piume – cinematografiche – da pellerossa, mentre il commento paragona l’ingiustizia subita dai palestinesi alla sorte – militare e poetica – di Troia, a quella degli ebrei assassinati nei campi di sterminio e al silenzio di un vecchio militante della resistenza francese. Poco oltre, il regista mostra a degli studenti la somiglianza tra l’ebreo e il musulmano nei campi nazisti, l’impossibilità di identificare uno tra questi scenari di battaglia, che si assomigliano tutti, o l’incapacità del regista Hawks di differenziare un controcampo su un volto femminile da un campo occupato dal volto di un uomo. In breve, la parola e le immagini confrontano rabbiosamente il loro potere di denunciare senza fine e la loro impotenza a decidere una volta per tutte. Più esattamente, il rapporto tra parola e immagine si presenta ormai sotto due figure. Nelle Histoire(s) du cinéma (J.-L. Godard, 1989-1998), parola e immagine possono scivolare l’una sull’altra, fondersi o differenziarsi. Esse ritrovano quella comunanza grafica per mezzo della quale Vertov, al tempo de L’undicesimo (1928) o de La sesta parte del mondo (1926), voleva tessere il sensorio di un nuovo mondo comunista. Ma la ritrovano nel luogo delle ombre, della morte e dell’arte. In compenso, là dove sono dei corpi viventi a doverle raccordare, là dove il cinema si propone come giudizio sui viventi e sulle loro possibilità di agire, parola e immagine ritrovano il loro scarto: da un lato, gli indiani fanno risuonare la loro voce nella biblioteca vuota come parola che non cessa di dimenticare il dialogo europeo delle ingiustizie. Dall’altro, quelle piume da parodia denunciano gli stereotipi dell’immaginario europeo. Ma le due denunce, che dovrebbero unirsi, si annullano: i corpi presenti sullo schermo non possiedono l’autonomia sufficiente per farne una sintesi. La denuncia degli stereotipi dell’immagine sottrae loro la potenza della parola nel momento stesso in cui la manifestano, rendendola alla voce sovrana che organizza il confronto senza fine tra i luoghi comuni della parola e la brutalità delle immagini che li interrompe, tra gli stereotipi dell’immagine e la parola poetica che li scava in profondità.

    Dalla nube alla resistenza si sottrae a questo destino ironico della dialettica perché articola la ricchezza sensibile del testo e del visibile con la potenza di corpi capaci, nello stesso tempo, del gesto del rifiuto e della performance vocale che si impadronisce della potenza affermativa contenuta nelle parole di quella stessa scienza che preconizza la rassegnazione. Nell’opera degli Straub, il gesto di rifiuto del giovane pastore troverà un seguito fino alla parola del vecchio operaio che in Umiliati (2003) interromperà bruscamente l’impeccabile dimostrazione marxista delle illusioni passatiste della loro piccola comunità. La politica del cinema degli Straub risiede così nell’arte di presentare corpi del popolo capaci contemporaneamente di mettere in parola la potenza dialettica della divisione e di incarnare in un gesto una resistenza della giustizia a ogni argomento che si riveli in fondo identico al suo contrario: la resistenza della natura a ogni discorso sul giusto e sull’ingiusto. In Godard la politica dialettica fa girare le parole senza fine attorno a un campo-controcampo che fa entrare gli israeliani nel colore della finzione e uscire i palestinesi verso il bianco e nero del documentario. Gli Straub, invece, fermano la dialettica nel responsorio di semi-cori che estraggono insieme dallo scambio dialettico una potenza lirica della parola, una potenza dei blocchi sensibili uguale alla potenza della natura che li ospita.

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