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Vite Impersonali. Autoritrattistica e Medialità
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E-book268 pagine3 ore

Vite Impersonali. Autoritrattistica e Medialità

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Info su questo ebook

Ciò che questo volume dice è che oggi, nei media, ma non solo nei media, tanto più uno si sforza di dire di sé, tanto più lascia spazio a una dimensione impersonale. Attenzione: tanto più uno parla di sé; l’impersonalità arriva appunto come conseguenza di un’iper-personalizzazione; come inevitabile effetto di un affollarsi di “io”. Non si tratta perciò di una cifra stilistica che posso scegliere in partenza: è piuttosto un punto d’arrivo che ho inevitabilmente davanti ogni volta che assumo apertamente la guida di un discorso.


Dalla Prefazione di Francesco Casetti
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2013
ISBN9788881019700
Vite Impersonali. Autoritrattistica e Medialità

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    Anteprima del libro

    Vite Impersonali. Autoritrattistica e Medialità - Federica Villa

    Paesi.

    Francesco Casetti

    Prefazione

    La prima tentazione, leggendo una raccolta di saggi che lanciano una sfida, è quella di raccoglierla per davvero, e rinunciare a ogni autoriferimento. Cancellare il mio io, e commentare alla terza persona quello che ho letto, usando una voce anonima. Pare a qualcuno che questo libro sia produttivo… Si pensa che i contributi segnino un punto importante… Si apprezza che Federica Villa abbia guidato un gruppo di giovani…. Eccetera. Una prosa così fa schifo, ma il gesto sarebbe in tono. Costituirebbe una adeguata risposta all’impersonalità evocata nel titolo del libro, e segnalata come destino inevitabile di chi è così sfrontato da arrischiare un discorso alla prima persona, fino ad auto-ritrarsi.

    Vorrei farlo, ma non posso. Prefazione e postfazione sono infatti un genere letterario concepito come dispiegamento di un sé in diretto dialogo con il lettore, anche se a esclusivo beneficio di un terzo, l’autore o gli autori del corpo centrale del libro, che a loro volta possono riprendere la staffetta della prima persona, dire di sé parlando del loro tema, ma anche omaggiare qualcun altro, in nota, lasciando spazio alla sua voce, e così via. Dunque prefazione e postfazione hanno bisogno di un io per cominciare il gioco dei riferimenti e delle deleghe. Perciò devo per forza esprimermi alla prima persona (prima finché parlo qui, in questo spazio: ma c’è stato anche una seconda o una terza, se qualcuno mi ha citato in nota, o ha voluto dialogare con me). Non posso filarmela nell’anonimato: non farei bene il mio mestiere.

    All’anonimato devo arrivarci. Anzi, non posso fare a meno di arrivarci. Ciò che infatti questo volume dice (questo volume che hai in mano anche tu, lettore, mio sembiante, mio parente…), è che oggi, nei media, ma non solo nei media, tanto più uno si sforza di dire di sé, tanto più lascia spazio a una dimensione impersonale. Attenzione: tanto più uno parla di sé; l’impersonalità arriva appunto come conseguenza di un’iper-personalizzazione; come inevitabile effetto di un affollarsi di io. Non si tratta perciò di una cifra stilistica che posso scegliere in partenza: è piuttosto un punto d’arrivo che ho inevitabilmente davanti ogni volta che assumo apertamente la guida di un discorso.

    Qualcuno potrebbe dire (vedi, caro lettore, già il mio io cede): è solo una questione di presunzione e di modestia. Nei media, ma non solo, non varrebbe la regola dell’umiltà, quella che predica: non parlare di te, e sarai sulla bocca di tutti (la variante per la mia generazione era la celebre battuta di Nanni Moretti: Se a quell’evento non ci vado, mi notano di più – il che fa capire che razza di umiltà sia in gioco). Nei media varrebbe invece la regola della presunzione, quella che riposa sulla massima parla pure di te, e più che puoi, e poi vedrai come scivoli nell’anonimato (massima che ha anche una variante biblica, esaltati, e sarai umiliato – anche se a dire la verità, con grande sconcerto teorico, vedo attorno a me gente che si esalta, in rubriche quotidiane e settimanali, in apparizioni persistenti in video, in blog aggiornati in tempo reale, e non li vedo per niente umiliati, anzi. Non è che la teoria ha qualche falla? Non è che l’anonimato promesso a chi eccede in autoritrattistica è di là da venire, nei secoli futuri, se ci saranno?).

    Ma non si tratta di una questione di virtù. Quello che i saggi qui raccolti suggeriscono (assieme a molte altre cose, ma il titolo della raccolta è Vite Impersonali, e dunque la cosa che più loro preme deve essere proprio questa) è che si tratta di una questione di media. Sono i media, al punto di maturazione in cui siamo arrivati, che istituiscono questa traiettoria. Chiunque abbia un profilo Facebook, un blog, una pagina web, sia rintracciabile in Vimeo, o twitti di continuo (io ho cominciato con un profilo Facebook falso, fatto da qualcuno che si era impadronito delle mie coordinate, e scriveva cose inusuali, per le quali ho ricevuto molti complimenti da colleghi, contenti che avessi smesso i panni dello studioso serio e serioso), insomma, chiunque circoli nello spazio della Rete, sa bene che è così. Sono i media, mascalzoni, che mi offrono un podio, per poi oggettivarmi in un nickname, trasferirmi in un archivio, trasformarmi in un reperto di google, e affondarmi nel gran mare della Rete.

    I vecchi blog funzionano in questo modo. A differenza dello spettatore tradizionale, quello che andava (o anche che va) al cinema, il blogger fa fatica a ritrovarsi in un personaggio o in una storia; preferisce costruire un’immagine di sé in prima persona. Il suo io non nasce da un gioco di proiezioni e identificazioni; nasce da un’evidente presa di parola. Questa sua auto-presentazione possiede però una particolarità: i materiali utilizzati sono solo in parte autoprodotti; molto spesso sono recuperati da altrove; e una volta in Rete, sono destinati a essere utilizzati per raccontare anche altre vite. Dunque il ritratto è vero; ma scomposto e ricomposto, esso potrebbe anche applicarsi a chiunque. Ciò significa, paradossalmente, che quell’io ha qualche falla interna: più è ricco, più ha debiti da saldare; più colpisce, più è espropriabile e espropriato; più è io, più si presta a essere tutti.

    In social network tipici del web 2.0 come Tumblr, questa condizione si riaffaccia in modo ancor più radicale. Grazie alla presenza di un feed reader, la pagina si carica di contenuto prelevato altrove, fino a formare una sorta di giornale che contiene ciò che l’utente legge o a cui è interessato. Nella sua dashboard appaiono in ordine cronologico i post degli altri blogger, a cui l’utente talvolta (ma non sempre) aggiunge un commento o una correzione. L’effetto è quello di un grandissimo accumulo di citazioni, richiami, fonti, con una relativa scarsità di interventi propri. Certo, la personalità dell’utente continua a manifestarsi dentro questo accumulo: ma lo fa grazie al tipo di link a cui egli si connette, assai più che per quello che egli direttamente dice. Il suo io non è che un punto di intersezione di una Rete di relazioni. È l’insieme dei contatti che egli ha voluto raccogliere e dentro i quali si colloca.

    Facebook non è troppo diverso, e certo non basta un mi piace per poter dire che l’amico di turno sta esprimendo sé in maniera forte e inequivocabile. Mi piace porta a finire in una classifica di gradimento, in cui funziona da metro, come il pubblico in sala con i vecchi applausometri di molte trasmissioni televisive fa. Né è troppo diverso Twitter. Le poche righe finiscono con l’equivalere a quei termometri dell’umore che si attaccavano ai frigoriferi, e in cui si spostavano le lancette secondo il giorno: oggi sono felice, sono incazzato nero (e come Twitter, quando andava bene funzionava come richiesta di aiuto; altrimenti era solo una casella di un diario immaginario).

    Non continuo. Mi basta dire, giusto sulla linea di quello che questo libro dice, e riprendendo molte delle osservazioni qui contenute, che l’impersonalità prende sempre più piede in un mondo apparentemente dominato dal narcisismo, è anche perché i nuovi media sviluppano pratiche come il bricolage e il link che portano inevitabilmente a questa condizione.

    Il che non significa che l’io debba per forza scomparire. Diciamo (vedi lettore, intendo io e intendo te) che questa prima persona si trova a manovrare su un terreno accidentato, in cui sono previste perdite e guadagni, non necessariamente in questo ordine, e spesso in forma di conseguenza reciproca. È un terreno che ci riporta a quello che ottant’anni fa Bachtin cercava di mettere a fuoco, analizzando il romanzo moderno, ma anche, credo, interpretando le condizioni culturali che stavano emergendo nel cuore del Novecento, non ultimo sotto la spinta di una progressiva mediatizzazione della società. Il bricolage e il link, così come le altre pratiche che questo libro passa in rassegna (monumentalizzazione, diaristica, gesto autoritrattistico, ecc.) riportandole appunto ai media, mi ricordano qualcosa della dialogicità e dell’eteroglossia bachtiniana: sono punti in cui un discorso si costituisce attraverso dei rimandi e delle appropriazioni, grazie a dei confronti e a dei furti, mettendo in scena voci proprie e voci altrui, attraverso movimenti centrifughi e centripeti. C’è forse solo da dire che Bachtin, ottant’anni fa, poteva anche apparire ottimista. Una parola, che pure vive costantemente sul terreno dell’altro, può diventare «propria quando il parlante vi installa la propria intenzione, il proprio accento, quando padroneggia la parola e la associa alla propria aspirazione semantica e espressiva»[1]. Oggi non sono così sicuro che i new media consentano facilmente un padroneggiamento della parola, per quanto friendly possano essere. Dietro la facilità dell’uso, la lotta è forse più dura (Federica Villa lo sottolinea nella sua introduzione). E molti risultati (sintomatici quelli sul versante delle pratiche artistiche, della cui illustrazione questo libro abbonda) appaiono importanti proprio perché contrastati. L’appropriazione e l’espropriazione si danno per davvero la mano. Ed è dunque nell’instabilità che il numero cardinale della persona (prima, seconda, terza, e così via…) può veramente prendere piede.

    Resta il problema di capire se non ci sia anche il fatto che il carnevale è finito, e viviamo giorni di quaresima. Ma su questo, non è un cinguettare che ci dà il segno del tempo.

    [1] M. Bachtin, La parola nel romanzo, in Id., Estetica e romanzo, tr. it., Einaudi, Torino 2001, p. 293.

    Federica Villa

    Introduzione

    Le stanze del pensiero: autoritrattistica e medialità

    1. Stando stretti all’attuale rivolgimento teorico intorno alla natura e allo stato dell’esistente mediale, si potrebbe dire che qualcosa viene a mancare in modo definitivo. Questo qualcosa non è propriamente il sistema (dei media), che di certo subisce un collasso a causa della rifrangenza di un segnale sempre più segnale comune, bensì la sistematicità che voleva i media, anche se a stretto contatto e a volte promiscui, sempre e comunque distinguibili. E quindi non è tanto il sistema dei media a non essere più, quanto piuttosto la sua sistematicità ad essersi arresa.

    Ma, a ben vedere, la riflessione intorno a questa resa è lunga e, come dire, procede per gradi. Basti pensare a come già le prime istanze teoriche sul mezzo cinematografico abbiano posto la settima arte ora come terreno di confluenza e di sintesi delle altre arti dello spazio e del tempo, pensiamo a Ricciotto Canudo (1921), oppure abbiano aperto, sotto il segno del Laocoonte di Gotthold E. Lessing, alla necessità o meno di separarle materialmente, offrendo, molto sinteticamente, una duplice prospettiva: da una parte quella ipotizzata da Sergej M. Ejzenštejn (1937), per il quale «la severità nel relegare i due metodi in campi opposti e incomunicabili si spiega con il fatto che, ai tempi di Lessing, Lumière ed Edison non gli avevano ancora fornito quel perfetto apparecchio per la ricerca estetica e per il riesame dei principi dell’arte che è il cinema»[2], dall’altra quella di Rudolf Arnheim (1938), che, dichiarando il proprio disagio nell’assistere ad un film parlato, invoca un Nuovo Laocoonte per salvaguardare la purezza delle arti e non vedere «due mezzi che si combattono per conquistare lo spettatore invece di avvincerlo con forza concorde»[3].

    Lasciamo però sullo sfondo questo dibattito, che verrà in parte evocato negli interventi successivi, e cerchiamo, molto in sintesi, di ripercorrere i passi principali di questa resa della sistematicità a partire dalle sue ultime battute, da quando appunto il neologismo intertestualità introdotto nel dibattito letterario francese da Julia Kristeva (1967)[4], prendendo le mosse da una rilettura post-strutturalista de La parola e il romanzo di Michail Bachtin, mette in campo il concetto chiave di dialogismo, intendendo con esso sia il dialogo endogeno, la relazione tra gli elementi interni ad un testo, la sua architettura si potrebbe dire, sia la compagine di relazioni esogene che un testo instaura con il proprio contesto di apparizione e di appartenenza, inteso come riserva naturale di molteplici linguaggi, testi ed esperienze.

    Un testo che, come ha modo di dire Roland Barthes, qualche anno più tardi (1975), è inteso come «frammento di linguaggio, posto esso stesso in una prospettiva di linguaggi»[5] e che dunque assume la natura, oltre che dinamica e aperta, di tessuto tramato di fili che legano questo frammento ad un’estensione discorsiva vasta e articolata. Il passaggio successivo è naturalmente quello di Palinsesti (1982) di Gérard Genette[6], opera che riassetta la riflessione, e che, facendo slittare il concetto di intertestualità ad uno ben più radicale di trascendenza testuale del testo o transtestualità, propone con forza di rivolgere l’attenzione alle relazioni che un testo intrattiene complessivamente con il proprio sistema letterario e non tanto con il contesto socio-linguistico di emergenza. A ben considerare, da qualsivoglia punto si desideri vedere la partita, ciò che è in gioco è, ancora una volta dicendolo con Christian Metz (1972) e questa volta parlando naturalmente di cinema, un problema di interferenza (semiologica) di «certi codici (o articoli di codice) che intuitivamente recepiti come specifici […] appaiono anche in forme più o meno simili, nei testi che vengono offerti da altri mezzi di comunicazione»[7]. Insomma in tempi non sospetti, il testo (filmico) viene inteso come campo di tensioni senza confini rigidi e disposto a lasciarsi attraversare e ad attraversare a sua volta ambienti espressivi diversi. Una relazione questa che sancisce quella intermedialità che Antonio Costa dichiara essere un ampliamento del campo di esplorazione dell’intertestualità e nello stesso tempo il suo presupposto, perché si interessa ai rapporti instaurati tra diversi media in quanto dispositivi, intesi cioè come l’insieme delle determinazioni fisiologiche, psicologiche e sociali che gestiscono la produzione, la diffusione e la fruizione tra le diverse forme testuali. Lo stato intermediale cerca, cioè, di rendere conto anche di tutti quegli elementi che «si situano all’incrocio fra i canali materiali e le grandi convenzioni culturali» facendo largo a un’idea di sistema mediale sempre più dinamico e atto a privilegiare forme di circolazione del senso[8].

    Ciò che emerge è dunque una dialettica forte tra specificità materiali e tecnologiche dei media e genericità concettuali e paradigmatiche dei linguaggi: da una parte lo specifico cerca di dare credito ad una visione resistente della sistematicità, dall’altra la circuitazione testuale del senso produce una porosità di confini, zone di addensamento di forme e di modi del comunicare che stanno tra i media, che ne testimoniano la sostanziale vocazione promiscua.

    Naturalmente questo viene ad essere percepito ed esperito con grande forza con l’avvento del digitale e con la relativa formula della dematerializzazione dei testi, della commutazione istantanea che porta ad accelerare lo sgretolamento della sistematicità, passando infine dall’idea di ambiguità, attraverso quella di contaminazione, a quella definitiva di fusione[9]. «L’immagine digitale e le reti informatiche che la distribuiscono non possono più essere considerati come dei media, ma andrebbero bensì definite come degli immedia», questa è, come si sa, la traiettoria che già sostiene Gene Youngblood nel suo Expanded Cinema (1970)[10], quella in sostanza di un network intermediale che non solo mette in profonda discussione la distinzione tra i diversi media ma che, grazie al digitale come esperanto, impone la necessità di sviluppare un linguaggio sinergico ad uso e consumo del soggetto nelle sue molteplici esperienze con i media. Dal sistema, dunque, alle piattaforme di manifestazione e di produzione. Dalla specificità dei linguaggi alla convergenza della cultura, così come notoriamente dice Henry Jenkins[11], le nuove tecnologie dei media fanno saltare l’idea della differenza come priorità a favore di quella di collisione come valore, dove appunto è la dimensione crossmediale a farla da padrona: facendo leva sulla convergenza del segnale si moltiplicano le attività di creazione e di distribuzione dei contenuti di ogni genere, fruibili a richiesta in diversi formati e su diversi apparecchi.

    Il presente viene così ad essere segnato da una condizione postmediale, come bene ha chiarito Rosalind Krauss (1999), identificabile nel passaggio da un utilizzo sinergico dei nuovi media (per fare arte) ad un’impostazione che li considera scontati, elementi imprescindibili di una cassetta degli attrezzi da cui pescare con disinvoltura[12].

    In particolare, come è noto, la Krauss si serve di questo termine in riferimento ad alcune esperienze artistiche degli anni Settanta, che da una parte marcano il superamento dell’approccio greenberghiano all’estetica e dall’altro il declino, in ambito video, della riflessione sulla specificità mediale. Ma se, seguendo questa proposta, la postmedialità trova il suo inizio nei lavori di Marcel Broodthaers[13], dobbiamo però rilevare come sia solo nel primo decennio di questo secolo che tale condizione trova piena maturità, quando cioè i media, con le loro metafore, entrano definitivamente a far parte del nostro quotidiano. Quando, cioè, buona parte di noi si trova in tasca un dispositivo che gli consente insieme di parlare, scrivere, fotografare, girare filmati e ascoltare musica e risulta estremamente difficile passare una settimana, o anche una sola giornata, senza ricorrere a Internet.

    2. Ma questo non è propriamente pane per i nostri denti. Non è la strada che vogliamo imboccare. Ciò che si vuole mettere in rilievo, infatti, è che la questione della perdita di sistematicità, che definisce la condizione postmediale, introduce ad una dimensione di novità basata necessariamente sullo stato d’incertezza. Il mediascape continua a cambiare e, come ha avuto modo di dire Peppino Ortoleva recentemente, il soggetto è schiacciato dalla premura di seguire questo inarrestabile cambiamento, stando per così dire dietro all’evoluzione dei media, rincorrendone le modificazioni strutturali e d’uso, ma mai con un saldo stato d’animo di totale preveggenza[14]. Tutto ciò che è incerto coincide con la novità. Con il fatto, cioè, che i media sono in costante stato di permuta, vibrano di un’inevitabile stato di alterazione, sempre e comunque, alterazione che puntualmente accade e che ne prefigura un ulteriore rilancio. E questo stato di cronica instabilità persegue due grandi modalità per alimentarsi: da una parte sviluppa tecniche adattive, lavorando per un medium sempre più su misura, a misura d’uomo, a portata di mano, personal media o handheld media appunto, dall’altra si assesta su tecniche omologanti, tutti i media vengono un po’ ad assomigliarsi, si confondono, convergenza e rimediazione diventano concrete possibilità per arrivare a fare esperienza di tutti i media indipendentemente dall’aver maturato una familiarità pregressa con i singoli media.

    Ed è proprio qui che troviamo il primo punto di interesse. Lo stato di instabilità è anche quello

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