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Fritz Lang Alfred Hitchcock. Vite parallele
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E-book547 pagine5 ore

Fritz Lang Alfred Hitchcock. Vite parallele

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Info su questo ebook

Due grandi maestri del cinema e due percorsi paralleli. Un'analisi appassionata, romanzesca, della vicenda umana, artistica e creativa di due grandi personalità del Novecento cinematografico.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2015
ISBN9788893040242
Fritz Lang Alfred Hitchcock. Vite parallele

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    Anteprima del libro

    Fritz Lang Alfred Hitchcock. Vite parallele - Stefano Sciacca

    Stefano Sciacca Fritz Lang Alfred Hitchcok. Vite Parallele

    Prefazione

    di Silvio Alovisio

    Ad attirarmi verso la lettura di questo libro è stata la singolare quanto temeraria proposta dichiarata nel suo titolo consapevolmente plutarchiano, ossia l’intenzione di mettere a confronto le biografie, la poetica e la stilistica di Lang e Hitchcock, due registi tra i più noti e studiati della storia del cinema. Il mio interesse iniziale verso il volume di Sciacca derivava in particolare dalla constatazione di una sorprendente carenza bibliografica: a fronte di una sterminata letteratura critica e accademica sui due registi, mi sembra infatti che manchi ancora un’indagine che li ponga al centro di una comparazione ampia ed esauriente: le riflessioni di Jean-Pierre Oudart, Jean-Loup Bourget, Pascal Bonitzer, Tom Gunning, Sidney Gottlieb, David Thomson, Walter Metz, e il monografico Hitchcock/Lang di Traffic, pur molto significative, rappresentano le eccezioni che confermano le regola, anzi, la lacuna.

    Personalmente ho sempre nutrito una certa diffidenza nei confronti delle comparazioni tra registi, perché spesso cadono nella facile tentazione di imporre discutibili analogie, prive di convincenti motivazioni storico-culturali che le giustifichino. Non è certamente questo il caso del volume di Sciacca: la sua opera di messa a confronto esplora senza forzature gli itinerari umani, intellettuali e stilistici di Lang e Hitchcock con attenzione e prudenza. L’autore approfondisce certi raffronti (per esempio il comune confronto con gli standard produttivi hollywoodiani e con l’american way of life americano); individua polarizzazioni dialettiche simili (a partire, com’è ovvio, dall’incontro-scontro tra uomo e donna); identifica convergenze tematiche (persuasiva, per esempio, l’analisi della figura ricorsiva del serial killer); rintraccia posizioni etiche parzialmente condivise: di fronte, per esempio, all’orrore dei totalitarismi europei, e in particolare del nazismo, entrambi i registi realizzano alcuni notevoli film di propaganda, da Sciacca dettagliatamente studiati in una delle parti migliori del libro (si legga, per esempio, il confronto tra Il prigioniero di Amsterdam e Il prigioniero della paura).

    Il rischio di limitare il confronto entro il perimetro, significativo ma forse angusto, del biografismo o delle affinità di contenuto, è da Sciacca intelligentemente evitato anche grazie alla sezione che conclude il suo lavoro, dedicata proprio all’analisi comparativa delle strategie stilistiche formalizzate da Lang e Htichcock in alcuni loro film della maturità (tra questi anche Mentre la città dorme, capolavoro langhiano spesso sottovalutato, finalmente posto al centro di un’analisi approfondita).

    Ma le proposte di analisi offerte dall’autore non si limitano a seguire la rotta programmata del confronto tra Lang e Hitchcock. Come dichiarato già nell’indice del volume, gli itinerari suggeriti da Sciacca fanno dell’intersezione la loro ragion d’essere: intersezione intesa come associazione e attraversamento, come sconfinamento e persino ridondanza delle innumerevoli proposte di visione e di analisi, a comporre un caleidoscopico, ma non caotico, viaggio ipertestuale, sempre ancorato a un fil rouge (i percorsi paralleli di Lang e Hitch) ma anche sempre pronto a cogliere le opportunità di confronto e di apertura offerte dalla libertà creativa, talora persino gioiosamente spregiudicata, del discorso critico: ecco allora, per esempio, che dentro la stanza dei film di propaganda antinazista dei due autori eponimi, l’autore apre una finestra su altri film hollywoodiani simili, inventandosi un tracciato che lo condurrà prima dalle parti di Casablanca per poi passare, attraverso il canto della Marsigliese, a La grande illusione, e infine, grazie al tema - condiviso con quest’ultimo film - del tedesco buono, all’indimenticabile Duello a Berlino di Powell e Pressburger.

    In questo itinerario cinefilo appassionato e appassionante, l’autore porta con sé un bagaglio non leggero ma accuratamente selezionato, nella convinzione che il piacere dell’interprete non debba mai prevalere sul piacere del lettore. Nasce da qui la scelta di escludere dal viaggio la compagnia degli studi accademici e il sostegno di un autorevole quanto ingombrante apparato di note, preferendo convocare soltanto (si fa per dire…) le voci dei registi: scelta coraggiosa, indubbiamente, per alcuni forse anche discutibile, ma indispensabile per dare a questo viaggio un andamento fluido, piacevole, libero, il più vicino possibile a quel plaisir des yeux magistralmente celebrato da Truffaut.

    Come accade in tutti i viaggi lunghi e pieni di cose da vedere, anch’io, come qualsiasi viaggiatore, posso, alla fine del viaggio, esprimere le mie preferenze. A partire, per esempio, dalle pagine che aprono il volume, dove la genuina, onesta adesione di Sciacca alla tradizione cinéphile della politique des auteurs trova un decisivo e originale sostegno nella sua solida formazione giuridica. Nelle pagine quasi programmatiche che aprono il suo lavoro, egli infatti osserva come, a ben vedere, i principi costitutivi del diritto d’autore tutelino quegli aspetti della creatività artistica (diritto morale, individualità, primato della forma) che sono centrali nella critica imperniata sulla nozione di autorship. La stessa idea di mettere a confronto i percorsi creativi di Lang e Hitchcock, e alcuni loro film dai temi simili, sembra nascere da riflessioni giuridiche legate al diritto d’autore, e in particolare dalla distinzione tra idea ed espressione (la legge tutela essenzialmente quest’ultima).

    Altre stazioni del volume di cui conservo un felice ricordo sono le pagine dedicate ai film di Lang e Hitch interamente incentrati sul punto di vista di personaggi femminili: in particolare – naturalmente - Rebecca la prima moglie e Dietro la porta chiusa, di cui l’autore coglie ottimamente le sorprendenti analogie (anche stilistiche, come le soggettive in movimento ma non ancorate a un corpo) ma pure le sottili differenze. Altrettanto stimolanti sono gli esiti dell’analisi intorno alle ossessioni tipiche dell’universo maschile langhiano e hitchcockiano, spesso di matrice sessuale, attualizzate scenicamente dalla ricorrenza del motivo del quadro e della scena onirica. Di particolare e positiva singolarità, ancora, è l’idea di confrontare il ciclo di Mabuse con Nodo alla gola, nel nome di una comune sensibilità al tema, prima di tutto etico ma anche profondamente politico, del conflitto tra l’individualità superomistica e la legge (un tema che coinvolge intensamente, come efficacemente dimostrato in un capitolo dedicato, anche il cinema di Orson Welles). Al di là della serrata e convincente proposta comparativa tra i due registi, non mancano inoltre passaggi dell’analisi capaci di esprimere un rilievo autonomo: penso, per esempio, all’insolita ma interessante ricerca delle filiazioni dell’universo langhiano (e in particolare del primo Dottor Mabuse) nella saga di Star Wars, oppure allo studio della sceneggiatura di Eva contro Eva in relazione ai risultati definitivi del montaggio o, ancora, all’analisi della filmografia di Powell e Pressburger, talmente approfondita ed estesa da meritare, forse, uno studio monografico specifico.

    Ad un film che sta per vedere per la prima volta, scrive Sciacca nelle prime righe del suo volume, "chiunque chiede almeno una cosa: di essere intrattenuto, ossia, in base all’etimologia del termine, fatto indugiare su quanto osserverà. E si domanda, poco prima che lo schermo si animi, se quella sequenza di immagini in movimento sarà effettivamente capace di distrarlo dalle preoccupazioni quotidiane, emozionarlo, coinvolgerlo e, al gradino più alto delle aspettative, trasmettergli qualcosa di più duraturo.

    Il piacere genuino, orgogliosamente disinvolto, generoso e contagioso, della degustazione cinefila alimentato dalla lettura di questo volume mi porta a riconoscere che ogni tanto forse anche un libro sul cinema può soddisfare al meglio le stesse aspettative.

    Istruzioni per l’uso

    Stefano Sciacca

    Fritz Lang, Alfred Hitchcock. Vite parallele è il risultato delle riflessioni di un cinefilo giurista. Una pericolosa combinazione di sentimento e ragione, che emerge chiaramente nella teoria introduttiva sull’opera cinematografica, la sua natura ed il suo valore, giuridici ed artistici.

    È quella l’idea di cinema dell’autore, alla luce della quale egli si è accostato ai film commentati nella seconda parte del testo, consistente appunto nell’applicazione dei principi generali, elaborati in precedenza, all’analisi particolare, allo scopo di dimostrarne la validità.

    Il libro, inoltre, si propone di suggerire una serie di percorsi cinematografici che si snodano attraverso le filmografie parallele di Fritz Lang e di Alfred Hitchcock, i quali, oltre ad essere stati due dei più grandi registi di tutti i tempi, sono accomunati anche dalla circostanza di aver vissuto entrambi le principali fasi della storia del cinema: iniziando con il muto, passando al sonoro, fino all’avvento del colore. E sono stati in grado, nel corso degli anni, non solamente di adeguarsi ai cambiamenti, ma di valorizzarli in maniera personale ed innovativa.

    Lungo il cammino capiterà, poi, di imbattersi in numerosi autori del cinema classico, attraverso paesi, generi e stili molto differenti tra loro: da Murnau ad Ejzenštejn tra i grandi del muto; da Mankiewicz a Welles tra i grandi della parola; da Preminger alla coppia Powell – Pressburger tra gli indipendenti. E molti altri ancora.

    La struttura dell’opera, tuttavia, è tale per cui questo viaggio, apparentemente lunghissimo ed assai faticoso, può essere goduto a tappe, vale a dire le intersezioni attraverso le quali si sviluppa il discorso, articolato sempre attorno alle figure di Lang e di Hitchcock.

    Anzi, la principale vocazione del testo è appunto quella di consigliare una serie di titoli tra loro collegati, per affrontare il cinema non solo con animo appassionato, ma altresì con piglio sistematico.

    D’altra parte, l’accuratezza delle schede relative a ciascun film permette anche di scoprire e di meglio apprezzare le singole opere. Si tratta di approfondimenti autonomi, sebbene legati da un minimo comun denominatore facilmente riconoscibile: il preminente interesse per l’aspetto visivo. Ciò poiché, come sosteneva Alfred Hitchcock e con buona pace di Woody Allen, in ambito cinematografico non c’è nulla di più deleterio di semplici riprese di gente che parla.

    Fritz Lang, Alfred Hitchcock. Vite parallele aspira dunque a divenire uno strumento in certa misura equivalente ai tradizionali dizionari di cinema (indispensabili compagni per qualunque cinefilo), rispetto ai quali è privo dell’aspirazione universale, ma risulta arricchito proprio dalla particolare selezione del materiale raccolto e dall’organizzazione originale dello stesso, nonché dalla cura dell’analisi.

    Che sia consumato in un sol boccone, che sia suddiviso in portate diverse o che sia oggetto di isolati assaggi, la speranza dell’autore è che la lettura non risulti in nessun caso indigesta. Per questo si è deciso di ricorrere ad un registro il più possibile discorsivo, con l’obiettivo di suscitare interesse, di soddisfare curiosità e, soprattutto, di appassionare il lettore. Tanto più che a scrivere è appunto un appassionato autodidatta e non un docente.

    Il taglio narrativo e non didattico è ispirato anche da una riflessione amara circa l’attuale considerazione che molti dei film esaminati ricevono nell’immaginario collettivo: essi sembrano essere divenuti specie protette, gelosamente custoditi dalla critica entro le gabbie di uno studio di tipo tradizionale, con la conseguenza che solo di rado vengono condivisi dal grande pubblico contemporaneo, intimorito, diffidente e, talvolta, persino indifferente. Quasi che, nell’opinione comune, venga condiviso aprioristicamente il verdetto emesso da un popolare personaggio di Paolo Villaggio nei confronti di una delle opere simbolo della storia del cinema. Quasi, cioè, che i film muti, quelli in bianco e nero e quelli privi di effetti speciali siano necessariamente espressione di una sensibilità ormai superata, polverosa ed accademica.

    L’autore, ovviamente, non condivide questa idea. E si augura di riuscire a convincere quanti più lettori possibile della straordinaria attualità, tanto sul piano espressivo quanto su quello contenutistico, delle opere del passato, dalle quali anche le produzioni più recenti traggono costante ispirazione.

    A questo scopo, tuttavia, risulta paradossalmente essenziale partire proprio dallo studio dell’accoglienza che i film ottennero al momento della loro prima uscita pubblica, per svolgere solo in un secondo momento un’operazione di revisione complessiva ex post, per compiere la quale si suggeriscono, sin d’ora, le complete e ricche opere: Storia del cinema di Rondolino, Storia del cinema e dei film di Bordwell – Thompson, L’avventura del cinematografo di Bernardi e, a cura di Bertetto, Introduzione alla storia del cinema.

    D’altra parte, non si possono dimenticare le parole di Orson Welles, pronunciate durante un’intervista ai Cahiers du Cinéma nel 1965: Nulla può essere paragonato al cinema. Il cinema appartiene al nostro tempo. È la cosa da fare.

    Il cinema ed il suo tempo: ecco che, per riuscire a calare in maniera esatta un’opera nello spirito della sua epoca, soccorrono alcuni testi divenuti veri e propri classici, come il prezioso Da Caligari a Hitler – Una storia psicologica del cinema tedesco di S. Kracauer. E, talvolta, tra opere del genere, si ha la fortuna di imbattersi negli scritti di autori che furono addirittura amici e confidenti degli stessi registi: penso, in proposito, alla monografia biografica Fritz Lang di L. H. Eisner.

    Occorre, inoltre, porsi alla ricerca, attraverso i canali più differenti, delle recensioni pubblicate all’uscita dei film. Con riferimento a Il dottor Mabuse, ad esempio, risultano preziosissimi i commenti apparsi su Vorwarts, Die Welt am Montag o Kinematograph nel corso dei mesi di aprile e maggio del 1922, i cui estratti sono reperibili su Fritz Lang – choix de textes établi par Alfred Eibel, Presénce du Cinéma.

    Queste fonti agevolano la ricostruzione del vero significato di un’opera, la cui interpretazione più autentica, comunque, proviene ovviamente dagli stessi registi. A tal riguardo, l’appassionato di cinema dispone di una risorsa ulteriore, un’opportunità eccezionale, legata alla relativa gioventù di questo mezzo espressivo, nato e fiorito di pari passo con la diffusione della stampa, con l’impatto della radio e con l’evoluzione della comunicazione di massa.

    Le interviste costituiscono infatti, secondo l’opinione di chi scrive, il migliore tra gli strumenti di studio e di approfondimento a disposizione. Tanto più quando a rilasciarle sono artisti come quelli di cui tratta l’opera, capaci di arricchirle di dettagli e di emozioni straordinari. "Ho fatto dell’intervista una forma d’arte" sosteneva Welles. Ed ugual capacità avrebbero potuto certamente rivendicare anche molti altri suoi colleghi, meno istrionici e più modesti, ma certamente altrettanto eloquenti.

    Di interviste di registi esistono molte raccolte cartacee: si distingue, per completezza ed accuratezza, la collana Conversations with filmmakers edita dalla University press of Mississippi, tra i quali Fritz Lang: Interviews, a cura di B. K. Grant, Michael Powell: Interviews, a cura di D. Lazar. In italiano, sono state tradotte Alfred Hitchcock, Io confesso – conversazioni sul cinema allo stato puro, a cura di S. Gottlieb, e Orson Welles, it’s all true – interviste sull’arte del cinema, a cura di M. W. Estrin.

    Vanno inoltre consultati con grande attenzione gli archivi dei Cahiers du Cinéma: citate in questo lavoro sono l’intervista di Hitchcock del 1954 e quella di Welles del 1958, entrambe curate da André Bazin, fondatore della rivista; nonché l’intervista di Lang del 1959, rilasciata a Jacques Rivette, che dal 1963 sarebbe diventato direttore della rivista.

    Non solo le opere, ma anche le esperienze di vita, spesso tormentate e burrascose, sono oggetto del racconto degli artisti: Lang ha più volte parlato degli anni tedeschi, della fuga dalla Germania nazista e dell’arrivo ad Hollywood. Per ricostruire le avventure che egli visse è possibile far riferimento sia alla breve autobiografia redatta negli anni ’60 ed edita, in italiano, all’interno di Fritz Lang. La messa in scena, sia a filmati e registrazioni sonore, realizzate da emittenti televisive o radiofoniche, come l’intervista rilasciata a A. Walker nel 1967, quella ad Erwin Leiser nel 1968 e quella a W. Friedkin nel 1974.

    Infine, all’interno di questo percorso di fonti non istituzionali, si ha addirittura il privilegio di imbattersi nel confronto diretto tra registi di diverse generazioni, avvenuto nel corso di incontri il cui svolgimento è stato fortunatamente annotato: si pensi alla conversazione tra Truffaut ed Hitchcock (1962), contenuta ne Il cinema secondo Hitchcock, ovvero al dialogo tra Bogdanovich e Lang (1968), riportato ne Il cinema secondo Fritz Lang, e, ancora, al breve incontro tra Scorsese e Michael Powell, durante la Guardian Lecture presso il National Film Theatre (1985), la cui trascrizione è consultabile nel già citato Michael Powell: Interviews.

    Interviste e conversazioni: il taglio è sempre quello colloquiale, lo stesso che anche questo lavoro si ripromette di seguire e che dà luogo ad ampie digressioni, più congeniali, appunto, ad una conversazione che non ad una lezione.

    Il tono informale, peraltro, non comporta affatto mancanza di profondità nell’auto-riflessione sulla propria opera, tanto che non si è esitato a definire le osservazioni compiute da Hitchcock nel corso delle sue interviste delle vere lezioni di cinema. Spesso, dopo tutto, i grandi registi sono anche teorici di chiarezza e rigore eccezionali ed autori di numerosi manoscritti e trattati di cinema. Su tutti viene alla mente il nome di Ejzenstejn, del quale, in lingua italiana, sono stati consultati Teoria generale del montaggio, a cura di Montani, Lezioni di regia, a cura di Gobetti, e La forma cinematografica, traduzione di Gobetti. Per quanto riguarda Jean Renoir, si segnala La vita è cinema. Tutti gli scritti 1927 – 1971, a cura di Grignaffini e Quaresima.

    Nonostante l’assoluta preferenza accordata alle parole degli stessi registi, si è talvolta tratto spunto anche dalle riflessioni di studiosi di cinema, tentando, allora, di individuare lavori che fossero caratterizzati da indubbia originalità, piuttosto che ordinarie monografie, come l’articolo di Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, pubblicato sul numero autunnale del 1975 di Screen 16.3 (e recentemente riproposto in italiano nella raccolta degli scritti dell’autrice, Cinema e piacere narrativo), o che condividessero la medesima metodologia qui prescelta, vale a dire l’analisi di materiale d’epoca, come What is wrong with the beard: Ejzenštejn’s Ivan the Terrible as an eccentric tragedy, contributo di Yuri Tsivian, apparso sulla rivista canadese Cinémas (vol. 11 del 2001).

    Con l’augurio di una piacevole lettura e, soprattutto, di molte avvincenti visioni...

    L’opera cinematografica dalla prospettiva giuridica

    Regime giuridico

    Ad un film, che sta per vedere per la prima volta, chiunque chiede almeno una cosa: di essere intrattenuto, ossia, in base all’etimologia del termine, fatto indugiare su quanto osserverà. E si domanda, poco prima che lo schermo si animi, se quella sequenza di immagini in movimento sarà effettivamente capace di distrarlo dalle preoccupazioni quotidiane, emozionarlo, coinvolgerlo e, al gradino più alto delle aspettative, trasmettergli qualcosa di più duraturo: magari, suggerirgli una prospettiva diversa, attraverso la quale valutare l’esistenza, quando, al termine della proiezione, la sua mente tornerà alla vita reale.

    La risposta a questi interrogativi – si può dire, in maniera atecnica – dipende dal valore dell’opera, sul quale i critici, professionisti o improvvisati, si scatenano, immediatamente prima della sua pubblicazione.

    Pochi, tuttavia, o più probabilmente nessuno, si interrogano sul trattamento che l’opera cinematografica riceve in base a quell’insieme di regole che disciplinano ogni aspetto della convivenza civile, inclusa l’attività intellettuale, comunemente noto come ordinamento giuridico. Eppure, soffermandosi un secondo a pensare al regime legale dell’opera cinematografica, si possono trarre informazioni utilissime a capire meglio la nozione stessa di cinema.

    L’opera cinematografica, secondo una definizione comunemente accettata, che anche il legislatore sembra implicare, nel momento in cui non ne dà una propria (egli infatti si limita ad annoverare tra gli oggetti di tutela di cui all’art. 2 l.a. le opere dell’arte cinematografica, muta o sonora), consiste in una successione di immagini, coordinate tra loro, per suggerire la sensazione del movimento, attraverso il ricorso al processo fotografico o ad altri processi analoghi.

    Essa viene protetta come opera dell’ingegno, mediante l’attribuzione di diritti d’autore, che conferiscono ai titolari la facoltà di sfruttare, in maniera esclusiva, il potenziale patrimoniale dell’opera (diritti patrimoniali), nonché quella di impedire o di reprimere modificazioni, non autorizzate, di essa, dalle quali possa derivare un pregiudizio, in termini di discredito, della loro reputazione (diritti morali). Per ricevere tutela è, peraltro, necessario che l’opera venga estrinsecata e ciò implica la fissazione su un supporto materiale, che ne consenta la divulgazione.

    In effetti, la principale preoccupazione del legislatore, in funzione della quale viene appunto concessa la tutela, è appunto questa: garantire l’accrescimento del patrimonio culturale collettivo; ma un simile obiettivo non sarebbe raggiunto, se l’opera rimanesse prigioniera dell’intelletto dell’autore. È, però, altrettanto vero che, in assenza di una protezione giuridica come quella del diritto d’autore, l’artista non sarebbe incentivato a creare e comunque non troverebbe un produttore, un editore o un distributore, disposti ad investire nella divulgazione della sua opera, essendo questa, una volta estrinsecata, esposta al rischio di venire copiata e goduta da terzi, senza alcuna remunerazione per gli sforzi creativi ed economici affrontati da ciascuno di loro. Nel caso di un’opera intellettuale, infatti, la natura immateriale del bene protetto permette ad essa di essere riprodotta e circolare infinite volte, sempre uguale a se stessa, senza che l’autore (né gli imprenditori alle sue spalle) possano sfruttare la corporeità e la naturale limitatezza del supporto materiale che la incorpora, posto che il valore del bene complesso (opera intellettuale + supporto materiale) è rappresentato esclusivamente dalla componente creativa, la quale, tuttavia, è esposta al rischio di una perfetta riproduzione ad opera di soggetti non autorizzati. Ecco perché, a lato della tutela giuridica apprestata dalla disciplina sul diritto d’autore, è crescente il ricorso a tecniche anti – copia che imprigionano il contenuto immateriale al supporto digitale, le c.d. DRM, digital rights management).

    Il diritto d’autore, che è pur sempre un monopolio e che, come ogni altro monopolio, costituisce un costo per la società, si giustifica appunto per la sua funzione incentivante: il beneficiario è consapevole di essere protetto ed è in tal modo spinto ad incorporare la creazione su un supporto materiale (la vecchia pellicola, il dischetto o il file digitale), attraverso il quale essa possa circolare, poiché sa che, chiunque avrà la proprietà di tale medium, rimarrà pur sempre lui il titolare del bene immateriale (l’opera, appunto) che vi è impresso.

    La circostanza, poi, che sull’opera siano attribuiti anche diritti morali evidenzia che quella cinematografica, come tutte le altre opere frutto dell’attività creativa, non è solo un prodotto commerciale, dotato di un’utilità economica, ma è, anche e soprattutto, la manifestazione della personalità di uno o più individui. Questo rapporto tra l’autore e la sua opera è, specie nella tradizione europea, ammantato di una sacralità, che, tradotta in termini giuridici, si sostanzia nella considerevole intensità delle prerogative di carattere morale. E così, mentre la componente patrimoniale del diritto d’autore è liberamente trasferibile, quella morale risulta indisponibile agli stessi titolari, alla stregua, appunto, di un diritto della personalità.

    In tema di diritti morali dell’autore, fa ormai scuola la vicenda giudiziaria afferente proprio un capolavoro dell’arte cinematografica: in Francia, agli inizi degli anni ’90, i successori di John Huston ottennero dalla casa di produzione Turner un risarcimento di 600.000 franchi, in seguito alla colorazione di Giungla d’asfalto (1950), opera che il regista aveva deliberatamente concepito e realizzato in bianco e nero (pur potendo disporre del colore). I giudici francesi ritennero, invero, che il diritto morale dell’autore fosse stato leso da quell’alterazione non autorizzata. In effetti, sebbene la reputazione dell’artista non ne fosse stata compromessa, né l’opera originale avesse subito un’irreparabile modificazione (non trattandosi di un pezzo unico, ma, appunto, di un bene immateriale), è certamente vero che il pubblico, che per la prima volta assistette al film nella sua nuova veste, ne ebbe una percezione diversa da quella che il regista intese suscitare. Quest’ultima andava, pertanto, protetta, al pari di ogni altro elemento attraverso cui si esprime la personalità dell’autore.

    Peraltro, la matrice autoriale di cui si sta discorrendo (e di cui i diritti morali sono espressione) deve necessariamente emergere, nel senso che l’opera deve essere dotata di un carattere individuale, capace di distinguerla da qualunque altra.

    Questa, si badi bene, è l’unica condizione richiesta per la concessione del diritto d’autore, perché, al contrario, non è richiesta alcuna valutazione relativa al merito creativo. Forse, la scelta normativa potrà apparire contro intuitiva; essa, però, si spiega alla luce dell’eccessiva incertezza di un eventuale giudizio di qualità. Basta pensare alle accese dispute tra critici per comprendere quanto soggettiva sia la questione. Inoltre, occorre ricordare che il diritto d’autore protegge l’opera per molti anni, attraverso diverse generazioni, mentre la sensibilità ed il gusto collettivo sono particolarmente mutevoli.

    Mankiewicz dedicò il suo famosissimo Eva contro Eva (1950) al mondo del teatro e dell’arte, più in generale. Egli seppe chiarire perfettamente ciò di cui si sta trattando, attraverso una battuta del suo alter ego, il regista teatrale Bill Samson:

    «Il teatro, il teatro! Ma perché si deve credere che il teatro esista solo all’interno di alcuni bruttissimi edifici ammassati nel cuore di New York o di Londra, di Parigi o di Roma?!. Ascolta piccola e impara: vuoi sapere che cos’è il teatro, è il circo equestre ed è l’opera, sono i rodei, il varietà, i balletti, le danze dei selvaggi, Pulcinella, il cantastorie, tutto è teatro, ovunque ci sia, magia, fantasia e pubblico c’è teatro, Topolino, Ibsen e i drammi gialli e Sarah Bernard e i cani ammaestrati, Gianni e Pinotto e Betty Grable, Ermete Zacconi ed Eleonora Duse, tutto questo è teatro. Non puoi capirli tutti, non tutti ti piacciono, è logico: il teatro si fa per tutti, anche per te, ma non solo per te perciò non puoi disapprovarlo, non sarà forse il tuo teatro, ma è teatro per tanti altri come te. […] Non te la prendere piccola, non volevo offenderti, ma si è creata una tale atmosfera di snobbismo attorno a questo sacrario che chiamano teatro che certe volte mi pare che mi soffochi».

    Parte proprio da una simile considerazione anche il legislatore, che si spinge persino oltre: non solo, all’interno dell’arte cinematografica, non è possibile discriminare l’opera degna di tutela da quella indegna, sulla base di un indeterminabile valore artistico, ma, anche all’interno del più ampio genus delle opere intellettuali, tutelate dal diritto d’autore, quella cinematografica rappresenta un valore meritevole di protezione, in quanto espressione dell’individualità dell’artista, al pari di qualunque altra manifestazione del pensiero umano, realizzata attraverso forme artistiche diverse e più tradizionali, come la letteratura, la scultura, la pittura e la musica.

    Torniamo al requisito dell’individualità: esigerlo è essenziale a scongiurare l’imitazione servile, cioè la ripetizione parassitaria e pedissequa, che permetterebbe, a soggetti diversi dal titolare del diritto d’autore, di trarre un profitto dal risultato creativo che costituisce il valore incorporato nell’opera cinematografica.

    La contraffazione, avverso cui il titolare è protetto, può consistere in un illecito tanto commerciale quanto artistico. In altre parole, può trattarsi della diffusione non autorizzata di supporti, che incorporano l’opera protetta, e la violazione si verifica, allora, a livello della distribuzione; ma, talora, può trattarsi, invece, della realizzazione di una nuova e diversa opera, che, tuttavia, riposa completamente, in tutto o in alcune sue parti, sullo sforzo creativo compiuto dal primo autore. Mentre è piuttosto infrequente un appiattimento totale, altrettanto non può dirsi rispetto alla riproposizione di brevi frazioni dell’altrui creazione, che ammontano, così, a contraffazioni parziali.

    Le c.d. citazioni rientrano di certo nel perimetro del concesso, atteso che esse risultano spesso necessarie, per realizzare pienamente lo scopo di revisione critica o satirica che si prefigge il nuovo autore e ciò, in particolare, quando ad essere citate sono opere ormai assurte a vere e proprie icone del pensiero collettivo. Si pensi, in proposito, al fecondo filone di film demenziali che rileggono, in chiave comica e secondo un taglio individuale, alcuni capisaldi del cinema e della cultura, più in generale, o, similmente, alla geniale serie televisiva di cortometraggi animati de I Simpsons (inaugurata da Matt Groening nel 1989, dopo una prima apparizione già nel 1987), che non potrebbero essere tanto divertenti, senza essere graffianti come sono, nel rileggere con cinismo ed arguzia la società ed i suoi formanti espressivi. Nel più ristretto ambito del cinema horror, si consideri, poi, l’uso, quasi ossessivo, delle citazioni compiuto da Wes Craven, nel suo innovativo Scream (1996), allo scopo di reinterpretare in chiave critica alcuni topoi del cinema orrorifico di maggior successo, ammiccando allo spettatore in una riuscita miscela di paura e di comicità.

    Non sempre, però, la citazione è necessaria e legittima: quando l’opera citata è poco conosciuta e, soprattutto, la ripetizione è priva di alcun elemento di differenziazione, si realizza una vera e propria contraffazione, sia pure limitata. E, sebbene da un punto di vista giuridico ciò non abbia rilevanza particolare, la violazione sarà, di fatto, tanto più grave e riprovevole, quanto più successo ottenga l’autore successivo, attraverso il ricorso alla soluzione narrativa o visiva elaborata da un altro artista.

    Si potrebbe, al riguardo, obiettare che il carattere limitato ed isolato della citazione riduce notevolmente la portata dell’appropriazione dell’altrui valore. Eppure, ciò non sempre è vero. Una delle sequenze simbolo di Shining (1980) di Kubrick, forse, la più famosa, è quella in cui il personaggio interpretato da Jack Nicholson, impazzito, dilania a colpi di accetta la porta della camera, in cui si sono nascosti alla sua furia omicida la moglie ed il figlio, e, quindi, compare attraverso il varco che si è così creato. Questa soluzione cinematografica (che costituisce una deliberata deviazione dallo sviluppo narrativo del romanzo di Stephen King, nel quale, al posto dell’ascia, l’uomo brandisce una mazza da roque, che non avrebbe certo permesso la medesima resa) è caratterizzata da indubbio impatto visivo e da notevole suspense e risulta capace di rappresentare vividamente una crudeltà tanto pervicace, da non conoscere ravvedimenti o attenuazione, neppure a fronte di ostacoli apparentemente insuperabili, come una porta di solido legno. In realtà, però, la trovata in questione era stata già elaborata, con assai minor successo e fama, da Sjostrom, ne Il carretto fantasma (1921), opera muta di cinquantanove anni prima.

    Non si può negare che Kubrick sia stato uno dei più grandi registi di sempre, dotato di un talento e di un’ispirazione rarissimi, nonché di un’incredibile versatilità (che gli ha permesso di cimentarsi con immutati sensibilità e successo, in generi tra loro assai diversi, dal noir all’horror, dalla fantascienza allo storico, dal film di denuncia sociale a quello di introspezione psicoanalitica), ma va riconosciuto che una delle sue più celebri scene, quasi un marchio della sua attività di regia, è, in realtà, la pedissequa ripetizione dell’intuizione di un artista diverso.

    In simili casi, il titolare dei diritti sull’opera che viene derubata, a buon diritto, potrebbe inibire l’attività dell’autore successivo, senza che da questo derivi, peraltro, alcun detrimento per il pubblico, al quale quella particolare creazione visiva è già nota o, sarebbe meglio dire, disponibile. Traendo spunto da quest’ultima osservazione, occorre segnalare che, nella disciplina del diritto d’autore, come in quella di qualunque altra attività umana, non vengono in considerazione solo questioni giuridiche, ma anche di mero fatto: la trovata della porta presa a colpi di accetta non sarebbe stata condivisa da così tanti spettatori, se fosse rimasta impressa nella sola opera svedese, piuttosto di nicchia; quest’ultima, d’altra parte, sarebbe stata riscoperta con assai minor facilità, se oggi numerosi contributi critici, dedicati a Shining, non la citassero, a proposito appunto di quella sequenza. Forse, insomma, dove non arriva il diritto soccorre comunque la giustizia poetica!

    Il diritto esclusivo, poi, non si fa solamente scudo nei confronti delle contraffazioni, ma consente al titolare di estrarre altresì il valore della propria opera, incorporato in opere derivate, vale a dire quelle che compiono la trasposizione dell’opera originaria, da un genere artistico all’altro, esigendo dei compensi, quali corrispettivi dell’autorizzazione allo sfruttamento patrimoniale di quest’ultima, mediato attraverso quello delle opere derivate.

    L’opera derivata, però, a differenza di quella che imita servilmente, è dotata di un’autonoma individualità, manifestata nell’adattamento ad un differente linguaggio espressivo, ed è proprio in tali circostanze che emerge, con estrema chiarezza, la delicatezza della ricerca di un punto di equilibrio, tra l’esigenza di tutela dell’autore dell’opera originaria e le istanze creative degli autori posteriori.

    Si pensi alla celebre e travagliata vicenda di Nosferatu il vampiro (1922) di Murnau, rispetto alla quale la cronaca giudiziaria si mescola alla leggenda: il regista ha realizzato il proprio film, partendo dall’opera letteraria Dracula (1897) di Bram Stoker, ma, per non pagare ai successori dello scrittore il corrispettivo dell’autorizzazione, si è limitato a modificare i nomi delle località e dei personaggi originari. Murnau venne, dunque, convenuto davanti all’autorità giudiziaria dai titolari del diritto d’autore e condannato a bruciare tutte le copie della pellicola; egli, però, riuscì a scampare al rogo un esemplare, nascondendolo – si dice – sotto un listello di legno del pavimento di casa propria.

    In questo caso, il semplice appassionato ed il giurista più rigoroso non possono che concordare: fu una vera fortuna che il regista abbia, tanto astutamente, aggirato una sentenza, che fu, allora, come sarebbe anche oggi, inaccettabile, quanto meno dal punto di vista artistico.

    In nessun caso, nemmeno di fronte ad una palese violazione, la tutela di un autore può spingersi fino al punto di cancellare l’opera derivata altrui, perché, altrimenti, l’impoverimento del patrimonio artistico e culturale sarebbe una conseguenza tanto tragica quanto inevitabile.

    Il pubblico verrebbe, infatti, privato della ricchezza rappresentata dal carattere individuale dell’opera derivata, consistente, appunto, in una rivisitazione, anziché in una mera ripetizione, dell’opera originaria. Il Nosferatu di Murnau ebbe chiaramente il merito di essere riuscito a tradurre in immagini il clima di terrore ed il regno di ombre che Stoker aveva concepito sotto forma letteraria.

    E cosa dire a proposito del merito creativo di Brian De Palma, che concepì (e diresse) il piccolo capolavoro di culto, Il fantasma del palcoscenico (1974), ispirandosi chiaramente non ad una sola opera letteraria, bensì a tre distinte figure della tradizione: Il fantasma dell’opera (1910) di Leroux, Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde ed il Faust, personaggio della tradizione tedesca a cui sono dedicate l’opera teatrale di Marlowe, La tragica storia del Dottor Faustus (1600), ed il Faust (1790) di Goethe. Non si tratta, dunque, di una semplice opera derivata, ma più esattamente di una miscela complessa, che compie una radicale rilettura di arcinoti temi culturali, in una innovativa chiave rock! Sebbene, infatti, sia lampante il debito verso le citate opere letterarie e teatrali, ne Il fantasma del palcoscenico i motori della narrazione sono proprio la musica e, soprattutto, l’immagine: le sperimentazioni visive sono lampi di genialità, che svelano una confidenza, una disinvoltura ed una padronanza del mezzo di ripresa del tutto eccezionali. Il variegato posizionamento della macchina da presa, in punti dotati di un preciso significato narrativo, il ricorso alla tecnica della sovrapposizione, così da creare visioni cariche di significati allegorici, l’originalissima suddivisione dello schermo, la quale sarebbe poi diventata un espediente rappresentativo tipico di De Palma, sono i meriti, squisitamente cinematografici, dell’opera in questione. E De Palma, da vero cineasta, confonde i capisaldi della cultura europea più tradizionale con la nuova arte, quella filmica, attraverso esplicite citazioni: la parodia dell’omicidio della doccia in Psyco (1960) del modello Hitchcock, o l’omaggio all’estetica del Gabinetto del dott. Caligari (1920), nella scenografia che fa da sfondo al concerto. L’innovazione, peraltro, non è apprezzabile a livello esclusivamente visivo, perché l’autore dimostra altresì una notevole maestria ed un’indubbia padronanza del ritmo, coordinando e sottolineando le immagini con le note delle musiche di accompagnamento. È innegabile, quindi, che, pur trattandosi della trasposizione di materiale non (del tutto) originale, la componente cinematografica sia così significativa ed evidente, da costituire un valore autonomo, degno di una propria tutela.

    In una prospettiva puramente cinematografica e, sempre, in tema di opere derivate, si può poi pensare ai c.d. remake, per rendersi conto che, anche quando un autore espressamente manifesta l’intenzione di rifare un’opera altrui, questo, di per sé, non esclude la possibilità di ravvisare nell’opera susseguente un autonomo valore artistico al quale sarebbe costoso rinunciare.

    Pensiamo, in particolare, a due film di John Carpenter assolutamente originali dal punto di vista espressivo benché, più o meno dichiaratamente, ricalcati sulle creazioni di Howard Hawks. La Cosa (1982) riprende lo spunto de La cosa di un altro mondo (1951) di Christian Nybi (nel quale, tuttavia, è evidente lo zampino appunto di Hawks, che ne era produttore), al quale Carpenter aveva già tributato un omaggio in una scena del suo mitico Halloween (1979).

    Il raffronto tra le due versioni della stessa vicenda dimostra l’evoluzione generazionale del cinema horror: nell’opera di Nybi e di Hawks la paura è quella della diversità, evocata dagli spettri della guerra fredda e dall’imperscrutabilità delle scoperte scientifiche, mentre la riflessione riguarda i temi del conflitto tra diritto della cronaca e segretezza, tra evoluzione scientifica (ad ogni costo) e salvaguardia del genere umano come noi lo conosciamo; nell’opera di Carpenter, la tensione non ha dimensione collettiva, ma individuale, e cresce, mentre i personaggi cedono lentamente sotto il peso insostenibile della solitudine, a cui li spinge il reciproco sospetto. Questa differenza concettuale emerge anche dalla diversa natura attribuita all’alieno: un mastodonte dalle sembianze mostruose, per sopraffare il quale è necessaria l’unione di tutte le forze, ovvero un virus impercettibile, che genera ed accresce il sentimento di diffidenza che allontana gli individui, proprio come avviene nella società moderna.

    Ma Carpenter ha spinto oltre il concetto di remake in Distretto 13, le brigate della morte (1976). Quest’opera richiama anch’essa, sebbene in maniera molto meno evidente, un’opera di Hawks, nello specifico Un dollaro d’onore (1959). L’originalità del rifacimento però è palese: la vicenda del film western viene rivista in chiave notturno – metropolitana, realizzando una modernizzazione dell’eroismo, al centro dell’opera originaria, ed una contaminazione di generi.

    In entrambi i casi, siamo di fronte all’opera di un autore che non ha minimamente rinunciato ad elaborare un proprio stile individuale, pur avendo voluto confrontarsi con un artista che lo ha preceduto ed ispirato, applicando la propria arte alla medesima idea narrativa. Le opere di Carpenter, benché etichettabili come remake, non sono certo meno degne di tutela delle opere da cui derivano o di qualunque altro originale. L’originalità, in fondo, non si riduce alla vicenda, allo spunto narrativo, in una parola all’idea, ma piuttosto al suo trattamento. Il punto va approfondito; per il momento, però preme giungere ad una conclusione: la disciplina del diritto d’autore dovrebbe limitarsi ad espungere dal mercato le opere che perseguono un profitto a scapito dell’intuizione altrui, senza neppure elaborare un proprio linguaggio individuale, mentre la sua applicazione non dovrebbe condurre a soffocare la produzione di opere nuove ed originali, sebbene in debito verso altre e precedenti creazioni.

    In pratica, comunque, sussistono adeguate garanzie che ciò non accada. I diritti d’autore sono detenuti da pochi colossi, che possono, quindi, farsi reciproche concessioni o autorizzare un autore che orbiti sotto il loro controllo. Nel caso di autori indipendenti, d’altra parte, sono proprio i guadagni, che l’esclusiva è finalizzata a garantire, a consentire di far fronte al compenso dovuto al titolare dell’opera il cui valore artistico e commerciale viene parzialmente mutuato. È chiaro che anche queste considerazioni danno adito a talune preoccupazioni, prima tra tutte la possibilità delle principali case di produzione e di distribuzione di orientare eccessivamente la creazione di nuove opere, influenzando conseguentemente il pensiero sociale, che si forma e si sviluppa attraverso di esse.

    A garantire la libertà di pensiero e quella di critica ed a sviluppare la vitalità ed il pluralismo del dibattito pubblico è, peraltro, proprio uno dei principi cardine che reggono l’intera materia: la così detta dicotomia idea – espressione. Si tratta, cioè, di quella distinzione tra contenuto e trattamento cui si è accennato.

    In sostanza, una volta che un autore ha elaborato il proprio pensiero e lo ha fissato in una determinata forma, questa viene protetta in modo che nessun altro possa ripeterla, assumendosene i meriti e percependone i guadagni.

    Ma la precauzione non si spinge oltre.

    L’esclusiva non può così impedire ad altri individui di coltivare un analogo pensiero e di manifestarlo sotto una differente forma, né, tanto meno, di ripensare quanto espresso dai precedenti artisti, sottoponendone l’opera a revisione critica. Il diritto concesso all’autore di limitare ed inibire l’attività altrui incontra, dunque, un limite preciso: la sua proprietà intellettuale si riferisce alla forma espressiva e non all’idea espressa. Quest’ultima rimane a disposizione di chiunque, per essere affrontata da prospettive e da angolazioni differenti, e non potrebbe essere diversamente: troppo poche e, comunque, troppo preziose sono le idee, per poter consentire su di esse un monopolio.

    Occorre un esempio incisivo e soccorre quello della soluzione narrativa escogitata da Hitchcock per evitare il c.d. momento del frigorifero in Psyco.

    Egli scelse di concludere il film con la spiegazione di uno psichiatra "perché il pubblico ne aveva bisogno, altrimenti sarebbe rimasto con troppe questioni irrisolte. Ci saremmo messi nei guai al momento del frigorifero. Quando la gente torna a casa dopo essere stata al cinema, va ad aprire il frigo e tira fuori il pollo freddo. E mentre mangiucchia, parla del film. Il mattino dopo la moglie incontra la vicina di casa che le chiede: come era il film? E la moglie risponde: bello, però ci siamo accorti che c’erano degli errori".

    È chiaro che, se il regista inglese avesse potuto impedire a chiunque altro di ricorrere ad un simile escamotage, gli spettatori di Vestito per uccidere (1980) di De Palma, film che tratta di argomenti analoghi e non meno impegnativi, non avrebbero potuto mangiucchiare il loro pollo con altrettanta tranquillità!

    La libera appropriabilità delle idee è, in verità, una questione che ricorre anche altre volte nel rapporto tra l’attività creativa di Hitchcock e quella di De Palma: ci si rende, infatti, conto che il secondo regista, in qualche caso, altro non ha fatto, se non appunto utilizzare le stesse idee del primo, riarrangiandole però con sorprendente originalità.

    Ad esempio, Omicidio a luci rosse (1984) mescola le trovate portanti de La finestra sul cortile (1954) e de La donna che visse due volte (1958); dal primo, in particolare, mutua la trovata di ricollegare al voyeurismo del protagonista la scoperta di un omicidio, mentre dal secondo è ispirata l’idea di un falso amico che, per procurarsi un alibi in occasione dell’assassinio della moglie, approfitta dell’handicap del protagonista, di cui è a conoscenza, e provvede a sostituire la vittima con una donna seducente, che riesca a conturbarlo e confonderlo. Non si tratta, dunque, di un remake, perché non recupera una trama in particolare, ma attinge variamente alla vicenda di due opere differenti. Il debito, nondimeno, è evidente e l’analogia troppo sfacciata, per essere un tentativo di plagio mal riuscito: De Palma, piuttosto, ha apertamente impiegato il materiale di uno dei suoi modelli, per potervi applicare il proprio stile visivo e per dimostrare la capacità registica di dare comunque vita ad un’opera innegabilmente individuale. Insomma: stessa idea di partenza, ma rappresentazione, tecnica e sensibilità profondamente diverse.

    Ma l’esempio più evidente del fatto che la stessa idea di partenza può ricevere una lettura costantemente originale, attraverso opere distinte, ciascuna delle quali è degna di tutela, è costituito dai c.d. sequels, vale a dire i film che seguono un’opera capostipite, ponendosi in continuità narrativa con essa. La vicenda, affrontata nei capitoli successivi, evolve necessariamente dalla trovata di partenza, ma ciò non esclude che il suo sviluppo avvenga attraverso forme originali, che illuminano sulla possibilità di trattare un identico tema con taglio assolutamente personale. La sfida è notevole, tanto quanto lo è nei remake, poiché l’autore deve confrontarsi e superare l’impasse rappresentata dagli stretti vincoli narrativi imposti dall’opera capostipite e dall’esigenza commerciale di conservare il favore del pubblico, incorporato nei tratti distintivi essenziali di questa. La rottura creativa non è tuttavia impossibile. Aliens (1986) di James Cameron riesce a proseguire degnamente lo spunto offerto da Alien (1979) di Ridley Scott, senza perderne il fascino e la tensione, ma modellandola attraverso forme differenti: lo scarto si apprezza immediatamente poiché lo Sci-Fi Horror del primo è sostituito dall’Action movie del secondo. Cameron ha il merito, sin dall’ideazione del titolo, di non proporre la propria opera come semplice numero due, ma piuttosto come autonomo sviluppo dello spunto di grande successo offerto dal film di Scott. Proprio la diversità nei titoli è rivelatrice di una significativa differenza nella trama, a sua volta riflessa nello stile registico. Entrambe sono opere di fantascienza, ma a riprova che questa è solo un’ambientazione e non un genere, Alien ed Aliens si collocano entro due aree diverse, rispettivamente, quella dell’horror e quella dell’azione. Il primo è un

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