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Corto viaggio sentimentale
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E-book149 pagine2 ore

Corto viaggio sentimentale

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Info su questo ebook

Edizione integrale
Introduzione di Mario Lunetta

Un breve viaggio di lavoro è l’occasione che l’anziano signor Aghios attendeva da tempo.
Finalmente staccatosi dalla moglie, può concedersi di assaporare piccole, innocue promesse di libertà. Ma è una libertà che si sostanzia di sensazioni e di pensieri, più che di azioni concrete: il protagonista senile di questo piccolo capolavoro, rimasto incompiuto, è insieme affascinato e distante da ciò che vorrebbe afferrare. Tornano qui, in una forma esemplare ma rinnovata, i temi che furono cari a Svevo: il bisogno di vivere e l’incapacità di aderire al reale senza dolorose scissioni; l’idea dell’eros come trasgressione al sano comportamento borghese; l’influenza delle teorie psicoanalitiche.
Italo Svevo
(pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861. Fu il primo scrittore italiano a interessarsi alle teorie psicoanalitiche di Freud, che proprio allora cominciavano a diffondersi in Europa. Fu grande amico di Joyce, che lo fece conoscere a livello internazionale, e di Montale, che in Italia ne intuì per primo le eccezionali doti di narratore. Morì nel 1928. Di Svevo, la Newton Compton ha pubblicato La coscienza di Zeno, Senilità, Una vita, Corto viaggio sentimentale, I racconti e, nella collana “I Mammut” il volume unico Tutti i romanzi e i racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2014
ISBN9788854169609
Corto viaggio sentimentale
Autore

Italo Svevo

Italian writer, born in Trieste, then in the Austro-Hungarian Empire, in 1861, and most well known for the novel _La coscienza di Zeno_.

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    In feite een onafgewerkt reisverhaal, geschreven op het einde van Svevo's leven, 1928, en slechts gedeeltelijk door de auteur voor uitgave klaargemaakt. Spijtig, want indien afgewerkt was het werkelijk een pareltje geweest. Hoofdtoon: pessimisme over de menselijke relaties en de mogelijkheid tot echte communicatie, vriendschap en liefde.

Anteprima del libro

Corto viaggio sentimentale - Italo Svevo

496

Prima edizione ebook: aprile 2014

© 1991, 2014 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-6960-9

www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata da Gag srl

Italo Svevo

Corto viaggio

sentimentale

A cura di Mario Lunetta

Edizione integrale

Newton Compton editori

Introduzione a Italo Svevo

È indispensabile, accostandosi a Italo Svevo, non dimenticare la sua condizione di italiano suddito imperialregio: una condizione che lo appa­renta ad autori come Schnitzler, Hofmannsthal, Kafka, Musil, sia nella co­scienza della dissoluzione del gran corpo incoeso dello Stato austroungari­co che nella necessità di rispondere a questa dissoluzione, sul piano lettera­rio, con l’adozione di un sistema aperto di moti peristaltici e di forme de­putate alla corrosione critica degli statuti della narrativa realistica ottocen­tesca (1. fisionomia accertata del personaggio rispetto alla consistenza del teatro dell’azione; 2. monoassialità del rapporto scrittura-referente).

La molteplicità in qualche modo «pre-cubista» del punto di vista, la ra­refazione delle atmosfere che assumono la stessa centralità protagonistica dei personaggi, l’annullamento delle distanze di rispetto tra autore e mate­ria, infine le varie soluzioni tecniche legate al monologo interiore, al flusso di coscienza e alle associazioni di idee ritmate sul diagramma oscillante di psicologie che stanno scontando un’irrimediabile «perdita del centro»: so­no questi i caratteri che scandiscono i tempi di quella lunga veglia funebre truccata da fiera delle vanità che è la finis Austriae. L’italiano Italo Svevo ne è parte non solo in quanto Ettore Schmitz, ma in quanto intellettuale anche linguisticamente scisso, e individuo che aspira a un’unità spirituale sempre meno oggettivabile. Il diaframma tra animus e res si è assottigliato fin quasi a scomparire. Il quadro del mondo è il quadro della coscienza che ha smarrito le coordinate della totalità: è ormai un quadro schizofrenico, e non nutre illusioni palingenetiche o pretese di catarsi. L’ottimismo positi­vistico ha ceduto il passo alla percezione nevrotica della catastrofe.

L’imago della Belle Époque asburgico-borghese è simile a quella di Dorian Gray: è un’immagine doppia. Dentro la sua specularità si annida il se­greto sociale e culturale della propria perdizione. Chi ha la forza di guar­darla, non può farlo ormai che da viaggiatore prossimo al naufragio o da naufrago sulla zattera: dalla labile piattaforma della nostalgia o dal deser­to del nihilismo. Non ci sono dubbi sull’assai più ricca produttività della seconda soluzione: bastino per tutti i nomi di Musil e di Kafka, i cui «uo­mini senza qualità» esprimono soltanto il doppio paròdico dell’azione, in tutta la spettralità dell’Essere Borghese.

C’è chi sceglie come Schnitzler il sarcasmo irridente; e chi come Svevo la distanza elastica dell’ironia. Ma anche questa scelta (quanto si voglia obbligata) è il risultato di un tormentoso processo di autoappropria­zione: cioè, la conquista dell’unica forma di coscienza epocale, quella della scissione.

Fin dalle prime prove letterarie, Schmitz-Svevo dà segno di aver intra­preso un cammino di avanzata obliqua, per così dire, tutt’altro che in linea con la marcia dell’armata naturalistica. Quanto l’ideologia del naturalismo è omologa all’assetto dell’universo borghese che si gioca (e si danna) sulla finzione della propria scientificità/ineluttabilità, tanto l’atteggiamento di Svevo risulta «dilettantesco». È questa la sua scelta trasgressiva e vincente, a partire dalla sua preistoria di narratore. Nota acutamente Romano Luperini nel suo Novecento (Loescher, 1981): «Chi avrà salvaguardato dentro di sé il desiderio, chi non avrà tradito del tutto il principio di piacere, chi avrà mantenuto una disponibilità sino a rifiutare qualunque determinazio­ne, qualunque forma cristallizzata, potrà avere un futuro. In costui appun­to si identifica Svevo: questo è il senso del suo dilettantismo, del suo pren­dere di sbieco la vita».

Per capire dall’interno le ragioni di questo tracciato obliquo e il processo di sviluppo dell’arte sveviana fino ai suoi risultati più alti, è utile conside­rare certe prove minori e laterali, la cui relativa acerbità le assegna certa­mente alla preistoria della narrativa del triestino, ma che pure contengono in nuce tratti e componenti che si organizzeranno con una ricchezza e una profondità incomparabilmente più grandi nelle opere successive, e disegne­ranno la fisionomia inconfondibile dello scrittore.

Un momento quasi esemplare di questo tracciato che fatica a definirsi, impacciato com’è da una serie di elementi spurii e ritardanti rispetto a quello che si confermerà poi come il filone centrale della ricerca di Svevo, è costituito dal lungo racconto giovanile pubblicato nel 1890 nell’Indipendente, che segna l’esordio narrativo dello scrittore. Il romanzo Una vita uscirà due anni dopo, ma già questo testo del ventinovenne narratore rive­la certe sue inclinazioni e movenze discretamente caratterizzate.

Il titolo del racconto è L’assassinio di Via Belpoggio, e vi si narra la sto­ria di un facchino che uccide con una coltellata al cuore e poi deruba di una forte somma un occasionale compagno di sbornie. All’inizio la fa franca, ma in seguito la stretta del rimorso, l’incertezza e l’incapacità di as­sumere cinicamente il ruolo dell’innocente gli fanno commettere una tale quantità di errori da insospettire chi gli vive accanto, finché non viene arre­stato e confessa il delitto.

La cornice che inquadra il racconto è chiaramente naturalistica. Delle suggestioni che il «roman expérimental» di matrice zoliana e autori come Flaubert, Daudet, Gourmont esercitano in questo periodo sul giovane scrittore fa fede, tra l’altro, una nota di diario del fratello Elio in data 12 maggio 1881: «Ettore fa… nulla: legge, studia sempre, ed è sempre più fer­mo nell’idea di studiare e scrivere. Vive sognando commedie e lavori ora drammatici, ora romantici, che sulla carta non vengono mai a compimen­to. Ha ora cambiato alquanto partito in arte. È verista. Zola lo ha ricon­fermato nell’idea che lo scopo della commedia e l’interesse devono essere i caratteri e non l’azione. Tutto deve essere vero».

Se il progetto è zoliano, l’aria che circola dentro all’Assassinio di Via Belpoggio è tutt’affatto diversa, già inclinata sul versante dell’analisi e del­l’introspezione psicologica, tendente sia pure timidamente a suggerire un clima fluido, impalpabile, sottilmente soggettivo e perciò «aperto» rispetto alla concezione «chiusa» dell’oggettivismo naturalistico. Né estranee al­l’atmosfera del racconto risultano certe suggestioni del Dostoevskij di De­litto e castigo (Raskolnikov non compie anche lui una serie di «errori» do­po il delitto, pur se calcolati con rischiosa freddezza?) e addirittura, a pro­va ulteriore di una consonanza culturale e di un atteggiamento mentale in qualche misura propri a tutta la cultura mitteleuropea, certi brividi kafkia­ni avanti lettera (si veda, ad es., l’arresto dell’assassino da parte dei poli­ziotti, fissato in una luce di astrazione cruda e angosciosa).

L’analisi sveviana è appena agli albori, eppure funziona con una sua in­dubbia efficacia da elemento di disturbo e di frattura, da contraddizione attiva nel corpo della struttura naturalistica del testo. Se tale contraddizio­ne raggiungerà maggiore evidenza e maggiore scarto nel successivo roman­zo Una vita, già qui comunque la visione personale dello scrittore si avver­te senza equivoci in certi momenti di riflessione e di scavo interiore. Ecco perché per alcuni versi L’assassinio di Via Belpoggio non solo preannuncia certe linee di sviluppo della successiva ricerca di Svevo, ma tende a trasbordare fuori dal solco naturalistico, dall’oggettivismo della «tranche de vie», realizzandosi con l’immersione della vicenda in un clima già pregno di im­ponderabili ragioni individuali, per via di segmenti apparentemente spez­zati, di un reticolato complicato e sottile di nessi psicologici, di nevrosi ac­cennate, di censure e amputazioni, caratteristici della letteratura (e dell’uo­mo «straniero» nel mondo) del secolo scorso.

In una pagina del 1927 Svevo scrive: «L’immaginazione è una vera av­ventura. Guardati dall’annotarla troppo presto perché la rendi quadrata e poco adattabile al tuo quadro. Deve restare fluida come la vita stessa che è e diviene». A questa consapevolezza si è ispirato l’intero percorso della ri­cerca sveviana. La percezione acutissima di ciò che vibra dentro questa fluidità è la sua forza e il carattere primario della sua cifra. Osserva esatta­mente Franco Petroni in una sua monografia recente che il «dilettantismo» di Svevo è il tentativo sempre rinnovantesi «di mantenere un incerto punto di equilibrio tra principio di realtà e principio del piacere, tra doveri impo­sti e desiderio. La letteratura è, per Svevo, uno strumento insostituibile per mantenere il punto di equilibrio. Da alcuni suoi scritti, che non hanno al­cuna pretesa teorica, è ricavabile una poetica che sotto l’aspetto dimesso cela una profonda originalità, anzi un modo rivoluzionario di intendere la funzione della letteratura. Questa è considerata infatti non come mezzo per dare espressione a dei miti collettivi, sublimando e celando, attraverso la forma, le contraddizioni che esistono in seno a una collettività e che si ri­flettono sulla psiche dell’individuo, ma piuttosto come strumento terapeu­tico individuale, che funziona mediante una continua e capillare presa di coscienza. La letteratura è, in questo senso, uno strumento insostituibile di igiene».

Una vita è il primo passaggio obbligato per entrare nell’area «avventuro­sa» di questa presa di coscienza. I suoi risultati sul piano espressivo posso­no essere diseguali, ma il romanzo resta, nella storia di Svevo, un momen­to fondamentale: la zona di minor resistenza in cui si esprime la sua crisi. Alfonso Nitti è il primo degli «inetti» sveviani: una sorta di archetipo de­bole, di sinopia macerata. La sua è più che altro una forma cava in poten­za che reclama il corpo che la incarni in atto. In Senilità (1898) l’incarna­zione è avvenuta: Svevo conosce se stesso. In un certo senso, il suo destino di scrittore è segnato: e correrà in rotta di collisione nei confronti di ciò che si chiama successo, fino al 1925. Scrive con la consueta acutezza Giacomo Debenedetti nel Romanzo del Novecento: «Nel 1925 e negli anni successivi la critica e il pubblico (meno il pubblico, però, che la critica) si accorgono che Svevo è un romanziere di importanza eccezionale. La domanda più ov­via è: perché prima di allora non se ne erano resi conto? La risposta più ov­via, dal nostro punto di vista, è che Svevo, coi suoi romanzi, presenta l’im­magine dell’uomo che la nuova narrativa cerca e persegue; che anche i suoi romanzi, come tutti i romanzi moderni, sono romanzi interrogativi. Inter­rogano per cercare, forse invano, di sapere il significato della vita, il senso del destino di un uomo dissociato, dilacerato. Forse parrà banale, ma è ne­cessario, soggiungere che formulare più o meno distintamente una doman­da non vuol dire promettere o far sapere una risposta. L’idea che porre un problema sia già risolverlo è tipica degli uomini e delle età ottimistiche (una simile idea, per esempio, era molto cara a Benedetto Croce. Ma il Croce, per l’appunto, era un ottimista, sia pure nel modo più complesso e meno ingenuo). Il romanzo interrogativo, anche in Svevo, è quello che af­faccia, e lascia aperto nella sua drammatica problematicità, il problema di trovare il senso di ciò che si vede».

Non è certo un caso che chi fa questa analisi tanto puntuale e suggestiva sia l’autore di Amedeo (1926), un racconto al cui centro vive un protagoni­sta che «finiva coll’affidarsi alla coscienza di una generica superiorità, di­fendendosi da ogni urto esteriore con una specie di solitudine ascetica; so­stenuta peraltro dalla tragica civetteria di volersi far notare dai circostanti come ribellione per una virtù disconosciuta ovvero minaccioso silenzio ca­rico d’avvenire». Ha precisamente notato Enrico Ghidetti che «una analo­ga sintomatologia […] aveva afflitto, anni prima, Emilio Brentani». Bren­tani, appunto, il piccolo borghese protagonista di Senilità con velleità di scrittore; l’uomo d’ordine che flirta cautamente con idee filosocialiste tan­to generiche quanto episodiche; colui, infine, che «sceglie» per manco di vitalità di appassire come appassisce un vegetale anziché difendere i diritti del proprio desiderio. Tra la chiarezza geometrica della sconfitta di Emilio e l’ambiguità della sconfitta del protagonista di Una vita (che pure conte­neva in sé un tasso non trascurabile di conflittualità e di opposizione al do­minante

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