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Archeologie del dispositivo: Regimi scopici della letteratura
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E-book130 pagine1 ora

Archeologie del dispositivo: Regimi scopici della letteratura

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La cultura visuale contemporanea è interessata a uno studio contestuale delle immagini, dei media che le producono e riproducono e degli sguardi che su di esse si posano. In quest’ottica, il presente saggio procede a uno studio comparato di discorso letterario e visuale, cercando di individuare le profonde trasformazioni che immagini, dispositivi e sguardi hanno prodottto sulla scrittura letteraria, sia dal punto di vista tematologico sia da quello formale. Lo studio delle trasformazioni e delle sovrapposizioni dei regimi scopici dal XVIII al XX secolo si rivela così uno strumento ermeneutico indispensabile per comprendere la letteratura nel contesto più ampio della comunicazione artistica.
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2016
ISBN9788868223984
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    Anteprima del libro

    Archeologie del dispositivo - Michele Cometa

    Paesi.

    RINGRAZIAMENTI

    Questo saggio nasce nell’ambito di una ricerca da me diretta dal titolo Letteratura e dispositivi della visione (PRIN – Programmi di ricerca di rilevante interesse nazionale, 2005) e che ha coinvolto le Università di Palermo, dell’Aquila e di Bologna.

    Roberta Coglitore, Valeria Cammarata e Valentina Mignano, componenti dell’unità di ricerca palermitana, hanno condiviso e discusso con me tutte le parti di questo lavoro e per questo le ringrazio.

    Con gli amici e colleghi Hans Belting, Philippe Hamon, W. J. T. Mitchell, Andrea Pinotti, Stefano Poggi, Ulrich Stadler, ho avuto modo di discutere, in varie occasioni, alcune delle tesi sostenute e da queste conversazioni e ancor più dai loro scritti molto ho imparato. Sono anche grato a Carlo Altini, Elena Agazzi, Francesco Fiorentino, Lucia Mor, Domenico Mugnolo e Bernd Witte per avermi invitato a discutere le tesi qui presentate.

    Un particolare ringraziamento va a Alain Montandon che ha condiviso con me il percorso che ha portato alla stesura a quattro mani del libro Vedere. Lo sguardo di E. T. A. Hoffmann, parte integrante delle riflessioni qui esposte.

    Sono infine grato a Roberto De Gaetano che ha visto tra queste pagine dedicate alla letteratura qualcosa di utile per la storia e la teoria del cinema.

    Questo libro è dedicato a Francesco Casetti, per quello che è evidente e per quello che non appare.

    New York, gennaio 2016

    I. CULTURA VISUALE E LETTERATURA

    La ricerca sugli intrecci tra letteratura e cultura visuale ha ormai una consolidata tradizione internazionale e notevoli ricadute anche in Italia. In particolare, negli ultimi decenni del Novecento si è assistito a una ripresa del dibattito sulla reciproca illuminazione tra le arti[1], stimolato ovviamente dal ruolo sempre crescente che le immagini hanno per la letteratura (la questione dell’ékphrasis, ma anche le ricerche sull’intrinseca figuratività letteraria)[2], nella letteratura (le questioni poste da produzioni esplicitamente intermediali)[3] e nel sistema-letteratura (distribuzione, circolazione, ricezione dei testi e delle immagini).

    Su questa consolidata e fertile tradizione di studi si innesta oggi, almeno a partire dal celebre Visual Culture Questionnaire apparso sulla rivista October nel 1996, una considerevole tradizione disciplinare che coniuga studio delle letterature (con forte prevalenza degli approcci comparatistici e transnazionali), della visualità e delle tecnologie della visione (dalla camera oscura al panorama, dalla fotografia al cinema, dalle immagini digitali alla videoart).

    La cultura visuale contemporanea è per altro interessata a uno studio contestuale delle immagini, dei mezzi che le producono (tipicamente i media, ma anche i dispositivi della visione più tradizionali) e delle forme della loro ricezione (lo sguardo individuale e collettivo). In quest’ottica, lo studio comparato di alfabetizzazione letteraria e alfabetizzazione visuale può contribuire a ribadire il ruolo della letteratura nella costituzione dei paradigmi interpretativi della società in cui viviamo, non isolandola dal contesto più ampio e fecondo dello studio delle culture e della comunicazione.

    Nelle pagine che seguono cercherò perciò di delineare un ambito di ricerca che negli ultimi anni ha impegnato studiosi interessati a ridefinire i confini di campi disciplinari da sempre in stretta collaborazione – come la storia dell’arte e la storia letteraria – ma che si sono via via emancipati dai loro apparati canonici[4], sia sul piano degli oggetti che sul piano dei metodi. A contatto con una disciplina che ormai si è universalmente affermata e va sotto il nome di cultura visuale (Visual Culture) gli studi letterari hanno ampliato il loro originario territorio d’indagine affrontando non solo, come sempre in passato, la questione del rapporto tra verbale e visuale, ma anche sustanziando questo intreccio con un’approfondita interrogazione sul significato che per la letteratura possono avere i dispositivi della visione[5] e, più in generale, i media visuali.

    Naturalmente per intrecciare ambiti disciplinari differenti è necessario dare seguito al celebre monito di Roland Barthes quando questi metteva in guardia da una stucchevole applicazione del principio di interdisciplinarietà: per fare dell’interdisciplinarietà non basta prendere un soggetto (un tema) e intorno a esso chiamare a raccolta due o tre scienze. L’interdisciplinarietà consiste nel creare un oggetto nuovo, che non appartenga a nessuno[6].

    È questo il caso di un oggetto di ricerca che si è costituito grazie alla collaborazione tra le avanguardie più coraggiose della storia dell’arte, una mediologia che ha abbandonato le semplificazioni teoriche delle magnifiche sorti e progressive della tecnologia, e una teoria letteraria che ha riconosciuto nella storia della cultura (anche tecnologica) un modo per studiare i contenuti della scrittura letteraria ma soprattutto – come cercherò di argomentare nelle pagine che seguono – le sue forme, le sue grammatiche profonde.

    Il nuovo oggetto che emerge da questo intreccio di discipline è la nozione di regime scopico[7].

    Maturata all’interno degli studi sul cinema di Christian Metz e poi ripresa da Martin Jay, la nozione di regime scopico consente di declinare contestualmente un’analisi delle immagini – così come esse vengono concepite nel contesto del cosiddetto pictorial turn o iconic turn[8], lo studio dei dispositivi della visione, nonché una considerazione – fatta sulla scorta dei più recenti studi culturali – dell’intreccio inscindibile tra sguardi e corpi[9].

    Non a caso icona indiscussa della cultura visuale contemporanea è diventata la celebre incisione di Albrecht Dürer intitolata Il disegnatore della donna sdraiata (1525 ca.)[10] dove lo sguardo di un disegnatore inquadra il corpo fortemente sessuato di una modella attraverso un albertiano dispositivo prospettico.

    Dispositivo, immagine e sguardo entrano in questa immagine di Dürer in una relazione che emblematicamente ci restituisce le preoccupazioni principali di questo nuovo campo di studi.

    Fig. 1 A. Dürer, Il disegnatore e la modella, Norimberga 1538.

    Martin Jay ha ovviamente messo in guardia dal possibile riduzionismo che la nozione di regime scopico può comportare, insistendo sul fatto che ogni regime, per esempio il regime della prospettiva, piuttosto che segnare il trionfo di un tipo di visualità in realtà va interpretato come il terreno di un confronto («a contested terrain») in cui entrano in contatto, spesso con effetti sociali parecchio invasivi, diverse subculture visuali. Jay è ben consapevole, di conseguenza, che persino i tre regimi scopici che hanno determinato la visualità occidentale, il prospettivismo cartesiano, il descrittivismo baconiano – che Svetlana Alpers ha attribuito alla pittura fiamminga del XVII secolo – e la visione barocca, possono essere ulteriormente scomposti in culture visuali localizzate sia temporalmente sia geograficamente[11].

    L’ipotesi di ricerca da cui muovono queste pagine affida alla letteratura proprio questo lavoro di dettaglio e di differenziazione all’interno dei grandi regimi scopici occidentali, concentrandosi su regioni e tempi che altrimenti rischiano di sfuggire alle storie culturali a volo d’uccello. Il testo letterario ovviamente si presta a questo lavoro micrologico, ma soprattutto offre, grazie alla propria natura narrativa, la possibilità di oggettivare questa complessità rendendola visibile in quanto tale.

    Alla letteratura è anzi affidato il compito di mettere in scena proprio i conflitti tra i regimi scopici – quale che sia la loro entità – e ciò avviene, come vedremo, sia segnalando forme di visualità, dispositivi della visione, sguardi differenti, sia incorporando nella propria struttura tali elementi, mostrando insomma omologie strutturali – un termine di Lucien Goldmann che ci pare opportuno richiamare in questo contesto di studi socio-letterari[12] – tra testo letterario e dispositivi della visione.

    Cosa definisce, dunque, un regime scopico?

    Manca ancora una definizione condivisa tra chi si occupa di cultura visuale. Tuttavia non è difficile individuare alcune posizioni convergenti,

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