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Cinema, Pensiero, Vita. Conversazioni con fata morgana
Cinema, Pensiero, Vita. Conversazioni con fata morgana
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E-book471 pagine5 ore

Cinema, Pensiero, Vita. Conversazioni con fata morgana

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Info su questo ebook

24 conversazioni apparse su Fata Morgana con grandi figure della contemporaneità, studiosi e artisti che parlano del cinema facendone un luogo del pensiero e una forma di vita. Un viaggio in cui il cinema e l’immagine, più di ogni altra forma d’arte, si riscoprono indissolubilmente legati alla complessità del nostro presente. Per la prima volta riunite e tradotte in inglese in un’unica pubblicazione, queste conversazioni offrono al lettore una costellazione unica di autori e temi per pensare il cinema a partire dal nostro presente e viceversa.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2016
ISBN9788868224646
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    Anteprima del libro

    Cinema, Pensiero, Vita. Conversazioni con fata morgana - Paolo Jedlowski

    CINEMA, PENSIERO, VITA

    Conversazioni con Fata Morgana

    a cura di

    Roberto De Gaetano e Francesco Ceraolo

    Frontiere. Oltre il cinema

    Direttore Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni,

    Pietro Montani, Dork Zabunyan

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2016

    Isbn: 978-88-6822-464-6

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione

    Il fuori del cinema

    Esistono riviste di scritture e riviste di discorsi: le prime si fondano sulla firma dell’autore indipendentemente dal tema, le seconde sulla costruzione del discorso indipendentemente dall’autore. Nel primo caso è il nome proprio di chi lascia il segno a contare, nel secondo è il campo di discorsività e il rapporto tra i discorsi a determinare il carattere proprio della rivista. Un modello per le riviste di scritture è Roland Barthes, per quelle di discorsi Michel Foucault.

    Quale che sia la forma della rivista, essa prende corpo nel gesto tracciato all’atto della sua fondazione e che, se la rivista è vitale, viene ripreso in ogni nuovo numero.

    Fata Morgana, nata nel 2006, compie dieci anni e, partendo dal numero zero dedicato a Bíos, giunge al suo trentesimo numero dedicato a Italia.

    Il gesto tracciato da Fata Morgana, che ha costruito, intorno a numeri totalmente monografici, un nuovo campo discorsivo, è definito dal rapporto fra immagini in movimento e concetti. Questi ultimi non derivano né dal cinema né dall’estetica, ma dalla vita e dalle sue forme: dall’urgenza del presente.

    Dopo L’immagine-movimento e L’immagine-tempo di Deleuze, il cinema non è più la messa in forma estetica del reale, ma è sia direttamente sia analogicamente la configurazione sensibile del reale stesso, del mondo, la composizione di «blocchi di movimento-durata». E dunque pensare il cinema significa in un certo senso starne continuamente fuori (stare nel mondo) per meglio rimanerne dentro.

    Quando Pier Paolo Pasolini ha parlato del cinema come «lingua scritta della realtà», e come lingua della prassi, non intendeva semplicemente assumere una posizione naïf che non riconosceva al cinema alcuna dimensione espressiva, tutt’altro. Prendeva invece una posizione netta e controcorrente in quegli anni dominati dalla semiotica, sostenendo che il cinema è la dimensione espressiva della realtà stessa, la quale non esiste al di fuori di tale espressione. E Gilles Deleuze radicalizzerà, anni dopo, questa posizione, riprendendo il Bergson di Materia e memoria e, riconoscendo all’immagine identità ontologica con la materia, ci riconsegnerà il cinema come espressione totale della realtà, nella sua attualità e virtualità. Realtà che non esiste dunque al di fuori di questo suo esprimersi, che diventa un modo d’essere della realtà stessa. I concetti, come materiale primo del discorso filosofico, diventano allora la via d’accesso per quei «blocchi di movimento-durata», che sono il modo in cui il cinema capta ed esprime il reale. L’incontro/scontro del concetto e dell’immagine diventa il modo di costruzione di un nuovo campo di discorsività sul cinema e la contemporaneità.

    Fata Morgana ha rilanciato questo gesto di esteriorizzazione del cinema, l’ha orientato aprendo un campo di discorsività segnato da concetti quali Mondo e Archivio, Trasparenza ed Esperienza, Limite e Natura, Desiderio e Visuale, Disaccordo e Sacro, Territorio ed Emozione, Potenza e Autoritratto, Origine e Comune, Reale e Memoria, Dispositivo e Teoria, Cosa e Mito ecc., a partire dai quali pensare l’universalità del cinema e la singolarità dei film.

    E intorno al campo aperto da ogni numero, la rivista ha fatto convergere discorsi diversi, svincolati da ogni steccato disciplinare, animati solo dal desiderio e dalla forza di costruire un discorso capace di pensare altrimenti il cinema, riconsegnandolo al suo fuori, dove da sempre è stato. Il fuori del cinema è di fatto il suo dentro.

    E chiudere così con la contrapposizione sterile di specificità e non-specificità, del cinema e dei suoi discorsi. Il cinema può e deve essere pensato nella sua specificità non specifica, a partire dal modo specifico in cui parla di qualcosa di non specifico (la vita, il mondo, le cose).

    È in quest’ottica e con questa prospettiva che ogni singolo numero è aperto con la conversazione con uno studioso o un artista, sul tema e sul cinema, sul tema a partire dal cinema e viceversa. Qui raccolte e tradotte sono alcune delle grandi conversazioni che Fata Morgana ha fatto in questi anni con studiosi e registi: da Esposito a Nancy, da Gianikian e Ricci Lucchi a Comolli, da Bressane ad Herzog, da Žižek a Didi-Huberman, da Rancière a Schrader, da Ruiz a Freedberg, da Bellocchio a Martone, dalla Kristeva a Reitz, da Gitai a Tsukamoto, da Servillo a Casetti. Le conversazioni non compongono solo un discorso continuo sul cinema, ma anche sul mondo presente, o meglio sul modo in cui il cinema ce l’ha raccontato, ne ha fatto parte, ha contribuito a formarlo. E nel fare questo, nel riversarsi costantemente fuori, i discorsi sono stati capaci di tornare sempre dentro, in uno stesso continuo movimento che definisce il carattere specifico di Fata Morgana.

    La conversazione è solo il momento d’apertura di ogni numero, che procede con saggi di ampio respiro, per poi proseguire con una terza parte dedicata ai discorsi su singoli film, sequenze, immagini. Questi tre momenti articolano uno stesso movimento e differenziano un medesimo piano, identificato dal concetto. E ogni numero ha anche l’ambizione di essere elemento di una grande composizione aperta ma unitaria (che include i numeri già usciti, quelli programmati e quelli futuri), che definisce una cartografia delle immagini e dei concetti del presente. Cartografia segnata da un desiderio e da una idea, quella di concepire il cinema come una forma di vita, e dunque come una pratica, una sensibilità, una credenza, un pensiero.

    Roberto De Gaetano

    Direttore di Fata Morgana

    Roberto Esposito 

    Aprire un orizzonte su ciò che è negato[1]

    a cura di

    Roberto De Gaetano, Daniele Dottorini, Bruno Roberti

    Iniziamo con la presentazione della nozione di bíos: perché, secondo te, è diventata centrale nel dibattito contemporaneo, a cosa è dovuta la sua centralità?

    La nozione di bíos, in sé, è una nozione antichissima, aristotelica. Il momento culminante del rapporto tra bíos e sapere si è avuto agli inizi dell’Ottocento quando è nata la biologia. Successivamente, nel Novecento, quella che è andata crescendo è la connessione tra il tema della vita e altri linguaggi, in particolare il linguaggio della politica. Oggi c’è anche una forte componente bioetica, si parla ad esempio di biodiritto o di biotecnologia; insomma, la vita, la nozione di vita e l’esperienza della vita biologica si sono accampate nel cuore, sia del sapere, sia delle pratiche dell’esperienza contemporanea. Perché ciò è accaduto, perché soprattutto oggi assistiamo a questo fenomeno? Perché sono venute a cadere – all’inizio un po’ alla volta e poi di schianto – le grandi mediazioni – istituzionali, culturali, categoriali – che costituivano la struttura del sapere-potere moderno, quindi la mediazione del diritto, la mediazione delle rappresentanze politiche. Quando tutto questo – sotto la spinta dei grandi fenomeni di globalizzazione, quindi la crisi degli stati sovrani e dei diritti sovrani – è esploso, ecco che politica e vita si sono, come dire, toccate. Sono venute meno le grandi mediazioni moderne; anche rispetto alla tecnica, naturalmente, che costituisce un altro grande tema.

    Il tema del tuo libro, Bíos, mi sembra che possa essere declinato in relazione al concetto del dispositivo-cinema come macchina di sapere e anche come macchina di potere nel Novecento. Tu parli dell’estremizzazione della categoria di immunità e della sua inversione verso l’autoimmunità, vale a dire che, quanto più la vita viene protetta tanto più questo meccanismo di protezione, quindi di immunità, si estremizza, si rovescia, diventa autoimmune. C’è un rapporto tra il lavoro della morte e il cinema che viene messo in luce da Bazin prima (quando dice che il cinema è un dispositivo che non può filmare la morte), e poi sintetizzato in una frase di Cocteau per il quale il cinema è «il lavoro della morte ventiquattro fotogrammi al secondo». Nello stesso tempo, il cinema mantiene anche l’idea di un dispositivo che conserva, preserva la vita, rende in qualche modo immortale l’apparenza della vita, e nello stesso tempo vampirizza, succhia vita e quindi in qualche modo è un dispositivo che nel momento in cui conserva, distrugge. Leggendo soprattutto gli ultimi due capitoli, ho pensato che il dispositivo del cinema di per sé sarebbe analogo a un dispositivo totalitario, nel senso che è un dispositivo che salva la vita nel momento stesso in cui la distrugge. Vorrei sapere cosa ne pensi.

    Intanto, sono molto coinvolto da questo tema, per quanto io non sia un esperto di cinema, e sono anche stato colpito dalla frase che hai detto prima relativamente ai ventiquattro fotogrammi al secondo. Qualcosa che mi viene in mente: anzitutto si potrebbe dire, per esempio, che un altro apparato che rende immortale ma insieme vampirizza è il museo, nel senso che preserva dal tempo ma nello stesso tempo blocca, fissa, immobilizza. In secondo luogo, l’occhio interno dell’uomo è incapace di vedere la morte, quanto meno la propria morte. Questo è un grande tema filosofico: che l’uomo pur essendo, come dice Heidegger, un «essere per la morte», tuttavia non può né vedere né addirittura pensare la propria morte. Tra il soggetto e la morte c’è una congiunzione fortissima, il soggetto è per la morte ma ha anche uno schermo che ne blocca la visibilità.

    Tra l’altro Bazin, quando parla di ontologia del cinema, insiste proprio sul fatto dell’occhio che non può vedere la morte…

    Il terzo elemento forse più esterno, più da riferimento sociologico, è il fatto che il totalitarismo – e uso questo termine per intenderci, perché io non amo usare l’espressione totalitarismo che assimila esperienze come nazismo e comunismo che sono molto diverse tra loro –, tutti i totalitarismi, hanno dato un rilievo particolare al cinema all’interno dell’apparato pubblicitario, di propaganda. Una connessione tra cinema e totalitarismo c’è sia sul piano esterno sociologico, sia sul piano effettivamente interno. L’ultimo riferimento che mi viene in mente – per esaurire questa costellazione – è il panopticon. In fondo, la macchina da presa è come un panopticon che guarda senza essere guardato, è uno strumento di controllo e, in ultima analisi, di morte, perché blocca e fissa.

    Riprendo una tua frase: «Il modo che la vita ha di difendersi dalla morte non è quello di conservarsi tale (paradigma immunitario) bensì di rinascere in guise diverse (paradigma generativo)». Mi viene in mente un saggio degli anni cinquanta di Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, nel quale Morin attribuisce al cinema due capacità, vale a dire due modi di sfidare la morte. Uno attraverso la costruzione di doppi, esattamente quello a cui si faceva riferimento prima parlando di Bazin: io duplico la realtà, la preservo, e allo stesso tempo la immobilizzo; preservandola la uccido. L’altro modo invece vede il cinema non soltanto costruito sul doppio, sull’immobilizzazione di un reale dato come preesistente, ma sul principio di metamorfosi, perché sullo schermo le immagini si avvicendano, si accavallano, si susseguono. Ed è un principio, da questo punto di vista, generativo: un’immagine muore e ne nasce un’altra; è un meccanismo di morte e rinascita. Allora, mi viene in mente che la macchina cinematografica può imporre da un lato questo modello, questo paradigma immunitario a cui tu fai riferimento, ma dall’altro presenta anche questa sorta di paradigma generativo, dato appunto dall’avvicendamento costante di immagini sullo schermo, per cui una muore e l’altra rinasce.

    Sì. Mi viene in mente, per tornare alle categorie fondative del mio lavoro degli ultimi 10-15 anni, l’idea di immunitas e l’idea di communitas, che sono l’una il rovescio dell’altra. Probabilmente, se il paradigma immunitario è quello dello sdoppiamento e della sovrapposizione, il paradigma della comunità è quello dell’esposizione. La comunità è ciò che espone ciascuno all’alterità e quindi lo espropria, lo mette fuori, è un meccanismo di esteriorizzazione. E il cinema si potrebbe dire si colloca esattamente nel punto di confine tra questi due paradigmi, perché da un lato uccide, sdoppia e presuppone, dall’altro, però, espone attraverso questo movimento continuo di metamorfosi. Il tema della nascita io lo ricavavo proprio dal rovesciamento dell’apparato omicida nazista che punta a uccidere la vita nel suo stato nascente (la sterilizzazione, le forme tese a prevenire la nascita). Il diritto del nazismo è questo: io non faccio più nascere certe persone. Quindi naturalmente il discorso sulla nascita mi interessa in contrapposizione a questo blocco del nazismo e anche perché fenomeno biologico. Anzi, è fenomeno biologico che conferma il carattere protettivo e di muro del paradigma immunitario: nella nascita il dispositivo immunitario della madre si apre a questa presenza esterna del figlio, è un elemento di complicazione e di apertura comunitaria, è un uno che si sdoppia in due.

    Rimanendo su questo aspetto, nel capitolo sulla tanatopolitica tu citi espressamente tre testi letterari, scritti a poca distanza l’uno dall’altro, che sono Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, Il ritratto di Dorian Gray e Dracula. Mi hanno colpito perché questi tre testi, insieme a un quarto che tu non citi ma che forse potrebbe entrare nel discorso, Frankenstein di Mary Shelley, sono stati visti, all’interno delle teorie del cinema, come sorta di figure estetiche anticipatrici del cinema. E tu riconosci proprio il carattere di anticipazione che questi testi hanno avuto rispetto poi a una pratica politica che si è invece sviluppata nel Novecento. Rimanendo all’interno di questo ambito, mi viene da pensare anche che, ad esempio, il cinema tedesco degli anni venti, nel decennio precedente all’avvento di Hitler, è stato costellato, disseminato di figure che direttamente rimandano a quei testi di cui accennavo sopra. Ti volevo chiedere se, questo parallelismo di temi e figure possa entrare in rapporto con quella che poi è stata la produzione di una «estetizzazione della politica», riprendendo la frase benjaminiana: se il nazismo, cioè, abbia attinto ad una serie di immagini già presenti per costruire in qualche modo questo sistema, o se, quella che era una situazione così diffusa, che quindi aveva delle radici molto profonde nella società e nella cultura del tempo, sia stata in qualche modo assunta dal nazismo, trasformata e poi riutilizzata.

    Sì, diciamo che «estetizzazione della politica» e «politicizzazione dell’arte» sono state le due grandi parole d’ordine su cui si è costruito il rapporto tra potere e immaginario del nazismo, da un lato, e del comunismo stalinista, dall’altro. Sicuramente c’è una connessione tra potere dispotico, potere totalitario e immagine. Esiste in particolare un saggio di Nancy e Lacoue-Labarthe (Il mito Nazi) che interpreta il nazismo da un punto di vista di una estetica politica, cercandone le radici nel primo romanticismo. Il nazismo si produce creando figure, è una figurazione e un’autofigurazione. Tutto questo lo trovo importante. Nella mia lettura, in particolare, al tema dell’immagine io ho sovrapposto il tema del corpo, perché altrimenti una lettura tutta fondata sull’immagine potrebbe far perdere l’elemento corporeo che è stato molto forte nel nazismo, appunto secondo quello che cerco di dire in particolare nel quarto capitolo. Addirittura il nazismo come raddoppiamento del corpo: l’anima è ciò che tiene insieme il corpo, l’anima è il sangue per il nazismo. Quindi, certo, il tema dell’immagine, però senza trascurare il tema della zoé, cioè del rapporto corpo-sangue-organismo. Tant’è che quando Deleuze parla del corpo senza organi vuole proprio destrutturare e ricostruire questa macchina corporea. Io trovo che sia il tema della carne il rovescio di tutto ciò. Sul tema dell’immagine voglio rifletterci perché effettivamente non l’ho fatto abbastanza. Dracula da questo punto di vista è straordinario, perché Dracula è l’ebreo, cioè colui che contagia, che fa circolare sangue impuro, viene dalla Transilvania dentro le metropoli. È proprio l’ebreo che viene poi crocifisso. Quindi si tratta di un rapporto evidente, fortissimo con quel cinema a cui facevi riferimento.

    Per riprendere una frase di André S. Labarthe, «Rovesciamenti, trasfusioni, montaggio: il cinema o sarà vampiresco o non sarà affatto».

    Ritorna qui quello che si diceva prima a proposito del doppio e del cinema…

    Quel momento particolare in cui tu rifletti su questi tre romanzi nasce da una riflessione sul concetto di degenerazione. Questo concetto di degenerazione – tu dici – può essere rovesciato nel suo dato trasformativo e quindi germinativo. Tu dici che la degenerazione – una cosa su cui aveva riflettuto anche Nietzsche – ha una capacità di trasformazione e di mutazione positiva e vitale. La degenerazione – dici – ha come una nervatura estetica, cioè il processo di degenerazione è innervato.

    Tant’è che il degenerato tipico, per Nordau, è l’artista, il genio.

    In qualche modo, se il cinema da un lato può essere un dispositivo, una macchina concentrazionaria e mortifera e, quindi, può rispondere a questa volontà di assoggettamento della vita, e ancor di più alla volontà specifica del nazismo di innestare nella vita una sorta di biospiritualità, cioè far sì che questa coincidenza vita-morte diventi appunto una sorta di grado zero; dall’altro lato la degenerazione come trasformazione, la dissoluzione come mutazione, questa idea di disfacimento – su cui per esempio Deleuze riflette a proposito del cinema di Visconti –, questa idea del cinema come processo degenerativo, non pensi che abbia a che fare poi con la possibilità di un rovesciamento in positivo, in cui oggi il cinema si rivela un’area di elaborazione di pratiche estetiche e politiche, dove questo rovesciamento della biopolitica in senso positivo può aver luogo? In fondo, la nascita e il corpo, il corpo e la carne, sono sicuramente due temi molto presenti oggi nel cinema, pensiamo a Lynch e a Cronenberg, e allo stesso Sokurov.

    Sì. Quando hai incominciato a parlare, subito mi è venuto in mente, relativamente al rapporto tra arte, degenerazione e innovazione, un film come Morte a Venezia di Visconti. La degenerazione è la malattia che, da un lato, attira l’artista e dall’altro non è inscrivibile solo in un ciclo della morte perché da quella morte inevitabilmente rinasce vita. In un doppio senso la degenerazione ha poi un elemento di rilancio sul futuro: intanto perché la degenerazione è comunque innovazione, cioè si oppone alla conservazione, degenera ciò che non si conserva ma si innova (magari in forma mortifera); e poi, perché, anche sotto il profilo dei fenomeni organici, la decomposizione rientra nel ciclo della vita. Ecco, che il cinema possa essere un altro di quei dispositivi rovesciati, oltre la carne e la nascita, non ci avevo pensato quando ho scritto il libro. Io faccio riferimento, in un punto, a Bacon, come artista contemporaneo, ma Cronenberg effettivamente, anche se non l’ho detto, è interno al mio discorso, perché appunto Cronenberg, per me, è un po’ il corrispettivo di Bacon. Nell’impalcatura delle ossa la carne fuoriesce, questo è tipico di Cronenberg. Da questo punto di vista, sì. Quello che mi chiedo in maniera più problematica però è questo: sicuramente i contenuti e le forme di alcuni film, cinema e registi contemporanei sono dentro questo discorso; non so quanto lo sia il cinema come macchina del cinema, come apparato anche economico-produttivo. Su questo bisognerebbe pensarci, diffiderei di un accostamento immediato, da questo punto di vista. Invece come contenuto dei film – il contenuto dei film è la loro forma – vedo questo accostamento. Su questo rivolgo a voi la stessa domanda.

    Riprendo una formula che tu stesso utilizzi in Bíos, «gli effetti della biopolitica, o la soggettivazione o la morte». Il cinema come pratica ha inciso sui processi di soggettivazione, sulla soggettività-massa trasformata in soggettività spettatoriale, in pubblico. Benjamin ne L’opera d’arte lo dice: il cinema ha permesso che le grandi masse che abitavano le metropoli in quegli anni, invece di rimanere nel grigiore delle loro case, potevano affollare i teatri e le sale, e in questo riconoscersi e assumere una sorta di identità collettiva spettatoriale. Questo era un processo di soggettivazione, dopodiché queste masse che affollavano i teatri hanno cominciato ad affollare le trincee, hanno iniziato, con le guerre e i totalitarismi, non più a produrre soggettività nel senso foucaultiano, ma a produrre morte. Durante i totalitarismi e la guerra, il rapporto tra il cinema e le masse si sfalda. La grande utopia del cinema di poter rappresentare il pensiero ed educare le masse frana con i totalitarismi e il cinema di propaganda. Dalle macerie del totalitarismo nasce tutto un altro cinema, e si sfalda una volta per tutte questo legame tra potere, tecnologia e masse.

    Io partirei da Foucault, che tu appunto hai ricordato. Il discorso di Foucault si dirama in due direzioni divergenti: da un lato soggettivazione, dall’altro morte. Il potere produce o soggetti (cura di sé, tecnologia del sé, coscienza dei soggetti) oppure morte della soggettività, reificazione. Il mio tentativo è stato quello di tenere insieme questi due elementi che Foucault divarica. Ho tentato di farlo attraverso la categoria di immunizzazione, perché l’immunizzazione è esattamente ciò che producendo soggettività, proteggendo la soggettività, insieme la nega. Oltre un certo limite, quando l’apparato immunitario è troppo forte, si rovescia e produce morte. Il cinema è appunto, secondo me, più assimilabile a questa seconda categorizzazione che a quella di Foucault, perché il cinema è esattamente un dispositivo ambivalente, in cui questi due elementi stanno l’uno dentro l’altro e non sono divaricati. Questo sul piano strutturale del cinema. Tu poi inserisci una variabile diacronica. Dici: fino a un certo punto il cinema ha tenuto insieme questi due elementi, poi è diventato un’altra cosa e quindi si è rotto questo dispositivo. Io, non so, pongo il dubbio sul fatto che si possa istituire questo limite diacronico, nel senso che in fondo anche il cinema propagandistico produce soggettività e produce morte. In un certo senso, sotto il profilo della valutazione storica, regimi come il nazismo, il fascismo o anche lo stalinismo (quest’ultimo meno), sono stati regimi ad alta partecipazione soggettiva. Non è vero che fosse un apparato poliziesco che bloccasse ogni forma di reazione; le forme di reazione erano poche perché la gente era soggettivamente coinvolta. Il cinema ha avuto un ruolo fondamentale, come anche la radio, come tutti i media, in questo processo di soggettivazione. Io credo che soggettivazione e morte siano una costante strutturale, che si modulino in forme diverse ma che accompagnino tutta la storia del cinema. Perché – una cosa forse antipatica ed eccessiva – c’è un elemento in comune – lo chiedo anche a voi – tra il cinema propagandistico della Riefenstahl e il cinema che oggi fa una giusta propaganda contro Bush, come quello di Michael Moore?

    Credo che un corrispettivo, in questo senso, rispetto alla critica dell’impero americano, è il cinema detestabile – ma non solo secondo me, anche secondo Godard – di Lars von Trier. Il tipo di riduzione, estetizzazione della politica di cui si parlava prima…

    Tutto il cinema politico, si potrebbe dire, sta dentro questa cornice, per certi versi.

    Tutto il cinema politico nel senso dell’estetizzazione della politica, non nel senso della politicizzazione della vita o della vitalizzazione della politica come la intendi tu. Quando tu individui il movimento di rovesciamento in questa vitalizzazione della politica in cui è implicita anche una politicizzazione della vita in senso affermativo, allora il valore politico del cinema di Godard, per esempio, così come il valore politico del cinema di Sokurov, per altri versi, sta forse nella possibilità di rovesciare proprio all’interno del cinema il dispositivo che produceva assoggettamento, rovesciando il senso della nascita.

    Su questo sono del tutto d’accordo. In che senso? Nel senso che vita e politica sono originariamente connessi. La biopolitica mortifera è quella che, prima, stacca vita e politica e poi le ricongiunge in una chiave appunto immunitaria. Il cinema politico di Godard, oppure di Sokurov, in realtà che fa? Ci disvela l’originaria connessione di vita e politica, e quindi anche di cinema e politica. Le due cose sono connesse, non c’è una implicazione, una sovrapposizione. Invece, il cinema di propaganda politica ci dà vita e politica come separate – e anche cinema e vita, cinema e politica – e poi fa un’operazione di ricongiungimento forzato, quindi mortifero.

    In cui il grado zero è in una sorta di estetizzazione della politica che non ha resti…

    Esatto. È proprio così.

    Colgo il pretesto per ricollegarmi al problema che tu prima individuavi. Cioè, se dal punto di vista contenutistico, è abbastanza facile individuare alcuni registi e alcuni film che lavorano sui temi e sulle forme di cui parlavamo prima, il problema rimane il cinema stesso come dispositivo, come apparato. Abbiamo insistito più volte su questa ambivalenza del cinema e mi veniva in mente un tuo interlocutore, Jean-Luc Nancy. La problematica che Nancy elabora attraverso questa originaria partizione dell’essere – un originario essere-con che apre la strada ad una prospettiva ontologica – mi sembra, tra l’altro, si possa ritrovare anche in un testo apparentemente marginale ma che in realtà si connette con questo discorso, un saggio di Nancy sul regista iraniano Abbas Kiarostami, in cui, tra le cose che Nancy mette in evidenza, c’è anzitutto l’esistenza di questo resto, che è proprio in questa esposizione che connette lo spettatore con lo sguardo del cinema. Ed evidenza del cinema intesa come anche evidenza di un altro sguardo che tra l’altro ha a che fare con dei corpi e che inevitabilmente produce qualcosa che forse il cinema ha prodotto fin dalla sua nascita, questa idea di socializzazione o comunque di connessione tra sguardi – spettatoriale, registico, attoriale – che è l’esperienza estetica della fruizione filmica. Non tanto quindi il film come testo, non tanto come aggregato di elementi simbolici e tematici, ma proprio esperienza estetica della fruizione del film che, infatti, nell’età classica del cinema sussiste soprattutto nella sala (mentre oggi forse la socializzazione è sostituita da forme di fruizione cinematografica che, dalla videocassetta al dvd, sono sempre più individualizzanti, sempre più casalinghe, sempre meno esterne). Invece Nancy insiste molto su questo potere di esposizione (termine a lui caro), che si connette anche con quest’altro polo che è l’idea di communitas e che appartiene al percorso da cui tu sei partito. Forse allora, mantenendo salda questa ambivalenza, il lato positivo del cinema sta proprio nell’esperienza di fruizione, nella possibilità di creare – azzardo – un’idea o una pratica della communitas.

    Vorrei aggiungere qualcosa a questo tema dello sguardo, qualcosa a cui ho fatto riferimento più sopra, cioè la funzione liberatoria del cinema per le masse metropolitane. Benjamin e Kracauer insistono proprio sull’idea che il cinema e le macchine spettacolari esercitino una funzione di liberazione (una sorta di trasformazione della categoria aristotelica di catarsi) sulla vita di quegli abitanti della metropoli che altrimenti si troverebbero di fronte ad una realtà per molti versi intollerabile. Benjamin parla del cinema come di qualcosa che fa esplodere le case come se fossero delle carceri.

    Mi pare che in entrambi i casi che mi avete prospettato torni il tema dell’ambivalenza. Rispetto a questa funzione liberatoria del cinema, sta dentro, come dire, la figura della compensatio: visto che c’è questo tipo di vita insopportabile, il cinema in qualche modo libera uno spazio di sopportabilità. Naturalmente questo si potrebbe dire, da un lato, una liberazione, dall’altro, il mezzo per non far esplodere una vera liberazione. È una compensazione a sua volta repressiva proprio perché fa sopportare l’insopportabile. Quindi c’è questo elemento, che peraltro Benjamin aveva ben presente. Lui lo applica anche nell’ambito del diritto, dove si dispiega la stessa ambivalenza: il diritto trattiene i conflitti ma proprio per questo esprime la massima violenza. Lo stesso tema dell’ambivalenza e della violenza io lo vedo in questo gioco di sguardi di cui si parlava prima. E mi veniva in mente, a questo proposito, rispetto al tema dello sguardo, anche un’osservazione che in un dibattito faceva Giorgio Agamben, rifacendosi essenzialmente a quel tipo di cinema che in un certo senso dà l’essenza stessa del cinema, il cinema pornografico. Nel cinema pornografico c’è stata una trasformazione a un certo punto. Perché – posto che il cinema pornografico sia cinema e anzi esprima qualcosa di profondo del cinema, cosa che io credo – fino a un certo momento, il cinema pornografico è fondato sul meccanismo di andare a rovistare, in una casa, in un certo posto, una persona che non sa di essere vista; il cinema pornografico guarda nel buco della serratura e va a vedere questa persona inconsapevole che si spoglia, che fa l’amore, ecc. A un certo punto, il cinema pornografico cambia registro e la persona che viene inquadrata ri-guarda a sua volta lo spettatore, ri-guarda con uno sguardo ammiccante, che gli fa capire io so che tu stai al cinema, so che tu lo sai, io questo lo faccio per te e mi rivolgo a te. Quindi rovescia il discorso. Perché nel primo caso c’è solo uno sguardo, l’altro non ti guarda; nel secondo caso c’è questo gioco di sguardi in cui lo spettatore è riguardato, come avviene tra l’altro anche in altre strutture in cui l’eccitazione nasce proprio dal fatto di essere visto più che di vedere o insieme a quella di vedere. Ora il problema è questo: se questo è vero, in questo secondo passaggio si tratta di una funzione liberatoria o di una funzione di violenza? C’è anche molta violenza in questo tipo di cinema pornografico, in questo gioco di sguardi, intrecciato l’uno nell’altro. Perché da un lato è una struttura paritaria, comunitaria, non sono solo io panopticon che guardo te, ma anche tu che guardi me, quindi io sono esposto quanto sei esposto tu, quindi c’è un elemento paritario, ugualitario. Dall’altro, però, è pur sempre una violenza accresciuta.

    L’ idea che esista la possibilità di un ritorno dello sguardo, che l’istanza spettatoriale in qualche modo faccia lavorare il cinema e, essendo la funzione spettatoriale inscritta nel cinema, il cinema ti guardi, questo costituisce il residuo vitale del cinema. Allo stesso tempo, questo stesso tipo di meccanismo è il meccanismo micidiale dei reality show. Allora, l’estremizzazione di questo tipo di meccanismo, che è in origine vitale, diventa mortifero e assoggettante quando non c’è più resto, cioè nel momento in cui, come afferma Jean-Luis Comolli, il fuoricampo della televisione è il nulla. Nel flusso cinematografico c’è uno sguardo che possiede e produce sempre un fuoricampo vitale; più si sente la durata vitale nel cinema e più esiste un resto, un residuo nel fuoricampo, che è il set, che è la vita, ecc. Nella televisione come dispositivo questo non succede, proprio perché non c’è communitas. È una sorta, come dire, di panopticon in cui lo sguardo è azzerato, in cui, sì, c’è qualcuno che guarda e un altro che sa di essere guardato, però nello stesso tempo c’è la morte dello sguardo, la sua messa in scacco. Di nuovo, questa ambivalenza si sposta su un altro piano.

    È una dialettica, appunto, a cui non si sfugge, che poi era quella identificata da Foucault all’inizio de Le parole e le cose con il quadro di Velázquez, il gioco di sguardi, di specchi, ecc. Io non so come voi connettete, o come opponete, cinema e televisione nella vostra esperienza. La mia impressione, da profano, è che siano due cose diverse, decisamente diverse.

    È il concetto di virtuale, che tu, tra l’altro, richiami alla fine del libro, che forse fa la differenza. Nel testo che citi di Deleuze, L’immanenza: una vita…, c’è l’idea che l’immanenza è impersonale e composta di singolarità. Tu dici che questo tipo di esito della filosofia deleuziana ha poi a che fare con il concetto di virtuale. Il concetto di virtuale come lo intende Deleuze, distinto da quello di possibile, è definito anche da una sorta di flusso virtualità-attualità, di continuo passaggio del virtuale in attuale e dell’attuale in virtuale, ed è uno specifico cinematografico assente dalla televisione…

    Ma c’è una virtualità che non ha più un referente reale. Quando cade il referente totalmente, non c’è più nemmeno il concetto di realtà e il concetto di virtualità, tutto è virtuale e nulla è reale, micidialmente tutto diventa reale e tutto diventa virtuale, tutto il reale si annulla nel virtuale. È un po’ il buco del reale di Lacan.

    Ma è anche in qualche modo, l’esito della televisione, questa presunta interattività della televisione come universo immaginario. È la creazione di un universo virtuale omologo al potere assoggettante.

    Il Grande Fratello è un’estremizzazione del panopticon, non è l’elemento liberatorio dentro il panopticon, semmai è un doppio panopticon, uno dello spettatore rispetto agli attori e uno da parte loro verso lo spettatore. È un doppio assoggettamento, diciamo.

    Tu individui la possibilità di un rovesciamento interno, lo individui giustamente in questo rovesciamento dei tre elementi interni al nazismo: corpo, carne, nascita e norma. Come risponde secondo te il potere rispetto a questa possibile via di fuga?

    Come anche Foucault direbbe, per certi versi perfino già Nietzsche direbbe, il potere non è un’istanza. Non c’è un luogo del potere, il potere sta dentro le pratiche, sta anche dentro questi elementi di resistenza. La resistenza incorpora sempre il potere. Questo che dico non è solo una formula. Pensiamo, per esempio, a come è cambiato il biopotere dall’ambito del nazismo all’ambito liberale, delle società occidentali attuali a dominanza liberale. Se la biopolitica nazista assume ogni uomo potenzialmente come schiavo, tipico della biopolitica liberale – ma come addirittura codificato già nei testi del liberalismo, a partire da Locke fino alla bioetica liberale – questo elemento di schiavitù non viene meno, solo che per ciascuno il proprio corpo è suo schiavo. Nel biopotere liberale essere persona significa essere proprietario del proprio corpo. L’idea stessa di persona, che significa maschera, implica uno sdoppiamento tra un sé-coscienza e il proprio corpo. Ciascuno può potenzialmente fare qualsiasi cosa del proprio corpo perché questo corpo è cosa rispetto a quel sé. Questo allora è il meccanismo dominante, questo sdoppiamento – io sto lavorando ora, partendo proprio dalle ultime pagine di Bíos, sul tema dell’impersonale. Un punto di attacco alla strategia del biopotere è una decostruzione del concetto di persona. Il concetto di persona è un concetto decisivo sotto il profilo giuridico, la personalità giuridica. È un concetto decisivo sotto il profilo filosofico, e anche rispetto al tema del cinema, quanto meno dello sdoppiamento dell’immagine, della maschera. Mi sto concentrando, con un’analisi a più fuochi, come io un po’ lavoro, sull’obiettivo della persona, a favore dell’impersonale singolare.

    Questo è un punto significativo. La parte finale di Bíos individua una direttrice molto stimolante e recupera un autore importante in questa prospettiva, come Simondon (e la sua nozione di metastabilità). Potremmo rielaborare il discorso sul cinema, a partire dalla questione campo/fuoricampo, secondo questa terminologia della metastabilità e dei processi di individuazione. Ci sono alcuni film che tendono a prosciugare nel modo più forte possibile il metastabile o lo strutturabile o, in termini deleuziani, il virtuale, quindi a chiudersi in maniera più forte intorno al discorso, alla storia…

    C’è un tipo di cinema molto legato a questo tema dell’impersonale virtuale?

    In qualche modo credo che questa idea dell’impersonale, della singolarità, in Sokurov sia molto presente.

    Deleuze riprende questa idea di ecceità, che poi è una nozione di Simondon. Cita il neonato, un’immagine molto bella: non è individuato, ma si differenzia attraverso un gesto, un sorriso, un pianto. C’è una tradizione, anche molto forte, di riflessione teorica sul cinema, e Pasolini ne è un esempio, che ha focalizzato questa idea di ecceità, di singolare, di immagine senza entrare nell’individuato, nel rappresentato. E poi ci sono autori che hanno esibito questa potenzialità del cinema nell’esibire l’impersonale-singolare e autori che l’hanno attenuata facendo del cinema la grande macchina narrativa…

    Chi sono, secondo voi, gli autori che hanno insistito su questo?

    Beh, di recente, diciamo sicuramente Godard, Pelesjan, Cronenberg.

    Per quanto riguarda Cronenberg, eXistenZ, ad esempio, è un film dove questo tema della carne è fondamentale dal punto di vista della pura esistenza. Prefigura una società – dal punto di vista del contenuto, che poi in Cronenberg è proprio la forma del film – in cui la virtualità è talmente incorporata all’interno del corpo da predisporre una serie di livelli di realtà virtuale indecidibili. Quindi, in qualche modo, è una prefigurazione in cui si medita su questa impossibilità, una sorta di prefigurazione di un nazismo all’estrema potenza dove addirittura si va anche oltre il grado zero, oltre la morte, oltre la vita.

    Inoltre, ripensando ai cortometraggi di Artavazd Pelesjan (Fine Vita, La terra degli uomini) e di Godard (L’origine du XXI siècle) che ho visto, se dovessi dire quale era il tema di fondo di quei frammenti, direi proprio l’impersonale.

    Beh, indubbiamente c’è una linea che da Ejzensˇtejn e Vertov passa per Epstein e arriva fino a Pelesjan, ed è la linea dell’immagine senza soggetto, o dell’immagine impersonale.

    Sempre Deleuze, nei suoi libri sul cinema, elabora tutta una teoria del primo piano che si connette in modo particolare ai suoi ultimi scritti che tu citi nel libro, e a quanto stiamo dicendo, vale a dire alla centralità dell’immagine impersonale. Il tuo ultimo capitolo ricostruisce tutta una tradizione di pensiero francese, che io ho provato ad analizzare a partire dal cinema, cioè Bergson, Simondon e Deleuze. Ritrovarli alla fine di un libro come Bíos mi ha molto colpito, perché vuol dire che queste direttrici si possono ricostruire anche compiendo percorsi diversi. Questa idea dell’impersonale-singolare è per me il cinema…

    Vorrei tornare sulla questione della specificità di Auschwitz, specificità rispetto ai sistemi biopolitici di assoggettamento. È una specificità forse senza tempo e

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