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Psyché. Vol. 2: Invenzioni dell'altro
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E-book518 pagine8 ore

Psyché. Vol. 2: Invenzioni dell'altro

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Info su questo ebook

Il termine «decostruzione», solitamente associato all’opera di Jacques Derrida, è forse uno dei più equivocati della filosofia del Novecento. In questo secondo volume di Psyché. Invenzioni dell’altro è possibile verificare in che senso la decostruzione non è né un’analisi né una critica tecnicamente intese come scomposizioni padroneggiabili, ma un esercizio del pensiero che si produce come lettura esigente e rigorosa, capace di svelare le domande e le genealogie insospettate o nascoste che hanno strutturato e legittimato la tradizione filosofica occidentale. I saggi qui radunati – inaugurati dall’ormai famosa (ma non per questo conosciuta) Lettera a un amico giapponese – interrogano Heidegger, Kant, Michel de Certeau e attraversano campi del sapere quali l’architettura, la storia, la teologia, il diritto e la politica. Senza scorciatoie o facili contaminazioni si profilano, dunque, domande che la filosofia pone anzitutto a sé stessa e agli statuti metodologici che hanno segnato la sua storia, perché, se pure si tratta sempre di «disfare, scomporre, desedimentare delle strutture» senza cedere a consolatorie iconoclastie o a ornamentali nichilismi, si dovrà tuttavia riconoscere che la radice politica del pensiero – e in particolare del pensiero filosofico – consiste in quell’impossibile accoglienza che è il «sì che apre la domanda e che sempre si lascia presupporre da essa, un sì che afferma prima di essa, al di qua o al di là di ogni domanda possibile».
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9788816802643
Psyché. Vol. 2: Invenzioni dell'altro
Autore

Jacques Derrida

È stato uno dei maggiori filosofi del nostro tempo. Jaca Book ha pubblicato le sue opere principali, fra le quali ricordiamo: La voce e il fenomeno (1968/2010); Della grammatologia (1969/1998/2020); La farmacia di Platone (1985/2021); La disseminazione (1989/2018); Addio a Emmanuel Lévinas (1998/2011); L’animale che dunque sono (2006/2019); Psyché. Invenzioni dell’altro, voll. 1 e 2 (2008/2020 e 2009/2021); La bestia e il sovrano, voll. 1 e 2 (2009 e 2010); La pena di morte, voll. 1 e 2 (2014 e 2016); Pensare al non vedere (2016); Teoria e prassi (2018); Chora; Passioni; Heidegger. La questione dell’Essere e la Storia (tutti 2019); Salvo il nome; Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (entrambi 2020); La vita la morte. Seminario (1975-1976), pubblicato nel 2021. Presso Jaca Book proseguono le pubblicazioni dell’edizione critica di Seminari e Corsi.

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    Anteprima del libro

    Psyché. Vol. 2 - Jacques Derrida

    Jacques Derrida

    PSYCHÉ

    INVENZIONI DELL’ALTRO

    VOL. 2

    Postfazione di

    Gianfranco Dalmasso

    Titolo originale

    Psyché. Inventions de l’autre. Tome 2

    Traduzione dal francese di

    Rodolfo Balzarotti

    © 1987-2003

    Éditions Galilée, Paris

    © 2009

    Editoriale Jaca Book Spa, Milano

    per l’edizione italiana

    © 2021

    Editoriale Jaca Book Srl, Milano

    Prima edizione italiana

    ottobre 2009

    Seconda edizione

    gennaio 2021

    Ouvrage publié avec le concours du Ministère français

    chargé de la Culture – Centre National du Livre

    Opera pubblicata con il contributo del Ministero

    della Cultura francese – Centre National du Livre

    Volume pubblicato con il contributo Prin 2006 – Unità locale Università

    degli Studi di Bergamo – Responsabile Scientifico Prof. Dalmasso

    Etica e genesi dei saperi (coordinatore nazionale Prof.ssa Gigliotti)

    e con il contributo del Dipartimento di Scienze della Persona

    dell’Università degli Studi di Bergamo

    Redazione e impaginazione

    Elisabetta Gioanola

    eISBN 978-88-16-80264-3

    Editoriale Jaca Book

    via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

    Seguici su

    INDICE

    LETTERA A UN AMICO GIAPPONESE

    GESCHLECHT. DIFFERENZA SESSUALE, DIFFERENZA ONTOLOGICA

    LA MANO DI HEIDEGGER (GESCHLECHT II)

    AMMIRAZIONE DI NELSON MANDELA O LE LEGGI DELLA RIFLESSIONE

    POINT DE FOLIE – MAINTENANT L’ARCHITECTURE

    PERCHÉ PETER EISENMAN SCRIVE LIBRI COSÌ BUONI

    CINQUANTADUE AFORISMI PER UN’INTRODUZIONE

    L’AFORISMA IN CONTRATTEMPO

    COME NON PARLARE. DENEGAZIONI

    DÉSISTANCE

    INNUMERI SÌ

    INTERPRETATIONS AT WAR: KANT, L’EBREO, IL TEDESCO

    L’ALTRO ECCESSIVO

    di Gianfranco Dalmasso

    LETTERA A UN AMICO GIAPPONESE

    ¹

    Caro Professor Izutsu,

    durante il nostro incontro, le avevo promesso alcune riflessioni – schematiche e preliminari – sulla parola «decostruzione». Si trattava, a conti fatti, dei prolegomeni a una possibile traduzione di questa parola in giapponese. E quindi di tentare una determinazione, almeno in negativo, dei significati o delle connotazioni da evitare, se possibile. La domanda, quindi, sarebbe: che cosa non è la decostruzione? o piuttosto che cosa non dovrebbe essere? Sottolineo queste parole («possibile» e «dovrebbe»). Perché, se è possibile anticipare le difficoltà di traduzione (e il problema della decostruzione è anche, in tutto e per tutto, il problema della traduzione e della lingua dei concetti, del corpus concettuale della cosiddetta metafisica «occidentale»), non bisognerebbe anzitutto credere, ingenuamente, che la parola «decostruzione» sia adeguata, in francese, a un qualche significato chiaro e univoco. Già nella «mia» lingua c’è un oscuro problema di traduzione tra quanto, qua e là, può concernere questa parola, e la sua utilizzazione, la sua possibilità. Ed è chiaro che le cose cambiano da contesto all’altro, anche in francese. Più ancora, in area tedesca, inglese e soprattutto americana, la stessa parola è già legata a connotazioni, inflessioni, valori affettivi o patetici molto diversi. La loro analisi sarebbe interessante, e meriterebbe in altra sede un lavoro specifico.

    Quando ho scelto questa parola, o quando mi si è imposta, credo fosse in Della Grammatologia, non pensavo che le sarebbe stato riconosciuto un ruolo tanto centrale nel discorso che allora mi interessava. Desideravo, tra l’altro, tradurre e adattare ai miei scopi i termini heideggeriani Destruktion o Abbau. In quel contesto significavano entrambi un’operazione relativa alla struttura o all’architettura tradizionale dei concetti fondatori dell’ontologia o della metafisica occidentale. Ma in francese il termine «distruzione» implicava troppo scopertamente un annichilimento, una riduzione negativa forse più vicina alla «demolizione» nietzscheana che non all’interpretazione heideggeriana o al tipo di lettura che proponevo io. Per questo l’ho scartata. Ricordo di aver controllato se la parola «decostruzione» (che mi era venuta in modo apparentemente molto spontaneo) fosse proprio francese. L’ho trovata nel Littré. I valori grammaticale, linguistico o retorico erano lì associati a un uso «macchinico». Questa associazione mi sembrò felicissima, molto adatta a ciò che tentavo per lo meno di suggerire. Mi permetta di citare qualche passo del Littré. «Decostruzione. L’atto del decostruire. Termine grammaticale. Sovvertimento del costrutto delle parole in una frase. Della decostruzione, volgarmente detta costruzione, Lemare, De la manière d’apprendre les langues, cap. 17, nel Corso di lingua latina. Decostruire. 1. Disassemblare le parti di un tutto. Decostruire una macchina per trasportarla altrove. 2. Termine grammaticale (…) Decostruire dei versi, renderli, con la soppressione del metro, simili alla prosa. In senso assoluto: "Nel metodo delle frasi prénotionelles, si comincia anche con la traduzione, e uno dei suoi vantaggi è di non aver bisogno di decostruire", Lemare, ibid. 3. Decostruirsi, (…) perdere la propria costruzione. L’erudizione moderna ci attesta come, in una contrada dell’immobile Oriente, una lingua giunta a perfezione si sia decostruita e alterata da sé, per sola legge di cambiamento, che è congenita allo spirito umano, Villemain, Prefazione al Dictionnaire de l’Académie»².

    Naturalmente bisognerà tradurre il tutto in giapponese, e questo non fa che differire il problema. Va da sé che se tutti i significati enumerati dal Littré mi interessavano per la loro affinità con quello che «volevo dire», essi concernevano però metaforicamente, se si vuole, modelli o regioni di senso e non la totalità di quanto, nella sua ambizione più radicale, può avere di mira la decostruzione. Essa non si limita né a un modello linguistico-grammaticale, neppure a un modello semantico, e meno che mai a un modello macchinico. Anch’essi andrebbero sottoposti a un’interrogazione decostruttiva. È vero che, in seguito, quei «modelli» – a cui si era tentati di ridurla – sono stati all’origine di numerosi malintesi circa il concetto e la parola decostruzione.

    Occorre anche dire che la parola era di uso raro, spesso ignorato in Francia. In qualche modo la si è dovuta ricostruire, e il suo valore d’uso è stato determinato dal discorso tentato a proposito e a partire da Della Grammatologia. È questo valore d’uso che tenterò adesso di precisare e non un qualche senso primitivo o qualche etimologia al riparo o al di là di ogni strategia contestuale.

    Ancora due parole riguardo al «contesto». Lo «strutturalismo» era a quei tempi dominante. «Decostruzione» sembrava andare in quel senso perché la parola significava una certa attenzione alle strutture (che a loro volta non sono semplicemente idee, né forme, né sintesi, né sistemi). Decostruire era anche un gesto strutturalista, e in ogni caso un atteggiamento che assumeva una certa necessità della problematica strutturalista. Ma era anche un atteggiamento antistrutturalista – e la sua fortuna dipende in parte da quell’equivoco. Si trattava di disfare, scomporre, desedimentare delle strutture (ogni tipo di strutture: linguistiche, «logocentriche», «fonocentriche» – dato che allora lo strutturalismo era dominato soprattutto da modelli linguistici, quelli della cosiddetta linguistica strutturale, detta anche saussuriana – socio-istituzionali, politiche, culturali e, anzitutto e primariamente, filosofiche). Per questo, soprattutto negli Stati Uniti, si è associato il motivo della decostruzione al «post-strutturalismo» (parola ignota in Francia, se non «di ritorno» dagli Stati Uniti). Ma disfare, scomporre, desedimentare delle strutture, movimento in un certo senso più storico del movimento «strutturalista» che perciò era rimesso in causa, non era un’operazione negativa. Più che di distruggere, si trattava anzi di comprendere come si fosse costruito un certo «insieme», e per questo ricostruirlo. Tuttavia l’apparenza negativa era e resta tanto più difficile da cancellare in quanto si lascia leggere nella grammatica della parola (de-), che pure designa più una derivazione genealogica piuttosto che una demolizione. Perciò questa parola, almeno se usata da sola, mi è sempre parsa insoddisfacente (ma quale parola non lo è?), e deve essere sempre accompagnata da un discorso. E in seguito difficile da cancellare perché, nel lavoro della decostruzione, ho dovuto, come faccio qui, moltiplicare le avvertenze, scartare alla fine tutti i concetti filosofici della tradizione pur riaffermando la necessità di ricorrere a essi, quantomeno sotto barratura. Per questo si è detto affrettatamente che era una specie di teologia negativa (non è né vero né falso, ma abbandono qui la discussione)³.

    Comunque, e nonostante le apparenze, la decostruzione non è né una analisi né una critica, e una traduzione dovrebbe tenerne conto. Non è un’analisi, specialmente perché lo smontaggio di una struttura non è una regressione verso l’elemento semplice, verso un’origine non scomponibile. Queste valenze, come quella di analisi, sono esse stesse filosofemi sottoposti a decostruzione. Non è neppure una critica, in senso generale o in senso kantiano. L’istanza del krínein o della krísis (decisione, scelta, giudizio, discernimento) è anch’essa, come del resto tutto l’apparato della critica trascendentale, uno dei «temi» o degli «oggetti» essenziali della decostruzione.

    Dirò lo stesso per il metodo. La decostruzione non è un metodo e non può essere trasformata in metodo. Soprattutto se nel termine si accentua il valore procedurale o tecnico. È vero che in certi ambienti (universitari o culturali, penso in particolare agli Stati Uniti), la «metafora» tecnica e metodologica che sembra necessariamente agganciata alla parola «decostruzione» ha potuto sedurre o trarre in inganno. Di qui il dibattito sviluppatosi in quegli ambienti: la decostruzione può diventare una metodologia di lettura e di interpretazione? Può lasciarsi riappropriare e addomesticare dalle istituzioni accademiche?

    Non basta dire che la decostruzione non può ridursi a un insieme di strumenti metodologici, a un insieme di regole o di procedure trasferibili. Non basta dire che ogni «evento» di decostruzione resta singolo, o comunque quanto più vicino possibile a un idioma e a una firma. Bisognerebbe anche precisare che la decostruzione non è neanche un atto o una operazione. Non solo perché ci sarebbe in essa qualcosa di «passivo» o di «paziente» (più passivo della passività, direbbe Blanchot, della passività che si oppone all’attività). Non solo perché non compete un soggetto (individuale o collettivo) che se ne assumerebbe l’iniziativa e la applicherebbe a un oggetto, a un testo, a un tema, ecc. La decostruzione ha luogo, è un evento che non attende la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, neppure della modernità. Ciò [ça] si decostruisce. Qui il ça non è una cosa impersonale che si opporrebbe a una qualche soggettività egologica. È in decostruzione (Littré diceva: «Decostruirsi (…) perdere la propria costruzione»). E il «si» di «decostruirsi», che non è la riflessività di un io o di una coscienza, si fa carico di tutto l’enigma. Capisco, mio caro amico, che cercando di chiarire una parola per facilitarne la traduzione, non faccio che moltiplicare le difficoltà: l’impossibile «compito del traduttore» (Benjamin), ecco tra l’altro cosa vuol dire «decostruzione».

    Se la decostruzione ha luogo ovunque ciò [ça] ha luogo, ovunque ci sia qualcosa (il che perciò non si limita al senso o al testo, nel senso corrente e libresco di quest’ultima parola), resta da pensare che cosa succeda oggi, nel nostro mondo e nella «modernità», nel momento in cui la decostruzione diviene un motivo, con il suo nome, i suoi temi privilegiati, la sua strategia mobile, ecc. Non ho una risposta semplice e formalizzabile a simile domanda. Tutti i miei saggi sono saggi che fanno i conti con questa domanda formidabile. Ne sono sia modesti sintomi sia tentativi di interpretazione. Non oso nemmeno dire, seguendo uno schema heideggeriano, che ci troviamo in un’«epoca» dell’essere-in-decostruzione, di un essere-in-decostruzione che si sarebbe insieme manifestato o dissimulato in altre «epoche». Tale pensiero dell’«epoca», e soprattutto quella di un raccoglimento del destino dell’essere, dell’unità della sua destinazione o dispensazione (Schicken, Geschick) non può mai dar luogo a una qualche garanzia.

    Per essere schematici, dirò che la difficoltà di definire, e quindi anche di tradurre la parola «decostruzione», appartiene al fatto che tutti i predicati, tutti i concetti definitori, tutti i significati lessicali e anche le articolazioni sintattiche che sembrano adattarsi momentaneamente alla definizione e traduzione sono anche decostruiti o decostruibili, direttamente o no, ecc. Il che vale per la parola, per l’unità stessa della parola decostruzione, come per ogni parola. Della Grammatologia mette in questione l’unità «parola» e tutti i privilegi che in genere le vengono accordati, soprattutto nella sua forma nominale. Dunque solo un discorso, o piuttosto una scrittura, può supplire all’incapacità della parola di bastare a un «pensiero». Ogni frase tipo «la decostruzione è X» o «la decostruzione non è X» manca a priori di pertinenza, è a dir poco falsa. Lei sa che una delle poste in gioco principali di ciò che nei miei testi si chiama «decostruzione» è proprio la delimitazione della onto-logica, e anzitutto dell’indicativo presente della terza persona: S è P.

    La parola «decostruzione», come qualsiasi altra parola, trae il suo valore dall’inscrizione in una catena di sostituzioni possibili, in ciò che troppo pacificamente si chiama «contesto». Per quel che mi riguarda, per quanto ho tentato e tento ancora di scrivere, esso ha interesse solo in un certo contesto in cui sostituisce e si lascia determinare da molte altre parole, per esempio «scrittura», «traccia», «différance», «supplemento», «imene», «pharmakon», «margine», «entame», «parergon», ecc. Per definizione, la lista non può essere chiusa, e ho solo citato dei nomi, il che non è sufficiente ed è solo economico. Di fatto, bisognava citare frasi e concatenamenti di frasi che a loro volta determinano, in alcuni dei miei testi, quei nomi.

    Che cosa non è la decostruzione? tutto!

    Che cos’è la decostruzione? nulla!

    Per tutti questi motivi, non penso che sia una buona parola. Soprattutto, non è bella. Certo ha reso dei servigi, in una situazione ben determinata. Per sapere cosa l’ha imposta in una catena di sostituzioni possibili, nonostante la sua essenziale imperfezione, bisognerebbe analizzare e decostruire quella «situazione ben determinata». È difficile, e non lo farò qui.

    Ancora una parola per affrettare la conclusione, ché la lettera è già troppo lunga. Non credo che la traduzione sia un evento secondario e derivato rispetto a una lingua o a un testo originali. E, come ho appena detto, «decostruzione» è una parola essenzialmente scambiabile entro una catena di sostituzioni. Lo si può fare anche da una lingua all’altra. La chance per (la) «decostruzione» consisterebbe nel fatto che un’altra parola (la stessa e un’altra) si trovi o si inventi in giapponese per dire la stessa cosa (la stessa e un’altra), per parlare della decostruzione e per trasportarla altrove, per scriverla e trascriverla. Con una parola anche più bella.

    Quando parlo di tale scrittura dell’altro che sarebbe più bella, mi riferisco ovviamente alla traduzione come rischio e chance del poema. Come tradurre «poema», un «poema»?

    (…) Caro Professor Izutsu, le porgo i sensi della mia riconoscenza e della mia più viva cordialità.

    ¹ Questa lettera, che fu dapprima pubblicata in giapponese, come è stata destinata, poi in altre lingue, apparve in francese in Le Promeneur, XLII, ottobre 1985. Toshihiko Izutsu è il celebre islamologo giapponese.

    ² Aggiungo che la «decostruzione dell’articolo che segue non sarebbe priva di interesse:

    «DECOSTRUZIONE. Azione di decostruire, di disassemblare le parti di un tutto. Decostruzione di un edificio. Decostruzione di una macchina.

    Grammatica: spostamento che si fa subire alle parole di cui si compone una frase scritta in una lingua straniera, violando, in realtà, la sintassi di questa lingua, ma anche avvicinandosi alla sintassi della lingua madre, con il fine di afferrare meglio il senso che presentano le parole nella frase. Il termine designa con esattezza quella che la maggior parte dei grammatici chiama impropriamente Costruzione; dato che in qualunque autore tutte le frasi sono costruite conformemente al genio della sua lingua nazionale, cosa fa uno straniero che cerca di comprendere, di tradurre questo autore? Decostruisce le frasi, ne disassembla le parole, secondo il genio della lingua straniera; o, se si vuole evitare ogni confusione nei termini, si ha Decostruzione in riferimento alla lingua dell’autore tradotto, e Costruzione rispetto alla lingua del traduttore» (Dictionnaire Bescherelle, Garnier, Paris 1873, 15° edizione).

    ³ Cfr., più avanti in questo volume, Come non parlare, pp. 171-236.

    GESCHLECHT. DIFFERENZA SESSUALE, DIFFERENZA ONTOLOGICA

    ¹

    a Ruben Berezdivin

    Del sesso – sì, è facile notarlo – Heidegger parla il meno possibile, e forse non ne ha mai parlato. Forse non ha mai detto nulla sotto questo nome, sotto i nomi consueti di «rapporto sessuale», di «differenza sessuale», perfino di «uomo-e-donna». Questo silenzio, dunque, è facile notarlo. Come dire che notarlo è un po’ facile. Una nota che si accontentasse di qualche indizio, concludendosi con un «è come se…». Senza fatica ma non senza rischio, il dossier si chiuderebbe così: è come se, leggendo Heidegger, non ci fosse differenza sessuale, e niente da interrogare o da sospettare su questo lato dell’uomo, o della donna, niente che sia degno di domanda, fragwürdig. È come se, potremmo continuare, una differenza sessuale non fosse all’altezza della differenza ontologica: trascurabile, in fin dei conti, di fronte alla questione del senso dell’essere, come una differenza qualunque, una distinzione determinata, un predicato ontico. Trascurabile, s’intende, per il pensiero, anche se non lo è affatto per la scienza o per la filosofia. Ma il Dasein, in quanto si apre alla questione dell’essere, in quanto ha rapporto con l’essere, in questo riferimento non sarebbe sessifero. Il discorso sulla sessualità verrebbe così abbandonato alle scienze o alle filosofie della vita, all’antropologia, alla sociologia, alla biologia, forse perfino alla religione o alla morale.

    La differenza sessuale non sarebbe all’altezza della differenza ontologica, dicevamo, volevamo dire. Per quanto si sappia che non dovrebbe essere questione di altezza – il pensiero della differenza non ne comporta alcuna – questo silenzio non ne è tuttavia privo. Lo si può anche trovare altero, appunto, arrogante, provocante, in un secolo in cui la sessualità, luogo comune di tutte le chiacchiere, diviene anche la moneta corrente dei «saperi» filosofici e scientifici, il Kampfplatz inevitabile delle etiche e delle politiche. Ebbene: non una parola di Heidegger! Si potrebbe trovare del gran stile in questa scena di testardo mutismo proprio al centro della conversazione, nel brusìo ininterrotto e distratto della conversazione. Di per sé solo, ha il valore di una messa in allerta [éveil] (ma di che cosa si sta parlando intorno a questo silenzio?) e di un dar la sveglia [réveil]: in effetti, chi, intorno a lui e ben prima di lui, non ha discorso di sessualità come tale, per così dire, e sotto questo nome? L’hanno fatto tutti i filosofi della tradizione, tra Platone e Nietzsche che per parte loro furono inesauribili sull’argomento. Kant, Hegel, Husserl, le hanno riservato un posto, ne hanno fatto cenno per lo meno nella loro antropologia o nella loro filosofia della natura, e in effetti ovunque.

    È imprudente fidarsi dell’apparente silenzio di Heidegger? Non è che la bella certezza filologica di questa constatazione verrà turbata da qualche passo conosciuto o inedito, una volta che una macchina da lettura, facendo passare al setaccio l’opera omnia di Heidegger, fosse in grado di snidare la cosa e di mettersela nel carniere?

    Comunque, si dovrà pensare a programmare la macchina, pensare, pensarci e saperlo fare. E quale sarà l’indice? A quali parole affidarsi? Solamente a dei nomi? E a quale sintassi visibile o invisibile? In breve, da quali segni sapreste riconoscere che Heidegger parla o tace di ciò che pacificamente chiamate la differenza sessuale? Che cosa pensate, sotto queste parole o attraverso di esse?

    Di cosa ci si accontenterebbe, nella maggior parte dei casi, perché un silenzio tanto impressionante si lasci oggi marcare, perché appaia come tale, marcato e marcante? Senza dubbio di questo: Heidegger non avrebbe detto niente della sessualità sotto questo nome, nei luoghi in cui la «modernità» più istruita e meglio attrezzata l’avrebbe atteso a pie’ fermo con la panoplia del suo «tutto-è-sessuale-e-tutto-è-politico-e-viceversa» (notate per inciso che la parola «politico» in Heidegger è di uso molto raro, forse nullo, e la cosa, ancora una volta, non è priva di significato). Anche prima di qualsiasi statistica, la causa parrebbe decisa. Ma avremmo delle buone ragioni per credere che la statistica confermerà il verdetto: su ciò che chiamiamo pacificamente la sessualità, Heidegger ha taciuto. Silenzio transitivo e significante (ha taciuto il sesso) che appartiene, come dice di un certo Schweigen hier in der transitiven Bedeutung gesagt»), al cammino di una parola che egli sembra interrompere. Ma i luoghi di questa interruzione quali sono? Dov’è che il silenzio travaglia questo discorso? E quali sono le forme, quali i contorni determinabili di questo non-detto?

    Ci si può scommettere, nulla rimane immobile in quei luoghi cui gli indici della predetta panoplia avrebbero già puntualmente dato un’attribuzione: omissione, rimozione, denegazione, preclusione, impensato perfino.

    E poi, se la scommessa dev’essere perduta, la traccia di questo silenzio non meriterebbe comunque la digressione? Un silenzio che non tace una cosa qualsiasi, che non viene da un luogo qualsiasi. Ma perché poi la scommessa? Perché, prima di dire preliminarmente alcunché della «sessualità», come avremo modo di verificare, si deve invocare la chance, l’alea, il destino.

    Prendiamo allora una lettura cosiddetta «moderna», un’indagine con tutto l’armamentario della psicoanalisi, un’inchiesta che si avvale di tutta una cultura antropologica. Che cosa cerca? Dove cerca? Dov’è che si crede in diritto di attendere perlomeno un cenno, un’allusione, per quanto ellittica, un rinvio nella direzione della sessualità, del rapporto sessuale, della differenza sessuale? Per prima cosa in Sein und Zeit. L’analitica esistenziale del Dasein non era forse così vicina a un’antropologia fondamentale da aver dato luogo a tanti equivoci e malintesi sulla pretesa «réalité-humaine», come si traduceva in Francia? Ora, anche nelle analisi dell’essere-nel-mondo come essere-con-altri, della cura in sé e come «Fürsorge» si cercherebbe invano, a quanto sembra, un abbozzo di discorso sul desiderio e sulla sessualità. Se ne potrebbe trarre questa conseguenza: la differenza sessuale non è un tratto essenziale, non appartiene alla struttura esistenziale del Dasein. L’esserci, l’esser-ci, il ci dell’essere come tale non porta alcuna marca sessuale. Stessa conseguenza per la lettura del senso dell’essere, dal momento che – Sein und Zeit lo dice chiaramente (§ 2) – il Dasein resta, per una simile lettura, l’ente esemplare. Anche volessimo ammettere che ogni riferimento alla sessualità non viene cancellato o resta implicito, ciò varrebbe solo nella misura in cui tale riferimento, tra tanti altri, presuppone strutture molto generali (In-der-Welt Sein als Mit- und Selbstsein, Räumlichkeit, Befindlichkeit, Rede, Sprache, Geworfenheit, Sorge, Zeitlichkeit, Sein zum Tode). Ma non è mai il filo conduttore indispensabile per un accesso privilegiato a tali strutture.

    Il caso è definitivamente chiuso, si direbbe. E tuttavia! Und dennoch! (Heidegger usa più spesso di quanto non si creda questo modo retorico: e tuttavia! punto esclamativo, a capo).

    E tuttavia la cosa era così poco o così male intesa che presto Heidegger dovette darne spiegazione. Dovette farlo in margine a Sein und Zeit, se pure si può chiamare margine un corso del semestre estivo all’università di Marburg/Lahn nel 1928². Dove egli richiama alcuni «principi direttivi» sopra «Il problema della trascendenza e il problema di Essere e tempo» (§ 10). L’analitica esistenziale del Dasein non può avvenire che nella prospettiva di un’ontologia fondamentale. Ecco perché non si tratta né di un’«antropologia» né di un’«etica». Una tale analitica è solamente «preparatoria» e la «metafisica del Dasein» non è ancora «al centro» del compito, il che lascia chiaramente pensare che comunque questa fosse in programma.

    È attraverso il nome del Dasein che introdurrò qui il problema della differenza sessuale.

    Perché mai chiamare Dasein l’ente che costituisce il tema di questa analitica? Perché il Dasein dà il suo «titolo» a questa tematica? In Sein und Zeit, Heidegger aveva giustificato la scelta di questo «ente esemplare» per la lettura del senso dell’essere. «In quale ente si dovrà leggere il senso dell’essere…?»³. In ultima istanza, la risposta conduce ai «modi d’essere di un ente determinato, di quell’ente, che noi stessi, gli interroganti, siamo». Così, se la scelta di questo ente esemplare nel suo «primato» è oggetto di una giustificazione (checché se ne pensi e quale che ne sia l’assiomatica), in compenso Heidegger sembra procedere per decreto, almeno nel passo in questione, quando si tratta di nominare questo ente esemplare, di dargli una volta per tutte il suo titolo terminologico: «Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nell’interrogare (die Seinsmöglichkeit des Fragens), lo designamo col termine Esserci» [noi lo cogliamo, lo fissiamo, l’apprendiamo «terminologicamente» come esserci, fassen wir terminologisch als Dasein]. Questa scelta «terminologica» trova senza dubbio la propria giustificazione profonda, in tutta l’impresa e in tutto il libro, nell’esplicitazione di un ci e di un esserci che non dovrebbe esigere nessuna (quasi nessuna) altra pre-determinazione. Ma ciò non toglie a questa proposizione liminare, a questa dichiarazione di nome, l’aspetto decisionale, brutale ed ellittico. Al contrario, nel corso di Marburgo, il titolo di Dasein – nel senso come nel nome – viene più pazientemente qualificato, spiegato, valutato. Ora, il primo tratto sottolineato da Heidegger è la neutralità. Primo principio direttivo: «Per l’ente che costituisce il tema di questa analitica, non si è scelto il titolo uomo (Mensch) ma il titolo neutro das Dasein».

    Sulle prime, il concetto di neutralità sembra molto generale. Si tratta di ridurre o di sottrarre, con questa neutralizzazione, ogni predeterminazione antropologica, etica o metafisica, per conservare solo una sorta di rapporto a sé, di nudo rapporto all’essere del proprio ente. È il rapporto minimale a sé come rapporto con l’essere, quello che l’ente che noi siamo, in quanto interroganti, intrattiene con se stesso e con la propria essenza. Questo rapporto a sé non è rapporto con un «io», naturalmente, né con un individuo. Il Dasein designa così l’ente che, «in un senso determinato», non è «indifferente» alla propria essenza o cui non è indifferente il suo esser proprio. La neutralità è dunque in primo luogo la neutralizzazione di tutto ciò che non sia il tratto nudo di questo rapporto a sé, di questo interesse per il proprio essere nel senso più ampio del termine «interesse». Quest’ultimo implica un interesse o un’apertura pre-comprensiva per il senso dell’essere e per le questioni che sono ad esso ordinate. E tuttavia!

    E tuttavia, nel momento in cui viene esplicitata, questa neutralità passa d’un salto, senza transizione e sin dall’item seguente (secondo principio direttivo), alla neutralità sessuale e anche a una certa asessualità (Geschlechtslosigkeit) dell’esserci. Il salto è sorprendente. Se Heidegger avesse voluto dare degli esempi, tra le determinazioni da scartare dall’analitica del Dasein, specie fra i tratti antropologici da neutralizzare, non avrebbe avuto che l’imbarazzo della scelta. Ora, egli comincia, per non procedere oltre, con la sessualità, più precisamente con la differenza sessuale. Quest’ultima gode dunque di un privilegio e sembra dipendere in primo luogo – seguendo la connessione logica degli enunciati – da quella «concrezione fattuale» che l’analitica del Dasein deve cominciare con il neutralizzare. Se la neutralità del titolo «Dasein» è essenziale, è proprio perché l’interpretazione di questo ente – che noi siamo – dev’essere intrapresa prima e al di fuori di una concrezione di questo tipo. Il primo esempio di «concrezione» sarebbe dunque l’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Heidegger non mette in dubbio che siano due: «Questa neutralità significa anche [corsivo mio, J.D.] che il Dasein non è nessuno dei due sessi (keines von beiden Geschlechtern ist)».

    Molto più tardi, e comunque trent’anni dopo, la parola «Geschlecht» si caricherà di tutta la sua ricchezza polisemica: sesso, genere, famiglia, stirpe, razza, lignaggio, generazione. Heidegger seguirà nella lingua, attraverso percorsi insostituibili, nel senso di inaccessibili a una traduzione corrente, attraverso vie labirintiche, seducenti, inquietanti, l’impronta di sentieri spesso interrotti. Ancora interrotti, in questo caso dal due. Due, sembra, non può numerare che i sessi, ciò che chiamiamo sessi.

    Ho sottolineato la parola «anche» («questa neutralità significa anche…»). Per il suo posto nella catena logica e retorica, «anche» ricorda che, tra i numerosi significati di questa neutralità, Heidegger ritiene necessario non cominciare con la neutralità sessuale – ecco perché dice «anche» – ma tuttavia subito dopo il solo significato generale che abbia marcato fin qui in questo passo: dopo il carattere umano, il titolo «Mensch» per il tema dell’analitica. È il solo che abbia escluso o neutralizzato fin qui. Vi è dunque in questo fatto una sorta di precipitazione o di accelerazione che come tale non potrebbe essere neutra o indifferente: fra tutti i tratti dell’umanità dell’uomo che risultano così neutralizzati, insieme all’antropologia, all’etica o alla metafisica, il primo cui fa pensare il termine stesso di neutralità, comunque il primo cui Heidegger pensi, è la sessualità. È evidente che la sollecitazione non può venire solamente dalla grammatica. Passare da Mensch, o persino da Mann, a Dasein, è sicuramente passare dal maschile al neutro, ed è passare a una certa neutralità il fatto di pensare o dire il Dasein e il Da del Sein a partire da quel trascendente che è das Sein Sein ist das Trascendens schlechthin», SZ: p. 18); e per di più una simile neutralità attiene al carattere non generico e non specifico dell’essere: «L’essere come tema fondamentale della filosofia non è il genere (keine Gattung) di un ente…» (ibid.). Eppure, ancora una volta, sebbene la neutralità sessuale non possa non essere correlata al dire, alla parola e alla lingua, non si potrebbe però ridurla a una grammatica. Questa neutralità Heidegger la designa, piuttosto che descriverla, come una struttura esistenziale del Dasein. Ma perché poi vi insiste tutto d’un tratto e con tanta sollecitudine? Mentre non ne aveva fatto parola in Sein und Zeit, l’asessualità (Geschlechtslosigkeit) qui figura al primo posto fra i tratti da menzionarsi quando si evochi la neutralità del Dasein, o piuttosto del titolo «Dasein». Perché?

    Si può pensare a una prima ragione. La stessa parola Neutralität (ne-uter) induce il riferimento a una binarietà. Se il Dasein è neutro e se non è l’uomo (Mensch), la prima conseguenza da trarne è proprio il fatto che non si sottomette alla spartizione binaria cui viene spontaneo pensare in questo caso, cioè alla «differenza sessuale». Se «esserci» non significa «uomo» (Mensch), a fortiori non designa né «uomo» né «donna». Ma se la conseguenza è talmente prossima al senso comune, perché richiamarla? E soprattutto, perché dovrebbe essere tanto difficile, nel resto del corso, liberarsi di una cosa tanto chiara e incontestabile? Ci sarebbe da pensare che la differenza sessuale non dipende in modo così semplice da tutto ciò che l’analitica del Dasein può e deve neutralizzare, metafisica, etica e soprattutto antropologia, o da altri campi del sapere ontico, ad esempio biologia e zoologia? Ci sarebbe da sospettare che la differenza sessuale non si possa ridurre a un tema antropologico o etico?

    La cauta insistenza di Heidegger lascia comunque pensare che le cose non vadano da sé. Una volta neutralizzata l’antropologia (fondamentale o no) e mostrato che essa non poteva affrontare la questione dell’essere o esservi posta di fronte come tale, una volta ricordato che il Dasein non si riduceva né all’essere umano, né all’io, né alla coscienza o all’inconscio, né al soggetto né all’individuo, e neppure all’animal rationale, si poteva credere che la questione della differenza sessuale non avesse alcuna possibilità di venire commisurata alla questione del senso dell’essere o della differenza ontologica, e che perfino il congedarla non meritasse alcun trattamento privilegiato. Ora, incontestabilmente, succede il contrario. Heidegger ha appena ricordato la neutralità del Dasein ed ecco che sente subito il bisogno di precisare: neutralità anche rispetto alla differenza sessuale. Forse stava rispondendo a domande più o meno esplicite, ingenue o dotte, di lettori, studenti, colleghi ancora rimasti, volenti o nolenti, all’interno dello spazio antropologico: che ne è della vita sessuale del suo Dasein? potrebbero anche aver chiesto. E dopo aver risposto sul fronte di questa domanda sostanzialmente squalificandola, dopo aver ricordato l’asessualità di un esserci che non è l’ánthropos, Heidegger vuole andare incontro a una seconda questione e forse una nuova obiezione. Ed ecco che le difficoltà cominciano a crescere.

    Che si tratti di neutralità o di asessualità (Neutralität, Geschlechtslosigkeit), le parole accentuano fortemente una negatività che contrasta in modo palese con ciò che Heidegger vuole marcare in tal modo. Non si tratta di segni linguistici o grammaticali, alla superficie di un senso che, per sé, resterebbe inintaccato. Attraverso predicati così manifestamente negativi deve darsi a leggere ciò che Heidegger non esita a chiamare una «positività» (Positivität), una ricchezza e pure, in un codice qui sovraccaricato, una «potenza» (Mächtigkeit). Questa precisazione induce a pensare che la neutralità a-sessuale non desessualizzi, anzi; essa non dispiega la sua negatività ontologica nei confronti della sessualità (che piuttosto libererebbe) ma nei confronti delle marche della differenza, più propriamente della dualità sessuale. Non ci sarebbe Geschlechtslosigkeit se non nei confronti del «due»; l’asessualità si determinerebbe come tale solo se per sessualità si intendesse immediatamente binarietà o divisione sessuale. «Ma questa asessualità non è l’indifferenza della vuota nullità (die Indifferenz des leeren Nichtigen), la debole negatività di un niente ontico indifferente. Il Dasein nella sua neutralità non è l’indifferente qualsiasi, ma la positività originaria (ursprüngliche Positivität) e la potenza dell’essere (o dell’essenza, Mächtigkeit des Wesens.

    Se, come tale, il Dasein non appartiene a nessuno dei due sessi, non significa però che l’ente che esso è sia privo di sesso. Al contrario, si può pensare qui a una sessualità predifferenziale, o piuttosto pre-duale: il che non vuol dire necessariamente unitaria, omogenea e indifferenziata, come potremo verificare più tardi. E, a partire da questa sessualità più originaria della diade, si può tentare di pensare alla fonte, una «positività» e una «potenza» che Heidegger si guarda bene dal chiamare «sessuali», certo per paura di reintrodurvi la logica binaria che l’antropologia e la metafisica assegnano costantemente al concetto di sessualità. Ma si tratterebbe proprio della fonte positiva e potente di ogni «sessualità» possibile. La Geschlechtslosigkeit non sarebbe più negativa dell’alétheia. Ci si ricordi di quello che dice Heidegger della «Würdigung» des «Positiven» im «privativen» Wesen der Alétheia («apprezzamento» del «positivo» nell’essenza «privativa» dell’alétheia, conclusione di La dottrina di Platone sulla verità).

    Da questo punto in poi, il seguito del corso avvia un movimento molto singolare. È difficilissimo isolarvi il tema della differenza sessuale. Sarei tentato di interpretarlo in questo modo: con una sorta di spostamento strano e assolutamente necessario, è la divisione sessuale in se stessa che conduce alla negatività, e la neutralizzazione è contemporaneamente l’effetto di questa negatività e la cancellazione cui un pensiero la deve sottomettere per lasciar comparire una positività originaria. Lungi dal costituire una positività che la neutralità asessuale del Dasein verrebbe ad annullare, la binarietà sessuale sarebbe essa stessa responsabile – o piuttosto apparterrebbe a una determinazione a sua volta responsabile – di questa negativizzazione. Per radicalizzare o formalizzare troppo in fretta il senso di questo movimento, prima di ritracciarlo con maggior pazienza, potremmo proporre lo schema seguente: è la stessa differenza sessuale come binarietà, è l’appartenenza discriminante all’uno o all’altro sesso che destina o determina (a) una negatività di cui perciò bisogna rendere conto. Se ci si spinge ancora più lontano, si potrebbero anche associare differenza sessuale così determinata (uno su due), negatività e una certa «impotenza». Ritornando all’originarietà del Dasein, di quel Dasein che viene detto sessualmente neutro, si possono riacciuffare «positività originaria» e «potenza». In altri termini, nonostante le apparenze, l’asessualità e la neutralità che si devono immediatamente sottrarre, nell’analitica del Dasein, alla marca sessuale binaria, sono in verità dallo stesso lato, dal lato di questa differenza sessuale – quella binaria – alla quale avremmo potuto semplicemente crederle opposte. Un’interpretazione, questa, troppo violenta?

    I tre successivi sottoparagrafi o item (3, 4 e 5) sviluppano i motivi della neutralità, della positività e della potenza originaria, dell’originarietà stessa, senza riferimento esplicito alla differenza sessuale. La «potenza» diventa quella dell’origine (Ursprung, Urquell) e d’altronde Heidegger non assocerà mai direttamente il predicato «sessuale» alla parola «potenza», dal momento che resta troppo facilmente associato all’intero sistema della differenza sessuale che è, lo si può dire senza gran rischio di sbagliare, inseparabile da ogni antropologia e da ogni metafisica. Meglio: per quanto ne so, l’aggettivo «sessuale» (sexual, sexuell, geschlechtlich) non viene mai usato, solamente i termini Geschlecht o Geschlechtlichkeit: fatto non privo di importanza, visto che questi termini possono irradiare più agevolmente verso altre zone semantiche. È qui che più tardi seguiremo altri cammini di pensiero.

    Ma, pur senza parlarne direttamente, questi tre sottoparagrafi preparano il ritorno alla tematica della Geschlechtlichkeit. Innanzitutto, cancellano ogni segno di negatività annesso al termine «neutralità». Quest’ultima non ha la vacuità dell’astrazione: riconduce alla «potenza dell’origine» che porta in sé la possibilità interna dell’umanità nella sua fattualità concreta. Il Dasein, nella sua neutralità, non deve essere confuso con l’esistente. Il Dasein, certo, esiste solo nella sua concrezione fattuale: ma questa stessa esistenza ha la sua fonte originaria (Urquell) e la sua interna possibilità proprio nel Dasein in quanto neutro. L’analitica di questa origine non tratta dell’esistente stesso. Proprio per il fatto che le precede, una simile analitica non può confondersi con una filosofia dell’esistenza, con una saggezza (che potrebbe stabilirsi solo nella «struttura della metafisica»), con una profezia o con qualche forma di predicazione che insegni questa o quella «visione del mondo». Non si tratta dunque, in alcun modo, di una «filosofia della vita». Come dire che un discorso di questo genere sulla sessualità (saggezza, sapere, metafisica, filosofia della vita o dell’esistenza) verrebbe meno a tutte le esigenze di un’analitica del Dasein, nella sua stessa neutralità. Ora, si è mai presentato un discorso sulla sessualità che non appartenesse a nessuno di questi registri?

    Bisogna ricordare che la sessualità non viene nominata né in quest’ultimo paragrafo né in quello che tratterà (ci torneremo) di un certo «isolamento» del Dasein. Viene nominata invece in un paragrafo di Vom Wesen des Grundes (stesso anno, 1928) che sviluppa il medesimo argomento. La parola è posta tra virgolette, in un inciso. Dove la logica dell’a fortiori alza un po’ il tono. Perché infine, se è vero che la sessualità deve essere neutralizzata «à plus fort raison», «a maggior ragione», come dice la traduzione di Henry Corbin, oppure a fortiori, erst recht, perché insistervi? Dove sarebbe il rischio di equivoco? A meno che, decisamente, la cosa non vada da sé, e che si rischi di mescolare ancora una volta la questione della differenza sessuale con quella dell’essere e della differenza ontologica? In questo contesto, si tratta di determinare l’ipseità del Dasein, la sua Selbstheit, il suo esser-sé. Il Dasein non esiste che per amor suo, per così dire (umwillen seiner), ma questo non significa né il per-sé della coscienza, né l’egoismo, né il solipsismo. È a partire dalla Selbstheit che un’alternativa tra «egoismo» e «altruismo» ha qualche possibilità di sorgere e apparire, così come una differenza tra l’«essere-io» e l’«essere- tu» (Ichsein/Dusein). Sempre presupposta, l’ipseità dunque è anche «neutra» rispetto all’essere-io e all’essere-tu, «e a maggior ragione rispetto alla sessualità» («und erst recht etwa gegen die Geschlechtlichkeit neutral»). Il movimento di questo a fortiori è logicamente irreprensibile solo a una condizione: bisognerebbe che la suddetta «sessualità» (tra virgolette) fosse il predicato certo di tutto ciò che è reso possibile attraverso o a partire dall’ipseità – in questo caso, ad esempio, le strutture dell’«io» e del «tu» – ma che non appartenesse, come «sessualità», alla struttura dell’ipseità, di un’ipseità che non sarebbe ancora determinata come essere umano, io o tu, soggetto cosciente o inconscio, uomo o donna. Ma se Heidegger insiste e sottolinea («a maggior ragione»), è perché un sospetto continua a pesare: e se la «sessualità» marcasse già la Selbstheit più originaria? se fosse una struttura ontologica dell’ipseità? se il Da del Dasein fosse già «sessuale»? e se la differenza sessuale fosse già marcata nell’apertura alla questione del senso dell’essere e alla differenza ontologica? e se, non essendo ovvia, la neutralizzazione fosse già un’operazione violenta? L’«a maggior ragione» può nascondere una ragione più debole. E in ogni caso, le virgolette segnalano sempre una sorta di citazione. Nel linguaggio della speech act theory, si direbbe che il senso corrente della parola «sessualità» è «menzionato» piuttosto che «usato»; è citato in giudizio con un mandato di comparizione se non proprio con un’imputazione. Bisogna soprattutto proteggere l’analitica del Dasein di fronte ai rischi dell’antropologia e della psicoanalisi – o addirittura della biologia. Ma può darsi che un passaggio resti aperto ad altre parole o a un altro uso e un’altra lettura della parola Geschlecht, se non della parola «sessualità». Può darsi che un altro «sesso», o piuttosto un altro Geschlecht, venga a inscriversi nell’ipseità o a disturbare l’ordine di tutte le derivazioni: ad esempio quello di una Selbstheit più originaria che renda possibile l’emergere dell’ego e del tu. Lasciamo in sospeso il problema.

    Se poi questa neutralizzazione è coinvolta in tutta l’analisi ontologica del Dasein, non vuol dire che il «Dasein nell’uomo», come dice spesso Heidegger, sia una singolarità «egoista» o un «individuo onticamente isolato». Il punto di partenza nella neutralità non riconduce all’isolamento o all’insularità (Isolierung) dell’uomo, alla sua solitudine fattuale ed esistenziale. E tuttavia il punto di partenza nella neutralità significa proprio – Heidegger lo nota chiaramente – un certo isolamento originario dell’uomo: non, per l’appunto, nel senso dell’esistenza fattuale, «come se l’essere filosofante fosse il centro del mondo» ma in quanto «isolamento metafisico dell’uomo». È allora proprio l’analisi di questo isolamento che fa riemergere il tema della differenza sessuale e della spartizione duale nella Geschlechtlichkeit. Al centro di questa nuova analisi, la sottilissima differenziazione di un certo lessico annuncia già problemi di traduzione che per noi non potranno che aggravarsi. Sarà sempre impossibile considerarli come accidentali o secondari. A un certo punto, potremo anche toccare con mano che il pensiero del Geschlecht e il pensiero della traduzione sono essenzialmente lo stesso. A questo punto, lo sciame del lessico raccoglie (o fa sciamare) la serie «dissociazione», «distrazione», «disseminazione», «divisione», «dispersione». Allora il dis- sarebbe chiamato a tradurre – non senza transfert

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