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Figli Difficili
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E-book459 pagine6 ore

Figli Difficili

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La scrittura di Michele Prisco presenta, sin dal suo apparire sulla scena letteraria italiana all’indomani della seconda guerra mondiale, motivi afferenti al Neorealismo, anche se lo scrittore non li condivide in modo pedissequo, per cui l’adesione alla realtà della borghesia campana è deformata dalla presenza di elementi tipici di certo ‘fantastico’ novecentesco, appena accennati e, pertanto, particolarmente affascinanti.
In tale ottica si colloca Figli difficili, romanzo edito per la prima volta nel 1954 nella collana “Sidera” della casa editrice Rizzoli, che offre uno scorcio narrativo di grande suggestione attraverso la rappresentazione di alcuni personaggi riuniti nell’attesa del ritorno di Maddalena, allontanatasi alcuni anni addietro da casa. La circostanza aziona un imprevedibile meccanismo fondato sull’affiorare di ricordi, inattese rivelazioni, ossessive e, spesso improbabili, difese di atti compiuti obbedendo a ‘logiche’ alquanto personali, a lasciar emergere il volto di un gruppo familiare lacerato da profondi risentimenti, nonché di un tessuto sociale contraddistinto da un’ipocrisia immedicabile, in cui si può riscontrare, altresì, il fallimento di una generazione giovanile connotata da una superficialità dai tratti inquietanti, del tutto incapace di valutare gli effetti prodotti dal secondo conflitto mondiale. Il romanzo, il terzo della produzione narrativa dello scrittore partenopeo, attesta la sua attitudine a calarsi nei meandri dell’animo umano scandagliato minuziosamente tramite la tecnica della proiezione all’esterno della congerie di conflitti alberganti in una dimensione difficile da esplorare, eppure dotata di un fascino ineguagliabile.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2017
ISBN9788868225445
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    Anteprima del libro

    Figli Difficili - Michele Prisco

    Collana

    Deluxe

    Michele Prisco

    Figli difficili

    Prefazione di

    Alberico Guarnieri

    ISBN: 978-88-6822-544-5

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione. La prigione dei ricordi

    Riproporre Figli difficili a distanza da sessantadue anni dalla prima edizione che, ricordiamo, apparve nel 1954 per i tipi della casa editrice Rizzoli, assume, particolarmente in questo nostro tempo dominato dall’incombere di storie a buon mercato volte, molto spesso, a sfruttare il morboso interesse dei lettori per la cronaca nera, granguignolescamente protesa ad offrire il ‘piacere’ delle emozioni forti, della degustazione di temi scabrosi e, qualche volta, dell’orrore, costituisce una scelta importante destinata ad assumere i tratti di un’autentica sfida contro i dettami delle mode. Tale opposizione assume un significato ancora più ‘eversivo’ soprattutto se si tiene conto della densa trama di ricordi fondante l’ossatura del romanzo, che Michele Prisco scandaglia con un rigore chirurgico certo non allo scopo di edificare un’ennesima ‘cattedrale della memoria’, bensì perseguendo l’intento di evidenziare tutte le sfaccettature di cui consta la complessa architettura del vissuto dei personaggi centrali, Andrea, Roberto, la signora Giuditta e Giulia, a rendere la lettura oltremodo impegnativa, eppure gradevole, anche per quel sottile fil rouge di suspense palpabile ad ogni pagina.

    L’opera è ambientata in una Castellamare raffigurata prevalentemente attraverso una suggestiva ‘lente deformante’ dal vago sapore onirico, pur se non mancano riferimenti a luoghi specifici frequentati dal gruppo di giovani che condivide «lo spirito di Quisisana», quali bar, piazze, pineta, spiagge, dove, a dispetto dell’incombere della seconda guerra mondiale, essi vivono esperienze fondamentali ai fini della loro formazione, sebbene il processo si interrompa senza conquistare la cosiddetta «middle station of life, quel destino comodo, senza avventure, disgrazie o vicissitudini, ‘occorrente’ necessario per raggiungere la felicità privata vagheggiato già dalla borghesia mercantile del XVII secolo, ancorché in un’ottica ben diversa rispetto a quella da cui lo vedrà il corrotto ceto borghese otto – novecentesco.

    Così, nel corso delle ore che i protagonisti, uniti, peraltro, da legami di parentela nel caso di Giuditta Roberto e Giulia Lombardo, rispettivamente madre e figli, mentre Andrea detiene all’interno del nucleo familiare la scomoda posizione di ex fidanzato di Giulia ‘trasformato’ in più innocuo «ragioniere» del pastificio, alla cui guida subentra in seguito all’improvvisa scomparsa del marito l’inflessibile «signora Giuditta», trascorrono nella villa di famiglia dopo aver ricevuto un telegramma spedito da Maddalena, moglie di Roberto fuggita qualche tempo prima con Gregorio marito di Giulia, per annunciare il suo ritorno, emerge una serie di lacerazioni, paradigmatiche di conflitti lungamente latenti, destinata ad esplodere tramite un confronto serrato, ad evocare, per alcuni aspetti, suggestioni afferenti alla tragedia greca classica, dato il breve lasso di tempo, poco più di dodici ore, impiegato dai quattro per ricostruire, ognuno dalla propria prospettiva, gli eventi accaduti.

    Sarebbe oltremodo improbabile nello spazio contenuto concesso a una prefazione, rendere conto in modo dettagliato del fitto reticolo di passioni, contraddizioni, reciproci addebiti di responsabilità, di solito seguito dalla puntuale autodifesa dell’accusato di turno, il cui esito, ‘umoristicamente’, è rinvenibile perlopiù in un aggravamento della sua posizione, viltà grandi e piccole affioranti dai dialoghi intrapresi fra i personaggi con un accanimento talmente intenso da sconfinare nella neanche tanto inconscia volontà di ferirsi, quasi a voler lenire, mentre lo si ravviva, il dolore originato dalla congerie di sensi di colpa che li spinge a interrogarsi, con crescente insistenza, sul senso del loro agire finalizzato, almeno nelle intenzioni, a conseguire i ‘minimi obiettivi’ propostisi, in sintonia con la loro appartenenza sociale. Da qui rampolla, con la consueta chiarezza utilizzata dallo scrittore, peraltro, mai reticente ad immergere le mani nella materia magmatica delle umane debolezze, tracciando una ‘commedia umana’ non soltanto partenopea, bensì in grado di riflettere gli aspetti più drammatici del disagio esistenziale riversatosi sull’uomo contemporaneo già a partire dai primi decenni del XIX secolo, un’immagine certamente deleteria della borghesia della provincia campana, eppure non soggetta ad alcuna moralistica condanna: difatti, nel romanzo non vi è traccia di inopportune sentenze, agire che pone l’io narrante come uomo fra gli uomini, non divinità irraggiungibile esistente solo per giudicare al riparo della sua posizione privilegiata.

    Per questo aspetto, nonché per il linguaggio fluido che contraddistingue l’opera, quantunque prevalga il ragguaglio, a tratti anche troppo puntiglioso, relativo alle sensazioni avvertite dai protagonisti, spesso inespresse e, perciò, riportate alla luce dal narratore, a scapito dell’azione, oltre al patrimonio di ricordi da essi posseduto, tanto ingente da imprigionarli in una laboriosissima operazione di ‘recupero memoriale’ nel romanzo possono rinvenirsi punti di contatto con gli altri prodotti letterari della stagione neorealista dove, cronologicamente, si colloca, anche se il problema delle ‘etichette’ è davvero marginale rispetto a un libro cardine del panorama letterario del Novecento italiano quale Figli difficili in cui troviamo, possiamo solo accennarlo, altri temi di grande rilievo come il controverso rapporto fra le generazioni, l’incombenza di figure genitoriali tratteggiate con opportuno dispendio di particolari, la malattia fisica ma, principalmente, della psiche, a far assurgere il testo a simbolo di un’epoca troppo problematica per essere già racchiusa nel ‘grande polveroso archivio storico’. La ristampa di Figli difficili vuol anche testimoniare la necessità di sottrarre all’oblio ‘classici contemporanei’, passi l’ossimoro, che hanno ancora molto da dire. Siamo certi che i lettori coglieranno l’intima essenza di un non facile ma, proprio per questo, affascinante messaggio.

    Alberico Guarnieri

    Nota al testo

    Si riproduce il testo pubblicato da Rizzoli nel 1967, che riprende l’edizione originaria del 1954, sul quale sono stati apportati interventi minimi limitatamente ai refusi. La struttura dell’opera non ha, pertanto, subito alcuna modifica sostanziale, escluso il rinnovamento della veste grafica.

    Alberico Guarnieri

    È pericoloso aprir crepacci negli affetti umani,

    non perché si spalanchino ampi e profondi,

    ma proprio perché si chiudono così facilmente!

    Hawthorne

    I

    «No» disse la signora Giuditta nell’improvviso silenzio «non hanno suonato. Forse abbiamo frainteso, Roberto.»

    E queste parole ricondussero subito una vaga e soddisfatta serenità sul suo viso: mentre si lasciava riaffondare in poltrona, riprendendo dal grembo il lavoro, l’espressione di quella faccia apparsa per un momento apprensiva e come messa in sospetto involontariamente cedeva a un sorriso senza effusione che la faceva rassomigliare a una maschera. Da qualche tempo, poi, la signora Giuditta usava passarsi in volto una cipria bianca opaca e farinosa che rendeva più innaturale l’immobilità degli occhi acquosi e un po’ freddi: a volte ne erano invase ciglia e sopracciglia, che apparivano come imbiancate, a volte l’attaccatura dei capelli alle tempie, e pareva fosse più brizzolata, e più vecchia. Vecchia? La ricordavo veramente sempre immutata: tutto quanto aveva pure dovuto soffrire, in questi ultimi anni, non sembrava averla toccata, per lo meno ella era riuscita a domare delusioni e sofferenze abilmente evitando che ne trasparisse il riflesso sul volto. E anche adesso pareva tranquilla: solo le bacchettine di ferro del suo lavoro a maglia si scontravano con una più affrettata impazienza che poteva suggerire uno stato d’ansietà. Era seduta nella poltrona accanto al camino, con le spalle ad un bronzo posato al centro d’una mensola (la copia di una maternità d’uno scultore napoletano dell’Ottocento), che rappresentava il busto d’una donna col fazzoletto annodato in testa all’uso dei contadini e lo sguardo chino e un sorriso trepido e appassionato al figlio attaccato al petto.

    Il sorriso della signora Giuditta, invece, era diventato sicuro: ma Roberto la fissava con un atteggiamento interrogativo e testardo che aspettava certo il ripetersi del suono, in fondo al cancello, per farsi trionfante e magari cattivo; e poiché il silenzio perdurava, in quell’attesa, sottolineato dal pendolo sopra il camino e dal ticchettio del lavoro a maglia di sua madre, egli si rivolse a Giulia seduta di fronte.

    «Eppure è stata proprio la campanella in fondo al viale» ripeté con convinzione: e Giulia osservò dal suo canto, leggermente annoiata, che anche a lei era sembrato avessero suonato. La signora Giuditta continuava a lavorare, ma sollevò le spalle con un gesto che doveva essere nelle intenzioni di noncuranza e si rivelò per un brivido, invece, e lei n’ebbe per prima coscienza: disse subito, come se volesse farselo perdonare:

    «Forse qualche ragazzo, passando, ha tirato il fiocco al cordone.»

    «Ma il cordone è nascosto dai rampicanti» replicò Roberto sul quale le parole della madre ebbero solo il potere di risvegliare quella caparbietà che il prolungato silenzio già andava spegnendo. «No» soggiunse «qualche altro ha suonato, proprio per venire da noi. E se c’è qualcuno, al cancello, che cosa aspetta, perché non suona di nuovo, perché non suona più?»

    Allora la campanella si riudì: come invocata dal tono vagamente isterico della voce di Roberto. Nel pomeriggio invernale, il suono un poco lugubre, che pareva perdersi in un incantato silenzio, attraversò il viale spoglio, entrò nel salotto per le connessure dei vetri chiusi, si dissolse riunendo più debolmente contro il pendolo dell’orologio. E il volto del giovane si rischiarò d’una luce vittoriosa e malevola.

    «Ecco, l’ho detto! Senti? Qualcuno viene da noi!»

    La signora Giuditta non poté contraddire: avevamo sentito tutti, adesso; la voce tranquilla di Giulia confermava:

    «Sì, questa volta hanno suonato davvero.»

    Sua madre si alzò dalla poltrona, si diresse a una porta affacciandosi sulla soglia a chiamare la serva e ordinarle di recarsi a vedere al cancello, poi si avvicinò alla vetrata e, scostata la tenda, cercò di guardare nel viale. Parlò piano e adagio, senza voltarsi:

    «Non eccitarti, Roberto, non ce n’è proprio motivo. Certo è una cosa insolita, a quest’ora per noi, ma non c’è proprio ragione di eccitarsi tanto, se suonano al nostro cancello.»

    Non so perché suggerii, nel vederla ritornare al suo posto:

    «Forse sarà una chiamata per me.»

    E la signora Giuditta si voltò subito dalla mia parte: sorrideva, ma io capivo che, sebbene protetto dallo schermo degli occhiali, il suo sguardo lottava a non lasciarsi sopraffare da quella luce di gratitudine che le mie involontarie parole le avevano acceso in volto. Sedette. Alle sue spalle la contadina di bronzo fissava sempre il bambino con quel sorriso umile e spento. Nella voce della signora Giuditta vibrava adesso una sconcertante energia:

    «Ecco, sarà qualcuno che cerca del ragioniere. Sanno tutti che il ragioniere viene il pomeriggio da noi. Sarà qualcuno che chiede di lui: non eccitarti, Roberto.»

    Giulia si trovava alle mie spalle: aveva riso? Così m’era sembrato: e Roberto fissava silenzioso la vetrata, si sarebbe detto che avesse avvertito una specie di presentimento provandone subito una gioia mescolata al rancore e alla sofferenza, e all’impazienza, anche, un’impazienza addirittura morbosa. Le tende calate mettevano una luce uniforme e quasi giallastra, nel salotto: l’orologio a pendolo sul caminetto segnava le cinque e venti; era un pomeriggio di febbraio, ma nel salotto, con quella luce precaria, eravamo proprio come fuori del tempo, e quasi fuori del mondo, ovattati in un cerchio di solitudine. Anch’io? Certo, aspettavamo tutti senza parlare il ritorno della domestica chiedendoci, ma senza volercelo confessare, se la donna sarebbe tornata accompagnando qualcuno. Si udì il rumore delle ciabatte sul porticato, e un attimo dopo, allo scricchiolio d’un tarlo ingrandito dall’attesa, Roberto si girò di scatto come se avesse sentito parlare o gridare. Ma aspettavamo in silenzio, e Nannina entrò sola, richiudendo accuratamente la porta dietro di sé, con una calma che pareva eccessiva, addirittura deliberata e maligna, sebbene certamente ignara del sospetto d’essere osservata da loro e fors’anche da me con tanta nervosa e febbrile curiosità. Consegnò a Giulia un telegramma e disse avviandosi:

    «Ho fatto firmare al fattorino» e Roberto le fissò, affascinato, le mani rosse e gonfie screpolate dai numerosi bucati, con l’aria di chiedersi (credo che in quell’attimo ognuno si ponesse la stessa domanda) che cosa quelle mani avevano portato, quale messaggio o notizia o perturbamento era contenuto nel telegramma.

    Perché nemmeno le parole di Nannina ci avevano scosso da quella specie d’incantesimo in cui eravamo quasi involontariamente calati: appena il suo passo reso più sgraziato e pesante dalle ciabatte si fu perduto nelle stanze, Giulia andò a sedere un’altra volta al suo posto (quando s’era alzata?) e, mostrando il telegramma che reggeva con una delicatezza estremamente guardinga, disse con una finta aria di superficialità: «È indirizzato alla famiglia.»

    Roberto la guardava e pareva commosso, gli occhiali della signora Giuditta riflettevano un leggero luccichio, le si smagliò nella voce una nota un po’ roca quando ordinò:

    «Apri.»

    Allora fummo, tutti, tesi unicamente a percepire il fruscio del foglietto sigillato che si svolgeva riempiendo la stanza d’una vibrazione carica d’attesa. Ora nessuno parlava: nemmeno Giulia, che dopo aver letto il telegramma l’aveva posato sul tavolinetto accanto lentamente e con un gesto di affettata indifferenza. Credo che la signora Giuditta dovette farsi forza, trangugiare come a rendere di nuovo ferma la voce, quando chiese, dopo una pausa:

    «Chi telegrafa, Giulia?»

    Giulia disse, fissando il fratello:

    «Maddalena.»

    Roberto era calmissimo, per lo meno all’apparenza: non sussultò né lo vedemmo impallidire. Solo la sua voce fu opaca:

    «Lo sapevo. Lo avrei giurato.»

    Ci sono degli avvertimenti segreti – una specie di sussulto, un attimo di perplessità o di capogiro o, addirittura, come un sentirsi chiamati, all’improvviso – da farci capire che in quel momento il nostro destino sta per mutarsi o si scontra con quello degli altri? Ognuno di noi avrebbe potuto ripetere le parole di Roberto, perché ognuno di noi allo squillo della campanella in fondo al viale e poi all’ingresso di Nannina col telegramma aveva subito pensato a Maddalena, per forza di telepatia o di presagio, non so. Roberto era stato il più coraggioso, ad esprimere quel pensiero comune, e adesso era come se ci svegliassimo da un incubo, quell’aria di sortilegio s’era naturalmente sciolta, e la stessa Giulia poteva soggiungere, più sollevata:

    «Annunzia che torna: ritorna domani.»

    Egli disse:

    «Ritorna Maddalena» e sorrise, persino.

    Io guardavo la signora Giuditta che era stata taciturna sinora, credo d’aver fissato solo lei aspettando che dicesse qualcosa, a mia volta sentendomi pieno d’eccitazione e quasi contento: contento per me e contro di lei. Non pensavo a Roberto, e forse nemmeno a Giulia, in quell’istante: fissavo la signora Giuditta come se fossimo stati soli, nel salotto, immersi in quella luce che pareva artificiale, e finalmente fosse venuto, dopo anni, anche il momento della nostra resa dei conti. Veramente attendevo questo? Eppure dovevo ritenermi vendicato, ormai: ma si vede che non ci conosciamo sempre abbastanza.

    La signora Giuditta taceva, aveva ripreso a lavorare a maglia. Anche Giulia lavorava: da un cestino vicino alla sua poltrona aveva tirato fuori un ricamo cominciando a cucire svogliata e con mani malferme, la gugliata attraversava la stoffa con un sibilo lungo come una lacerazione. Nessuno parlava: cioè, parlò ancora lui, Roberto, alzandosi a fatica per via della gamba.

    «Hai sentito, mammà? Torna Maddalena.»

    In piedi, sembrava altissimo. Aveva le spalle larghe e dure, il busto eretto, ma bastava vederlo muoversi, con quella gamba strascicante, per capire che la sua statura mascherava una specie di fragilità: aveva i passi lenti e legati d’un convalescente, l’incertezza spaesata d’un cieco, e si mosse a caso, urtando contro una sedia, che subito afferrò con le mani come sorreggendosi, e stringendone la spalliera girò gli occhi a guardarci uno per uno. Aveva gli occhi cupi e disperati ma la voce sfrontata:

    «E tu hai sentito, Andrea? Maddalena ritorna domani.»

    Non feci in tempo a dire qualcosa: Giulia commentava ironica:

    «La famiglia si ricostituisce.»

    «Già» replicò subito il fratello ridendo. «Chi lo sa se torna pure Gregorio?»

    Anche Giulia stavolta non fece in tempo a ribattere, sua madre la preveniva: conficcati con un gesto d’autorità i ferri nella lana e abbandonato il lavoro sullo sgabello, la signora Giuditta aveva battuto leggermente le mani imponendo il silenzio, e poi s’era alzata con studiata lentezza, come per far capire il peso del proprio dominio e ristabilire una sorta di equilibrio. Ma disse a sua volta involontariamente stridula:

    «Un momento, che cosa vi prende? Vorreste mettervi a litigare, adesso?» E dopo un impercettibile indugio: «Da dove viene il telegramma, Giulia?» E ci nascondeva, ora, la vista del busto di bronzo.

    L’espressione di Giulia mutò: un attimo prima s’era inasprita alle parole del fratello, adesso ridiventava passiva ed assente e di nuovo un po’ ambigua. La vidi chinarsi verso il foglietto spiegato sul tavolino e mormorare:

    «Da Roma.» Poi abbandonò anch’essa il lavoro e si aggiustò sulle spalle la giacca di lana e mi parve che si girasse un momento verso di me.

    Non potrei dirlo con sicurezza: io mi tenevo alquanto in disparte, senza intervenire in quella disputa familiare, e tuttavia vi assistevo con un batticuore invano combattuto che diventava anzi a poco a poco violento, sino a soffocarmi, probabilmente perché mi sforzavo di prevedere gli avvenimenti che l’arrivo del telegramma poteva provocare.

    Come sempre mi capita nei momenti più difficili, o almeno in quelli che richiederebbero una più vigile attenzione, già m’astraevo lasciandomi trasportare dalla fantasia a immaginare quali sviluppi avrebbe causato il ritorno di Maddalena: e da quando il telegramma era stato aperto non facevo, l’ho detto, che osservare la signora Giuditta, come se volessi spiare sul suo volto, e goderne, la presenza delle vecchie ferite appena rimarginate che quell’annunzio inatteso riapriva. A vederla così rigida e altera non potevo fare a meno d’ammirarla, devo confessare; e d’altronde in tutti quegli anni era stato questo il mio atteggiamento verso di lei: d’un’ammirazione sottomessa e forzata che diventava a volte una specie di servilismo, persino, pur sentendo d’odiarla, o almeno di non perdonarle il male che ne avevo ricevuto, e credo che anche i suoi figli, benché legati a lei da una connivenza di sangue e di mentalità, dovessero provare talvolta gli stessi sentimenti. Lei lo capiva e se ne faceva un’arma: ma in quel momento non ci vedeva e certo non pensava a questo: ripeté assorta:

    «Da Roma.» E Roberto disse ridendo:

    «È andata a far l’anno santo!» Per poi aggiungere subito dopo con un’intonazione tutta diversa e con un grido quasi rabbioso: «Ma perché torna?» E dovette sentire vergogna di quella confessione, gli occhi si nascosero frustati calandosi a guardare le mani, involontariamente: le videro bianche e inermi attaccate ancora allo schienale della sedia come a mendicare un appoggio, immobili che parevano prive di vita. Allora sussultò e disse alzando il capo, ormai senza più ritegni:

    «No, non voglio vederla, non deve tornare» col tono d’un bambino prossimo al pianto o alle volubilità d’un capriccio: anche lo sguardo era adesso colmo d’un infantile terrore che invece di nascondersi si offriva a prova del suo sbigottito dolore. «Non voglio vederla più, non bisogna farla venire sin qui. Non ne ha alcun diritto!»

    Disse Giulia, pacata, e forse un po’ ironica:

    «Tu dimentichi che Maddalena è tua moglie.»

    «E Gregorio?» lui gridò, ma sua madre già s’era alzata, gli si avvicinava lenta e sicura, gli levò le mani dalla sedia, sorrise.

    «Non devi gridare, Roberto. Ti fa male ed è inutile. Cerchiamo invece di parlare con calma, ragioniamo.»

    Egli si svincolò con violenza e andò a mettersi presso la vetrata; pareva sfuggisse le insidie d’un tranello. Come indovinavo il rancore anche nella sua voce sorda e ostinata!

    «Tu, mi proponi di ragionare, di parlarne con calma! E che devo dire? Di che cosa vuoi ragionare? Io non voglio vederla, Maddalena. Tu devi impedirlo.»

    «E va bene» accondiscese la madre. «Ma non pensare a questo, adesso.»

    «E a che cosa devo pensare?» egli disse avvilito e tremante.

    La signora Giuditta gli fu un’altra volta vicino, sedette, gli prese una mano e lo costrinse a sedere sulla poltrona di fronte. Si guardavano: lei sorrideva stranamente, ma gli occhiali celavano la reale espressione dei suoi occhi. Non li portava sempre: non so perché proprio quel giorno li avesse. E non so se si rendeva conto della disperazione di Roberto d’altronde così manifesta: mi pareva addirittura che sorridesse di compiacimento: certo d’amore, per lui. Questo dovette capirlo anche Giulia, che s’alzò a sua volta esclamando con la solita voce sprezzante:

    «Eccovi di nuovo vicini e alleati. Su, fate all’amore, adesso.»

    «Pensi a Gregorio, eh?» le rinfacciò per la terza volta vigliaccamente il fratello.

    M’accorgevo, senza riuscire a compatirlo, ch’egli mascherava la sua sofferenza, o per meglio dire se ne vendicava, risvegliando in Giulia gli stessi dolorosi ricordi ma quasi con l’aria di capovolgere l’immagine vera dei fatti perché lei fosse la sola a patirne. In realtà, di quant’era successo alcuni anni prima Giulia aveva sofferto soltanto nella sua vanità e perciò poteva rimbeccare facilmente il fratello e rimettersi, ad ogni colpo, in uno stato di superiorità:

    «E chi l’ha voluto, Gregorio? Tu e tua madre, lo sai: i vostri complotti, la vostra alleanza... Sembrava lei la fidanzata di Gregorio: piena di moine, di sorrisi, di premure... E poi lo sapevi che prima di sposarmi Gregorio amava Maddalena....»

    «No» la interruppe allora la madre: non fu un grido, eppure ci mancò a tutti il fiato, per un istante. «No» lei ripeté più calma «questo non devi pensarlo, Giulia.»

    La figliuola si strinse nelle spalle.

    «Credi che m’importa, o che mi dispiace? Io non ho fatto tragedie, ricordalo. Ed è Roberto che mi spinge a rettificare i fatti...»

    Mi sentivo impacciato, goffo, ferito. La mia posizione diventava delicata, adesso che li udivo rivangare cose vecchie e incresciose nelle quali io pure entravo per qualche maniera, avevo io pure la mia parte: capivo di dover intervenire e invece tacevo, in disparte: vi avesse pensato, in quel momento, la signora Giuditta avrebbe dovuto compiacersi dell’atteggiamento del suo ragioniere. Ero diventato dunque così estraneo a quel passato? Certo, molte sofferenze si erano ormai attutite, se io potevo ogni giorno tranquillamente – è la parola – recarmi alla villa, dopo le occupazioni al pastificio, e discutere con la signora Giuditta di affari e tenerla informata del lavoro quotidiano, trattenermi con Giulia e Roberto e parlare di cose indifferenti, qualche volta restare persino a cena con loro: e nessuno mai toccava con un cenno gli avvenimenti trascorsi: la stagione felice della nostra giovinezza al Castello, la storia complicata e patetica dei nostri amori, il reciproco fallimento dei loro matrimoni con Gregorio e Maddalena culminato con la fuga di Gregorio e Maddalena (un avvenimento che a Castellammare fu commentato per tutto un inverno), erano diventati ricordi sempre più scoloriti, permettendo alla signora Giuditta di riprendere a poco a poco sui figli, con un paziente e segreto lavoro, quel dominio fatto di affetto e d’autorità che adesso l’arrivo del telegramma minacciava di far crollare improvvisamente. Ella aveva avvertito il pericolo e si adoperava con abilità ad allontanarlo: nel mio contegno di spettatore all’apparenza spassionato e imparziale (adesso capivo), si nascondeva anche il piacere puntiglioso di vedere sino a che punto vi riuscisse, e perciò restavo in silenzio, attento solo ad ascoltare le loro reazioni.

    «Non t’attaccare alle parole di tuo fratello, Giulia» diceva la signora Giuditta con una fatua premura. «È un poco nervoso, è naturale che questa notizia l’abbia un poco innervosito, devi capirlo. Ma dobbiamo cercare di star calmi e uniti, per poter decidere qualcosa...»

    «Che cosa?» la interruppe Roberto ridendo. Avrei preferito che non avesse riso. La voce di Giulia era lontana, un poco contratta:

    «Vedetevela fra voi. Io non c’entro in tutto questo. Nel telegramma non si accenna a Gregorio...»

    Son certo che anch’essa sosteneva in quel momento una lotta coi propri sentimenti: era turbata, e cercava di nascondere, frenandoli con un contegno possibilmente spavaldo, quegli impulsi di orgoglio, di disinganno, e forse di commozione, che dovevano averla intimamente agitata. Ma la madre non se ne accorse, troppo intenta a sorvegliare Roberto e temendo da un momento all’altro uno scatto o, peggio, una crisi.

    Suonò lontano il fischio del treno e udimmo il rumore dell’accelerato che lasciava la stazioncina di Pioppaino slanciandosi in discesa lungo i binari, i vetri ne rintronarono e Roberto girò il capo verso la veranda d’ingresso. Dopo, la sua espressione risultò leggermente alterata: forse si era domandato se Maddalena domani sarebbe tornata col treno, aveva nuovamente pensato a lei (ammesso che per un attimo se ne fosse distratto), e ancora il morso della sofferenza lo spingeva, derelitto e caparbio Sansone, a coinvolgere gli altri nella propria disperazione. Sicché disse:

    «Perché vuoi escluderti?» Si rivolgeva a Giulia ma parlava anche alla madre, cominciava a metterla in stato d’accusa. «Solo perché Gregorio non l’hai voluto, come dici? Nemmeno io volevo più Maddalena...»

    «Tu l’hai sempre amata» gli troncò la parola la signora Giuditta, afona. Egli negò anche col capo.

    «No, allora non più. Hai dimenticato tutto quello che c’era stato in mezzo? E poi ero appena tornato dalla prigionia, non mi hai fatto neppure godere un poco di libertà...»

    «Roberto!»

    «È così. Perché ti ribelli? Non te ne faccio una colpa, del resto. Mi prendesti in un momento di stanchezza, tornavo allora a Castellammare: ero sbandato e disorientato, e volli mettermi subito davanti al fatto compiuto perché tu non cominciassi un’altra volta a disporre dei miei sentimenti...»

    «Roberto!»

    Questa volta lo aveva interrotto la sorella, Giulia, con una veemenza di cui non la supponevo capace. La signora Giuditta taceva ma si capiva che le parole del figlio l’avevano ferita: e non lo guardava: teneva chini sul lavoro i suoi occhi azzurri e cangianti e un sorriso le stirava le labbra illuminando gli occhiali d’un vacuo riflesso. I gesti rapidi e precisi del suo lavoro a maglia la costringevano a sedere con il busto eretto: la posizione le facilitava un atteggiamento di superiorità.

    «Lascialo parlare, Giulia. È meglio che si sfoghi.»

    «Sfogarmi?» disse Roberto, implacabile. «E credi che questo risolve qualcosa? Ormai il male è fatto: tu l’hai voluto. È giusto che tu, domani, riceva Maddalena e le chiedi perché è tornata. Io non voglio vederla più.»

    Nel silenzio che accolse tali parole, ascoltammo la soneria dell’orologio sul caminetto, si erano fatte le sei, ascoltammo i sei colpi contandoli mentalmente come se quella numerazione soltanto ci avesse persuasi dell’ora. La luce era pressoché uguale nella stanza, a causa del colore delle tende, ma certamente in giardino cominciava a declinare ritraendosi sulla sommità delle piante. La signora Giuditta d’un tratto allontanò il lavoro verso la figlia.

    «Per favore, Giulia, m’è scappata una maglia e non riesco a riprenderla. Tu ci vedi meglio: vuoi provarci?»

    Giulia si alzò in silenzio a prendere i ferri: il lavoro della madre era una giacca di maglia rossa sulla quale Roberto posava ostinatamente lo sguardo, quasi desideroso d’aizzarsi, come un toro, alla vista di quella tinta, per porsi in uno stato d’eccitazione sempre più irriflessiva e ingiustificata:

    «La riceverete insieme, tu e Giulia. Mi piace, la superiorità di Giulia: fa la magnanima, è comodo. Così credi di passare sopra alle porcherie di tuo marito?»

    Dapprima Giulia, con la fronte aggrottata, si curò di rimettere sul ferro la maglia caduta – le bacchettine ebbero appena un tremito sommesso – e poi porgendo il lavoro alla madre disse tranquillamente:

    «In ogni caso Gregorio ti ha reso la pariglia.» Era una perfida e scoperta allusione a Clelia e agli avvenimenti trascorsi, e sua madre gridò impallidendo: «Giulia! Ti proibisco di...»

    «Che cosa, mi proibisci? Se non vuoi che parli quando si rivolge contro di te, lascia almeno che mi difenda per la mia parte.»

    Allora intervenni io: si trattava di questioni di famiglia e per questo sinora avevo creduto opportuno tenermi in disparte, ma a vedere come si rinfacciavano gli errori di quel passato di cui erano tutti, insieme, i responsabili, ero stato preso nel giuoco e sommerso dai risentimenti. L’ho detto, in quel passato c’era pure la mia parte, e adesso insorgevo: forse avrei dovuto tacere, lasciare che da soli si tormentassero a rimestare nelle sabbie mobili delle loro colpe, ma il dolore accumulatosi dentro di me straripava, a un tratto, e non mi potevo arrestare: se ci sono delle sbarre create intorno a noi dall’abitudine, dalla convenienza o solo dal tempo, io sentivo che in quel momento le mie sbarre cedevano: mi trovavo indifeso, ma anche più libero. Ne profittai subito, con un’ebrietà ch’era in fondo ancora la misura del mio temperamento ingenuo e libresco:

    «Ti sbagli, Giulia. Avresti dovuto difenderti allora.»

    Mi guardarono tutti, allibiti, lei più degli altri sorpresa: e anch’io sul momento restai frastornato, da quel tu che da molto tempo, ormai, non le davo più. Roberto fu il primo a riprendersi, probabilmente credendo d’avvertire nel mio intervento se non una manifestazione di complicità uno stato d’alleanza.

    «Bravo Andrea, hai ragione. Che cosa vuoi difendere più, Giulia?»

    Giulia non rilevò le parole del fratello: mi squadrava ancora stupita e in silenzio, e rassomigliava tanto alla madre in quell’attimo, ch’io mi chiedevo, infastidito, perché avessi parlato: e tremavo, sebbene non volessi farne accorgere, mentre a poco a poco l’eccitazione mi lasciava asciugandosi sulla mia pelle come un sudore. Rassomigliava tanto alla madre che quando questa parlò, ferma, impettita, e in definitiva ridicola, io potei pensare per un istante che parlasse lei, e di provare soltanto un leggero e compassionevole disgusto fui in fondo contento. La signora Giuditta, levandosi gli occhiali e riponendoli in petto nel taschino della giacca di lana, e assumendo un contegno di dignità offesa che invano s’adagiava nella voce sostenuta, mi diceva un po’ seccamente:

    «Il vostro tono mi stupisce, ragioniere: vi confesso di non capire che cosa vogliate dire. Stiamo parlando di cose di famiglia e non dell’azienda, e mi pare per lo meno inopportuno interloquire.»

    Ma, senza gli occhiali, quell’espressione d’alterigia diventava quasi spaurita, forse perché ora non mi faceva più tanta paura. Con un gesto impaziente Giulia le aveva fatto cenno di zittire, accennando a parlare e impedendomi così di replicare, e continuava a guardarmi, e adesso la durezza di quello sguardo metallico si scioglieva raddolcendosi quasi contro voglia in una sorta di torbido e abbandonato languore: e che fosse commossa, potevo capirlo anche dalla voce stonata:

    «No, mammà. Ti ostini a chiamarlo ragioniere, e credi di mettere una distanza, fra te e lui: ma non puoi dimenticare che un tempo anche tu lo chiamavi per nome, Andrea....»

    «E con questo?» esclamò sua madre quasi in tono di sfida, alzando le spalle. Io vedevo le bacchettine di ferro incrociarsi vertiginosamente fra le dita nervose, fissai per un attimo la maternità di bronzo che la sovrastava alle spalle: dissi opaco, più con l’aria di difendermi dalle insidiose punture della memoria che non con quella di volerla rassicurare:

    «Quel tempo è passato, ormai, è lontano...»

    «E il telegramma di Maddalena?» ribatté pronto Roberto dal suo posto. «Se lei torna ricominceremo da capo.»

    Toccò a me di stringere le spalle e alzarle con un gesto d’indifferenza; e poi dissi:

    «Questo riguarda voi. Sono cose di famiglia, come ha osservato giustamente la signora Giuditta.»

    Giulia, in piedi in mezzo alla stanza, si fissava lo smalto delle unghie, con la mano alzata a pugno quasi all’altezza del petto, e pareva verificare sino a che punto avesse le dita curate: ma sentivo, anche dal suo silenzio, d’averla ferita, e che quel tempo ch’io avevo detto lontano riaffluiva invece, come un rigurgito, nei suoi pensieri.

    «Non voglio vederla» ripeteva ostinato Roberto «domattina me ne vado. Vado a Napoli o a Sorrento o al diavolo, ma non voglio vederla. Perché torna? Perché me l’hai fatta sposare?» Gridava nuovamente contro sua madre, la quale alzò verso di lui uno sguardo che pareva persino innocente: le capacità di recupero della signora Giuditta erano straordinarie e continue, non si poteva mai essere sicuri d’averla messa con le spalle al muro, certamente non erano i suoi figli ad avere una tale possibilità.

    «A me lo chiedi? Tu le hai sempre voluto bene...»

    «Non è vero» disse Roberto alzando la voce. «Che ne so quando le ho voluto bene e se era vero? Tu hai sempre comandato sui miei sentimenti.»

    Il volto della signora Giuditta si accendeva e si spegneva passando da un sorriso di compatimento a un’espressione di serietà con l’automatica intermittenza d’un congegno di segnalazioni.

    «Hai una maniera di definire le cose abbastanza personale.» I suoi denti bianchi e perfetti lucevano stranamente. «Accusa pure la tua debolezza, se ti fa piacere» ridiventava contegnosa e severa «ma ti prego di tenere a mente» e di nuovo in fondo agli occhi le balenava un sorriso quasi cattivo «che ho sempre avversato il tuo matrimonio con Maddalena...»

    «Quando?» la interruppe Roberto. «Anche quando dovevo spianare la via al matrimonio di mia sorella?»

    «Basta» gridò Giulia tappandosi le orecchie. «Basta, non voglio che parliate più di me. Finitela, una buona volta!»

    «Ah,» disse amaro Roberto dopo un momento «hai paura di perdere qualcosa, è così?»

    Giulia lo guardò e parve chetarsi, ma la sua voce restava aspra: «Io non ho nulla da perdere.»

    «Lo so,» replicò pronto il fratello «tu sei quella che non perde mai nulla: tu trovi sempre da guadagnare. Mentre io!... Perché me l’avete fatta sposare?»

    Questa volta sua madre lo fissò senza rispondere. Io sentivo che qualcosa ormai stava succedendo fra noi: le parole di Roberto avevano creato l’irreparabile, e quel passato sempre con cura gelosa evitato e nascosto, si ripresentava davanti alle nostre coscienze e sarebbe stato impossibile tirarsi indietro, adesso. Di più: vi eravamo andati incontro quasi con una sorta di voluttuosa attrazione, e il presentimento ch’esso sarebbe tornato fatalmente in mezzo a noi, annunziato dal telegramma di Maddalena, ci aveva indotti a discutere con una carica di risentimenti, di ricordi, e di pene, da temere, adesso, che potesse riuscirne compromessa non che la validità, la definitiva ed esatta natura. La stessa signora Giuditta, ch’era solita uniformare la vita familiare alla norma di non parlar mai delle cose spiacevoli, per la prima volta, quel pomeriggio, abdicando a tale regola lasciava intendere che non si sarebbe sottratta al giuoco delle responsabilità, probabilmente perché era troppo convinta della buona fede della propria condotta: eppure s’insinuava nelle sue parole l’eco d’una lotta segreta e si capiva ch’ella sfidava il figliuolo a ricordare quegli avvenimenti lontani soltanto per estrarre un significato a quanto dopo era seguito. Questo aveva dovuto costituire il suo assillo, in quei tre anni: potrei dire il suo rimorso? Lo pensai per un attimo avvertendo una cupa risoluzione vibrare nella voce falsamente provocatoria:

    «Hai dimenticato tutto quello che hai fatto per poterla sposare? Posso rinfrescarti la memoria, se credi.»

    «E a che serve?» disse Giulia aggressiva. «Smettetela: è ridicolo, adesso, fare il processo al passato.»

    La signora Giuditta sfoderò un sorriso di trionfo e di gioia davanti alla palese reticenza del figlio.

    «Lo vedi? Non hai più nulla da dire: o hai paura di parlarne?»

    «Io, paura?» esclamò Roberto fissandola a lungo, ma lo sguardo e la voce smentivano le parole ribelli: e io tremavo come se mi sentissi vicino a una specie di rivelazione.

    Sì, avevano tutti paura a parlare, e al tempo stesso si provocavano a farlo, spinti (son

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