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Il sogno di Toloma
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E-book227 pagine3 ore

Il sogno di Toloma

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Info su questo ebook

Nicky, studente universitario italo-canadese di terza generazione è afflitto da depressione della quale non riesce a individuarne la causa. È il suo un malessere generale della società contemporanea o un suo malessere personale? Né le occasionali avventure con Alba né quelle più sentimentali con Emily riescono a sganciarlo dal suo disagio esistenziale. Solo l’affetto del nonno paterno riesce a lenire la sua sofferenza. Il rapporto con quest’ultimo sdoppia la storia portando lo sviluppo della narrazione su due piani: se da una parte si racconta la storia di Nicky, figlio di siciliani emigrati in Nordamerica, dall’altra espone la saga della sua famiglia, i Nicoterra, che ha inizio in Sicilia verso la fine dell’Ottocento e si protrae nel Nuovo Continente fino alla fine del ventesimo secolo. Le descrizioni utopiche di Toloma, villaggio d’origine del nonno, vengono percepite dal giovane come antidoto al suo malessere quotidiano  al tempo stesso che aggregano al tema della nevrosi quello della crisi d’identità e della ricerca delle radici. Nicky s’impegna a tradurre e far suo il diario che riceve in eredità dal nonno, di modo che, la vita del nipote s’intreccia con quella dell’anziano. Storie di due mondi che si snodano in tempi diversi, che cozzano tra di loro, ma che s’intrecciano in modo felice e coerente. La vita di Nicky si svolge in un mondo più agiato e consolante, quello dei nostri giorni. Tuttavia, essa rimane ben lontana dal realizzare le mete agognate dal primo Nicoterra. Se da una parte il romanzo rappresenta la saga della famiglia, i cui personaggi, per cinque generazioni si trascinano per i vicoli della storia, per le insidie del destino; dall’altra è concentrato sulla interiorità e sulla nevrosi di Nicky, da cui è messo in crisi il tema dell’identità e delle radici, le quali non possono da sole risolvere le turbe del giovane, che sono il riflesso del più generale caos esistenziale dell’attuale civiltà post moderna.

 
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2017
ISBN9788868225483
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    Anteprima del libro

    Il sogno di Toloma - Nino Famà

    Collana

    Romanzi

    diretta da

    Alberico Guarnieri

    NINO FAMà

    IL SOGNO

    DI TOLOMA

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    ISBN:978-88-6822-548-3

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Il sogno di Toloma è un’edizione ampliata e modificata sia nello stile che nella struttura de La stanza segreta, pubblicata da Sciascia editore nel 2004.

    C’è una ragione perché sono tornato in questo paese…

    Cesare Pavese, La luna e i falò

    Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori.

    Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi;

    furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.

    Da molto tempo questo, ed ero col capo chino.

    Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

    … porque he oido decir que esta que llaman por ahí Fortuna es una mujer borracha y antojadiza, y,

    sobretodo, ciega, y así no vee lo que hace,

    ní sabe a quien derriba ní a quien ensalza.

    Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha

    Prefazione

    Nel primo capitolo de Il sogno di Toloma, Nino Famà pare avvertire il lettore della necessità di una bildung ineludibile e dolorosa attraverso la memoria per la riconquista di una identità. Questa memoria non è agita solo come recherche ma come discesa agli inferi, lancinante fino alle proprie radici; è una memoria-bolo perché il protagonista sarà costretto – a suo stesso dire – a rigurgitare il passato come un cibo mal digerito. È posto in questo modo il profilo del narratore-protagonista, nonostante Famà si sforzi di evitare ogni sovrapposizione. Questa sorta di manipolazione del vissuto – c’è una eco della sveviana coscienza di Zeno nel rapporto con lo psicanalista – rimanda ad un’altra manipolazione: quella letteraria. All’inizio di tutto c’è infatti un manoscritto (il diario del nonno in questo caso), uno scartafaccio, alcune carte che sono allusioni ad un topos letterario: si pensi a Cervantes (citato in epigrafe) e a Manzoni. Lo stesso protagonista Nicky, giovane studente di filosofia, comincerà a trascrivere il diario del nonno. Il fatto che avvenga in una anonima città del Canada, in uno di quei non-luoghi per eccellenza, come li chiama Marc Augè, è sintomatico del contrasto tra una interiorità affamata di radici e un contesto assolutamente anonimo: da cui si fugge, per esempio, con il cinema: Nuovo Cinema Paradiso è indicativo della scelta-ricerca. A questo proposito è emblematica la figura del padre un meccanismo che gira in folle, come il tempo che non si aggancia alla realtà con cui il protagonista vive un rapporto assai ambiguo. Mario, il fratello, è un errante alla ricerca di se stesso, lontano dalla memoria della famiglia: un estraneo insomma. Il nonno, invece, presente in quasi tutte le pagine del libro, è una sorta di genius loci della narrazione: ogni pagina del libro ne trasuda la presenza.

    Ovviamente ogni traduzione attesta una sorta di tradimento: eppure la lettura-trascrizione non solo diventa una ossessione (nel capitolo 16 il protagonista ci ragguaglia sulla ‘metodologia’ della riscrittura) ma permette una sorta di ritrovamento anche della famiglia: non è un caso che lo studente Nicky scelga una materia – Storia italiana dall’unificazione al presente – che possa ricondurlo alla terra dei suoi antenati. E la sua non è solo la storia della famiglia Nicoterra e di Toloma (anagramma di Maloto) ma quella delle classi subalterne, le vicende di coloro che gridano dai sotterranei della storia: braccianti, contadini, proletari e che guardano la Storia – la Prima e la seconda Guerra Mondiale, la nobiltà esangue ma ancora potente, l’avvento del Fascismo e di Mussolini eminente sovrano dal volto olivastro, la moderna realtà globalizzata e piatta – con occhi disincantati e passivi. Insomma Famà ci restituisce immagini di una Italia rurale che ormai non esiste più: una sorta di Albero degli zoccoli piantato molto più a Sud.

    C’è in tutto il romanzo un’aura magica – si pensi a Don Mico, questo piccolo essere soprannaturale, un elfo che sistema le stagioni – una dimensione favolistica, quella cosmica corrispondenza cara a Giuseppe Bonaviri. Ed è proprio in riferimento alla dimensione bonaviriana che emerge un altro personaggio davvero singolare: Mastro Paolo, venditore ambulante; il giullare, il cantastorie, la fonte di ogni informazione. È una di quelle figure senza tempo che percorrevano ancora le strade dei paesi del Sud non più di sessanta anni fa e che rappresentano antropologicamente il legame con un mondo altro e lontano ma che è percepito e individuato solo attraverso i suoi racconti e le sue magie: la gente viveva al di là di quella zona, i tolomesi ridevano e pensavano che si trattasse di storie immaginarie, di fantasticherie che quel mago di don Paolo voleva far passare per vere. Se a volte parlava di macchine per lavorare i campi, o capaci di fare altri lavori pesanti, loro rispondevano che ne avevano sentite tante di quelle balle e che ora non avrebbero creduto alle frottole che egli andava raccontando. Insomma, era come se Toloma fosse rimasta al di fuori di ogni forma di progresso.

    Anche il paesaggio gioca un ruolo importante nel romanzo. Un paesaggio al tempo stesso paradisiaco ed infernale, fatto di gente triste, paesi poveri, sole scottante, vento scirocco, terre arse; non capisco perché la gente resti ancora lì… e che fa la spola tra l’irrimediabilità che Tomasi di Lampedusa denunciava e squarci alla Turner: Intanto le nuvole incominciavano ad allontanarsi e attraverso gli squarci d’azzurro si potevano vedere i bagliori del tramonto, ma nelle montagne adiacenti persisteva una bruma bianca, il vapore che scaturiva dalla terra si appiccicava alla loro superficie sottraendo alla vista la loro maestosa e imponente esistenza.

    Nell’apparente deluge finale, quasi inarrestabile avviene però l’agnizione, l’autoriconoscimento del protagonista: Nicola era stato il nome di mio nonno, era stato il nome del mio antenato ora al sentirmi chiamare con quel nome fu come se all’improvviso la mia esistenza si permeasse d’una realtà che sempre era stata latente nella mia vita e che ora, tramite le memorie di mio nonno, mi collegava ad un passato che, lo volessi o no, era nel sangue che scorreva nelle mie vene. L’atomo sganciato che Nicky sente di essere può dunque trovare ancora radici proprio in quei valori trasmessi dal nonno, lì dove le sue ansie vanno a dissetarsi. Possono trovare consistenza proprio in quella stanza segreta del nonno: che custodisce con gli odori, coi semi, con i ricordi della propria terra, l’arca di una appartenenza che non a caso è quella evocata dalla citazione iniziale da La luna e i falò. Essa richiama le credenze della popolazione contadina che, anche dopo la guerra, crede che il risultato positivo o negativo del raccolto sia determinato dalla posizione della luna e dai falò, così come il protagonista, prima della partenza: egli pensava e viveva come tutti i contadini del paese. Al suo ritorno a casa, dopo aver fatto fortuna oltreoceano, ormai cresciuto anche culturalmente, non crede più, ma si rende conto che la mentalità contadina non è affatto cambiata: quegli uomini prestano fede alle stesse credenze popolari, si comportano ancora allo stesso modo, ma capisce anche che la (sua) vita potrebbe perdere di sapore e di significato senza la luna e i falò.

    Il finale del romanzo di Famà, volutamente ambiguo, lascia poi spazio a quella fortuna sotto la cui stella si dipanano gli avvenimenti umani: non è un caso che nell’incipit del romanzo, citando il Cervantes del Don Chisciotte ma rifacendosi ad un concetto rinascimentale (che trova pure spazio in un capitolo del Principe di Machiavelli), Famà scriva che la Fortuna es una mujer borracha y antojadiza. Allo stesso modo la presenza di altri due scrittori che hanno fatto duramente i conti con le loro radici ed il loro passato – Vittorini e Pavese, come abbiamo già scritto – chiude il cerchio della sua cifra ideologica e narrativa: se gli astratti furori di Conversazione in Sicilia consentono a Famà di narrare le speranze e il dolore del mondo offeso è certo il Pavese de La luna e i falò ad offrirne una possibile chiave di lettura. Parafrasando ciò che Calvino scriveva a proposito di quel romanzo, anche Il sogno di Toloma ruota intorno a un tema nascosto, a una cosa non detta che è la vera cosa che egli vuol dire e che si può dire solo tacendola.

    Ma al di là di questo silenzio, discreto e addolorato, l’incertezza e il vuoto – materiale (dopo la vendita della casa paterna); interiore e relazionale (la lontananza dei familiari superstiti) – diventano l’unico orizzonte per Nicky. Anzi, lo spostamento (tutto chisciottesco ma privato dell’ironia di Cervantes) verso il sogno, verso il vagheggiamento, ne sottolineano un esito incontrovertibile: Il viaggio mi ha reso più consapevole che solo nei miei sogni, nelle mie illusioni, attingo a quella identità che appaga la mia esistenza. Nicky si trasforma in una sorta di inetto sveviano: non è certo casuale il ricorso del protagonista all’analisi psicoanalitica e, nello stesso tempo la coscienza dell’inutilità delle sue terapie: saccheggiato e da emozioni sempre più intense ed estenuanti (dopo l’incontro col suo analista) comprende che la vita è una malattia da cui non è possibile guarire: Mi sentivo un escluso e mi abbandonai a quel lento intorpidimento della mente, come in preda alla narcosi.

    Giuseppe Condorelli

    1

    Ci sono dei momenti in cui le cose sembrano perdere ogni significato. Dopo la morte di mio nonno il mondo si era appesantito, era diventato più lugubre. Ogni giorno che passava la mia vita prendeva nuove pieghe, nascevano nuovi dubbi, come se il tempo covasse in me le sue uova maligne.

    Non sapevo se, al di là delle mie vicende personali, il mio malessere non fosse esacerbato anche dall’incertezza generale che avviluppava i nostri tempi. Il senso di desolazione e di abbandono continuava a logorarmi l’anima: non riuscivo a capire che volto avrebbe assunto il futuro, quali speranze ci avrebbe portato, quante nuove angosce sarebbe stato necessario affrontare.

    E anche se le mie ansie erano uguali a quelle di tanti altri, credo fossero state le mie vicende personali a farmi precipitare in quella spirale d’inquietudine che accompagnava le mie giornate.

    Le mie afflizioni avevano avuto inizio quando mio padre e mia madre avevano deciso di andarsene ognuno per i fatti propri. All’inizio, dopo la separazione, continuarono ad abitare nella stessa città, ma qualche mese dopo, ottenuto il divorzio, mia madre se ne andò a vivere a Winnipeg con un uomo d’affari che aveva conosciuto qualche anno prima. Da allora, ed erano trascorsi tanti anni, l’angoscia provata in quei giorni non mi consentiva di andare a trovarla. Lei si era offerta più volte di pagarmi il viaggio, ma io non avevo ceduto. L’avevo rivista solo un paio di volte quando, con suo marito, era tornata da queste parti per affari.

    Mio fratello Mario e mia sorella Emma erano allora già maggiorenni e preferirono andarsene per conto loro; io rimasi con mio padre, almeno fino al termine dei miei studi. Dopo tutto, anche se non ero proprio contento, quali alternative mi rimanevano? Abitando con lui avrei potuto continuare a frequentare la stessa scuola e non avrei dovuto abbandonare i miei amici. Allora avevo dodici anni e queste erano considerazioni importantissime.

    Con mio padre non c’era mai stato un rapporto di affetto come quello tra padre e figlio. Non so se anche lui fosse rimasto frastornato dall’assenza di mia madre. Queste cose se le era tenute sempre per sé, di mia madre non aveva mai parlato, non so se per evitarmi qualche dispiacere o perché rievocare il passato lo faceva cadere nel malumore. Comunque sia, ci accomodammo ognuno nella propria personale solitudine e, se da un lato non vi furono manifestazioni di amore reciproco, dall’altro non vi furono mai scontri seri al di là di qualche raro conflitto o di qualche temporanea baruffa.

    L’affetto che mi mancava in famiglia andavo a cercarlo da mio nonno. Da quando era rimasto vedovo, non si era mai allontanato dalla vecchia casa nella quale aveva vissuto per tanti anni e lì mi accoglieva sempre con grande gioia.

    Era strano che la sua morte mi avesse causato tanta sofferenza. Sebbene non fossi più un adolescente, provavo un dolore lancinante quando pensavo che d’ora in avanti non avrei sentito più la sua voce e non avrei visto più il suo viso di vecchio fanciullo. Diceva sempre che avrebbe voluto vivere per vedere il nuovo millennio. Non ce l’aveva fatta. Ma, a onor del vero, non credo che avesse perso granché.

    Certe volte pensavo che di quella mia fragilità non ne sarei mai venuto a capo. Anche il mio medico, con tutte le sue domande e relative risposte, mi dava l’impressione di brancolare nel buio. Erano mesi che andavo a trovarlo ogni settimana per quelle che lui chiamava sedute terapeutiche, ma che a me parevano sempre di più una inutile perdita di tempo. Tuttavia continuavo ad andarci, sentivo il bisogno di avere qualcuno con cui parlare.

    A volte capitava che quelle visite si tramutassero in un vero e proprio tormento. Mi facevano cadere in un’angoscia insopportabile che si trascinava dentro di me fino alla seduta successiva. L’ultima volta che ci eravamo visti, i miei nervi non avevano retto.

    Tutto aveva avuto inizio quando, dopo un breve dialogo introduttivo, eravamo giunti al nocciolo della questione.

    – Per comprendere bene il problema – aveva cercato di spiegarmi il mio analista – bisogna arrivare in fondo, risalire un po’ nel tempo e giungere alle origini. Quanti anni ha detto che aveva quando i suoi genitori hanno divorziato?

    – Uffa! Camminiamo, camminiamo e rimaniamo sempre al punto di partenza; non ne voglio più parlare.

    – E invece è importante che ne parliamo. Le fa ancora male parlarne, vero? Mi dica la verità, su, mi dica: quanti anni aveva?

    – Ma gliel’ho detto già, ne avevo dodici.

    – Mi descriva la sua prima sensazione quando ha saputo che i suoi genitori si sarebbero separati definitivamente.

    – Sono cose ormai lontane, dottore.

    – Lei le deve ricordare.

    – È un passato chiuso a chiave, ormai, seppellito, capisce? Mettiamoci una pietra sopra e basta.

    – Non si arrabbi, Nicky, deve tirare fuori tutto, vedrà, le farà bene. Le sue parole sono ancora rigonfie di amarezza, di dolore, di risentimento, non se ne accorge? Tiri fuori tutto, Nicky. Immagini che dentro di lei ci sia una sorta di contenitore pieno di cose vecchie, fuori uso; lei crede che non diano alcun disturbo, però ingombrano. Pur non accorgendosene sono un peso che si tira dietro. Mi ascolti: bisogna ripulire tutto, disinfettare e ricominciare da capo. Non abbia alcuna vergogna, dica tutto, come se si stesse confessando; non abbia paura se la assalgono delle forti emozioni, non tema le lacrime, immagini che è tutto un marciume che adesso viene fuori, e che solo così la sua ferita si potrà risanare. Ora si rilassi e lasci che il suo passato le si presenti in modo naturale, come rigurgitare un pasto mal digerito.

    – Fu come se all’improvviso il mondo si fosse capovolto, come se la fine fosse in vista. Tutto ciò che prima sembrava normale perdette il suo senso: mi sentivo come se stessi per precipitare nell’abisso, non vi era cosa o argomento che mi facesse riacquistare l’equilibrio. Tutto questo si svolgeva dentro di me, non avevo voglia di parlarne con nessuno; se qualcuno mi chiedeva spiegazioni rispondevo che tutto andava bene, che tutto era a posto, mentre dentro di me quelle domande avevano lo stesso effetto del sale su una ferita.

    – Per quanto tempo ha provato questo senso di desolazione?

    – Perché mi fa queste domande? Lei stesso mi dice che la mia inerzia, le mie inquietudini sono residui recalcitranti di esperienze passate e ora torna a chiedere cose che già sa, come se mi volesse prendere in giro, come se volesse saccheggiarmi l’anima.

    – Mi scusi se le mie domande le hanno dato questa impressione, ma le posso assicurare che quelle non erano le mie intenzioni. Mi dica, dopo qualche tempo si sarà rassegnato, avrà capito che tutto era andato per il verso sbagliato, ma avrà accettato ciò che era accaduto come un inevitabile gioco del destino.

    – Non credo di poter trovare parole adeguate per descrivere tutto ciò che ho provato. Dopo un po’ di tempo ho incominciato ad andare sempre più spesso da mio nonno. Mia nonna era morta da poco, ma quando arrivavo io mi accoglieva sempre con un bel sorriso. Sembrava così contento di vedermi.

    – E lei era contento di vedere suo nonno?

    – Era diventato così importante vederlo, non mi so spiegare... il suo sorriso... la sua accoglienza... stare in sua presenza mi dava un senso di sicurezza. Credo che mi volesse veramente bene, l’unica persona che non suscitasse in me alcun dubbio, nessun sospetto della sua sincerità. Allora pensavo solo

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