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Le città dei sogni: Racconti del nostro tempo
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Le città dei sogni: Racconti del nostro tempo
E-book333 pagine4 ore

Le città dei sogni: Racconti del nostro tempo

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Info su questo ebook

Ci sono viaggi che si possono percorrere anche stando comodamente sul divano, attraverso la meraviglia delle parole e dei frammenti di vita che le compongono.

Le città dei sogni ne è un esempio lampante. È un testo che rappresenta un vero e proprio peregrinare, sia fisico, sia interiore. Un viaggio che, grazie alla capacità e alle parole dello scrittore, ci permette di entrare in contatto con numerose città e la loro bellissima e intensa storia, consentendoci di conoscere numerosi personaggi, grazie agli strumenti narrativi di cui si serve sapientemente.

Un percorso che trasmette emozioni ed entusiasmo in chi lo “intraprende”, magari la medesima emozione che ha provato l’autore nel descrivere quei luoghi, perché, come afferma, «spesso i veri protagonisti non sono le persone, ma i luoghi…», in un mondo in cui passato e presente sembrano scivolare tra le mani grazie a una sapiente costruzione narrativa che fa uso di efficaci flashback.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2021
ISBN9791220801904
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    Anteprima del libro

    Le città dei sogni - Marcello Tarozzi

    2020

    INTRODUZIONE

    Già nella breve Nota dell’autore, che ha il compito di illustrare il profilo dell’opera, Marcello Tarozzi confida che recenti esperienze di viaggio, significative ed emozionanti, l’hanno portato a esprimere per la prima volta la sua capacità creativa con la parola scritta.

    « Queste pagine rappresentano una sfida. Prima d’ora non avevo mai scritto qualcosa di veramente importante, poi, per una vicenda personale, il coraggio di fare questo passo è arrivato.»

    Ora quel coraggio l’ha trovato, un coraggio fresco e inatteso che lo ha spinto a gettarsi nella scrittura con un fervore creativo e un impeto quasi famelico. Personaggi, luoghi, eventi si susseguono incessantemente nei racconti palesando una fantasia inesauribile e un indiscutibile piacere nello scrivere.

    Ventiquattro città e luoghi d’Europa – tra esse la natia Imola – offrono lo spunto per raccontare ventiquattro storie complesse e sorprendenti dove gli elementi fantastici, surreali, onirici irrompono nel mondo reale sconvolgendo la vita dei protagonisti.

    Italo Calvino sosteneva che nella vita di tutti i giorni esistono aspetti inquietanti, inaspettati, che spesso non si riesce a comprendere ma che possono trasformarsi in straordinarie opportunità per tessere trame narrative inedite e imprevedibili. Per definire questo genere di storie e distinguerlo dal cosiddetto fantastico visionario caratterizzato da apparizioni di fantasmi, esseri sovrannaturali, atmosfere cupe e tenebrose, Calvino ha coniato un’espressione molto calzante e suggestiva, «fantastico quotidiano», che mi pare si addica perfettamente allo stile di Marcello.

    Nella sua scrittura, infatti, gli elementi visionari e surreali irrompono nella vita quotidiana dei protagonisti, sconvolgendola mentre in altri generi definiti comunemente fantastici (in particolare nella fantascienza e nel fantasy) l’obiettivo, al contrario, è allontanarsi dal reale.

    Si parte sempre da personaggi normali, diversi l’uno dall’altro (un ingegnere triste, un odontoiatra melomane, un postino immigrato, una funzionaria della Commissione europea, un commerciante di pelli all’ingrosso…) di cui si tratteggiano le caratteristiche fondamentali per inserire poi gradualmente nella loro vita quotidiana sogni premonitori, elementi di inquietudine, apparizioni improvvise, atmosfere oniriche che costringono il lettore a non distrarsi più nel prosieguo dalla lettura per non perdere l’orientamento e il senso della storia.

    Queste inaspettate invenzioni narrative sembrano ostacolare la decodifica della fabula, ovvero dell’ordine logico-cronologico degli avvenimenti ma, allo stesso tempo, avvincono e incuriosiscono il lettore che non comprende come, quando e dove uscirà dal labirinto.

    Ecco quindi delineati gli elementi essenziali di uno schema compositivo che sostanzialmente si ripropone in tutti i racconti:

    I protagonisti, quasi sempre delusi nelle proprie ambizioni e costretti a fare i conti con una routine esistenziale grigia e monotona, manifestano fin dalle prime pagine ansie, debolezze, dolori e aspirazioni che sembrano aprire il varco a sviluppi imprevedibili degli eventi successivi.

    Il protagonista de Il ponte di Oresund, ad esempio, ha sognato la moglie morta Karen e mentre in treno sta attraversando il lungo ponte che lui ha costruito, continua a giocherellare con un piccolo ciondolo, la statuetta di un delfino, che lei portava al collo, Questi elementi (il sogno premonitore, il treno con cui sta attraversando il suo ponte, il ciondolo) fa già presagire che qualcosa di strano, di inatteso, di inquietante potrà succedere.

    Dirk Vermeulen protagonista del Tunnel di Sant’Anna è il classico ‘uomo senza qualità’:

    L’ordinarietà, la ricerca di una presunta sicurezza nella ripetizione dei gesti quotidiani, avevano ucciso tutti i suoi sogni e a cinquantaquattro anni ora si trovava nel cono discendente della vita, solo e senza avere reso davvero irripetibile e reale la sua vita. La paura aveva avuto il sopravvento e lo aveva reso schiavo di una vita senza reale scopo.

    Ed ecco la prima fuga dalla realtà.

    Mentre sta per entrare nel tunnel di Sant’Anna, unico modo per oltrepassare la Schelda in una città come Anversa, priva di ponti in una giornata come le altre, si ritrova improvvisamente, quasi per un fenomeno di psicocinesi, nel Museo delle Belle arti, deserto, solo, davanti a un quadro che lo ha sempre affascinato, La danza della sposa di Peter Bruegel e una voce di donna sconosciuta lo raggiunge all’improvviso , «come se un altoparlante avesse iniziato a diffondere un messaggio per tutto l’edificio».

    A questo punto sussistono le premesse necessarie perché la macchina narrativa di Marcello si metta in moto con flashback , repentini salti di tempo e di luogo, colpi di scena e immancabile finale a sorpresa.

    Le città, sempre presenti negli incipit, non sono semplici fondali su cui far muovere i personaggi ma a loro volta diventano personaggi ed esprimono un’anima (termine molto usato dall’autore).

    Ecco allora che il bancario Rudi Bauer «dopo trentacinque anni vissuti in quella città, poteva percepire i battiti del cuore di Berlino: erano forti e vigorosi». All’odontoiatra Nicolae Petrescu sembra addirittura di sentire Bucarest parlare. «Ma bisognava sapere ascoltare quella voce. Un turista non avrebbe mai potuto sentirla né apprezzarla» e come non apprezzare le struggenti parole che l’avvocatessa Joanna usa per descrivere sua città: «Varsavia era dolce. Amava quella città, nonostante la totale distruzione durante la guerra, la città era stata ricostruita e non aveva perso la sua anima. Le città hanno un’anima. Non solo gli esseri umani. Quella di Varsavia era l’anima di una fanciulla».

    A rendere stimolante e piacevole la lettura di questi racconti contribuiscono anche i numerosi e mai banali riferimenti storico-artistici che ci accompagnano attraverso diciassette Paesi. Ecco quindi che il drone immaginario di Tarozzi ci porta a Hlavné námestie, una delle piazze più belle di Bratislava, lungo Andrássy út a Budapest, considerato uno dei viali più belli del mondo, davanti alla torre medievale di Beffroi a Bruges, nelle misteriose grotte di Sint Pieter a Maastricht e in tanti altri luoghi affascinanti e, per molti di noi, sconosciuti .

    Ma l’obiettivo di Tarozzi, sia chiaro, non è solo quello di procacciarsi il favore del pubblico con piacevoli excursus turistico-culturali bensì di cercare un rapporto stimolante tra la natura più profonda, il respiro, l’anima come dice Joanna, dei luoghi evocati e le storie narrate.

    Realtà e sogno cominciano a intrecciarsi in modo sempre più confuso e inestricabile anche se qualche indizio lascia presagire un senso, una spiegazione per quanto sta accadendo. Cominciano a presentarsi elementi surreali (incontri, apparizioni, amnesie, voci misteriose,ribaltamenti di tempo e di luogo) ma il più delle volte è un sogno del protagonista a introdurre elementi stranianti e a confondere l’ordine naturale e logico degli eventi.

    Il finale a sorpresa scioglie il mistero. La componente onirica e visionaria ha creato un’atmosfera irreale e sospesa e ora, finalmente, si offre al lettore la chiave di lettura per dare un senso (o un nonsenso…) al racconto. Questo finale però quasi sempre sconcertae spiazza. Dov’è la verità del racconto, nel sogno o nella realtà? Cosa è accaduto veramente e cosa invece è stato sognato o semplicemente immaginato?

    Questo schema narrativo sostanzialmente si ripresenta in tutti i racconti rendendoli simili ma allo stesso tempo diversi. Potremmo dire che la stessa ricetta viene presentata con ingredienti sempre diversi.

    In conclusione di queste brevi annotazioni mi sento di dire che lo scopo dichiarato da Tarozzi di «provare a descrivere, con una piccola pennellata di parole, di descrivere quali emozioni quei luoghi mi hanno trasmesso e suscitato» è stato raggiunto. Considerando che si tratta della prima esperienza letteraria di Marcello Tarozzi, dobbiamo riconoscere che i risultati sono tutt’altro che banali e sicuramente lo devono spronare a continuare il suo viaggio non solo geografico ma anche creativo ed espressivo.

    Professore Valter Galavotti

    immagine 1

    IL PONTE DI ØRESUND

    Danimarca e Svezia

    Peter si svegliò come al solito presto. Quella mattina provava una sensazione nuova. Forse aveva sognato di nuovo Karen, la sua dolce Karen. Sua moglie era morta due anni prima in un letto d’ospedale, consumata da un terribile male che l’aveva fatta soffrire per tre anni.

    Peter l’ amava terribilmente. Lei e ra il suo angelo biondo, ma Karen era morta e ora Peter poteva solo sognarla. La sognava ogni notte, ne era certo, ma quando si svegliava non ricordava quasi nulla.

    «Peter, non dimenticarmi mai» erano state le ultime parole di sua moglie.

    Ogni santo giorno le ricordava. Gli risuonavano nel cervello continuamente; lui non poteva dimenticarla, lei era Karen.

    Il suo piccolo appartamento di Copenaghen non distava molto dalla metropolitana. Ogni giorno si dirigeva con la sua bicicletta alla fermata della metropolitana e poi alla stazione ferroviaria centrale.

    La città era, come sempre, calma e ordinata. Migliaia di biciclette giravano per le strade della capitale danese con in sella i loro biondi proprietari.

    Il popolo danese è un popolo felice.

    «Peter, non dimenticarmi mai.»

    Sul treno che lo portava a Malmö Peter pensava sempre a sua moglie.

    Il treno percorreva in poco più di trenta minuti la distanza tra Copenaghen e Malmö, attraversando il mare e arrivando sempre puntuale in Svezia.

    Peter lavorava in una filiale svedese di una azienda danese che si occupava di infrastrutture: i l ponte di Oresund lo avevano progettato loro.

    Lui er a un ingegnere. La natura alla fine si domina sempre, c ol ponte avevano unito due nazioni.

    «Con la morte non finisce tutto, Peter» Karen continuava a dirglielo ogni volta, anche durante i peggiori momenti della sua malattia.

    «Karen, stai tranquilla. Insieme ce la faremo» le ripeteva lui senza più crederci.

    Il ponte di Oresund si ergeva imponente sul mare.

    La natura è quello che vogliamo che sia pensò Peter guardandolo dal treno.

    «Peter, non dimenticarmi mai.»

    «Ma io non ti vedrò mai più, Karen» le rispose Peter mentre guardava il mare. Si era imposto di non dimenticare mai il suo viso e la loro vita insieme. Per questa ragione portava con sé, nella tasca della giacca, sempre un piccolo ciondolo con la statuetta di un delfino che lei portava al collo. Quel piccolo oggetto e ra stato un suo regalo per il secondo anniversario di matrimonio.

    Peter poteva vedere le enormi pale eoliche che si muovevano in lontananza in mezzo ai flutti.

    Il treno era partito da qualche minuto.

    «Scusi signore, ha il biglietto?» gli chiese il controllore del treno. Peter glielo mostrò.

    «Non sa quanto mi manchi» disse l’uomo che sedeva di fronte a lui.

    «Cosa ha detto?» chiese stupito Peter.

    «Non sa quanto mi manchi mia figlia» continuò l’uomo.

    Quell’uomo, sui cinquantacinque anni, portava una giacca di velluto verde che probabilmente non vedeva una lavanderia da anni, ma aveva un volto sereno.

    «È morta dieci anni fa, ma non riesco a dimenticare nulla: un incidente stradale. Aveva ventidue anni ed era bellissima» continuò l’uomo.

    «Ho visto che gioca con quel ciondolo ogni giorno mentre è sul treno. La osservo da qualche tempo. Deve essere appartenuto a una persona cara – aggiunse – sbaglio?»

    «Peter, non dimenticarmi mai.»

    Peter non sapeva che dire. L’uomo con la giacca di velluto verde lo aveva irritato, ma non era stato maleducato.

    «Quando perdiamo una persona cara cerchiamo di ricordarla con immagini e oggetti. Vede, io porto un fazzoletto di mia figlia all’occhiello. Lei lo aveva sempre con sé.»

    Gli mostrò un vecchio fazzoletto bianco e rosso.

    Nel frattempo il treno era arrivato a un terzo del suo percorso sul ponte.

    Il mare era agitato quella mattina. Pioveva. Il signore con la giacca di velluto insisteva.

    «Se quel ciondolo le ricorda una persona cara, lo tenga con sé. Il suo dolore contribuirà ad alimentare il ricordo di lei, ma non viva per il dolore. Io so che rivedrò mia figlia un giorno» disse sicuro l’uomo riponendo il fazzoletto nel taschino.

    Il fastidio di Peter aumentò.

    «Si faccia gli affari suoi» fu la reazione più educata che poté avere.

    L’uomo non disse nulla perché forse si aspettava una risposta del genere.

    Peter si girò verso il finestrino per guardare il mare e chiuse gli occhi.

    Era a casa sua. Sentiva Karen cantare in cucina. Lei adorava cantare.

    Le piaceva una canzone italiana, Gocce di memoria .

    Sono gocce di memoria

    q ueste lacrime nuove

    s iamo anime in una storia

    Incancellabile

    Le infinte volte che

    m i verrai a cercare nelle mie stanze vuote…

    La cantava spesso in cucina. Peter entrò nella stanza: l ei era davvero là. Era di schiena e stava preparando probabilmente il pranzo.

    «Karen, sei tu?» disse Peter.

    «Certo, amore mio. Perché non dovrei essere io?»

    Si girò e, con uno splendido sorriso, continuò.

    «Vieni a mangiare. Avrai molto da raccontare.»

    Fuori pioveva. Peter si sedette.

    «Avrai molte cose da dirmi, Peter. Sono trascorsi due anni» disse lei mentre si sedeva.

    «Non è successo nulla Karen. Noi siamo qua e questo è quello che conta» rispose lui.

    Fuori continuava a piovere sempre più forte.

    «Lo sai che non è così. Peter, io sono morta» mentre lo diceva cominciò a tagliare la carne che aveva nel piatto.

    «Sei qua con me però, ora» Peter guardò fuori dalla finestra.

    La pioggia ora era così forte che non si poteva vedere nulla.

    «So che non mi hai dimenticata, ma ora dobbiamo lasciarci» disse Karen mentre calava il buio nella stanza. Ora non si vedeva più, ma nella stanza, oltre a Karen e lui, c’erano altre persone sedute al tavolo. C’erano una giovane ragazza, l’uomo con la giacca di velluto verde e i genitori di Peter. I suoi genitori erano morti da tanto tempo, quando lui era ragazzo. Era stato infatti cresciuto dai nonni paterni. Lo guardavano con sguardo severo. La ragazza invece non la conosceva. Peter pensò che fosse la figlia dell’uomo con la giacca.

    «Peter, cosa hai fatto?» disse improvvisamente sua madre.

    Lui ricordava vagamente la sua voce. Era stata una insegnante a cui piaceva dipingere.

    «Peter, cosa hai fatto?» disse suo padre. Lui era stato un professore universitario. Di lui ricordava solo che fumava il sigaro.

    «Io sapevo che avrei rivisto mia figlia un giorno. Ha visto?» disse l’uomo con la giacca.

    «L’ho fatto perché il dolore non si placa mai» disse Peter.

    «Dovevi lasciarmi andare, Peter» gli rispose Karen.

    Fuori non si sentiva più la pioggia. Non si sentiva più nulla.

    Ora Peter si trovava nella stanza di ospedale dove Karen era morta.

    C’erano i dottori. Erano tutti attorno al letto dove lei giaceva.

    «Non è stato possibile fare nulla purtroppo. Il male era troppo avanzato.»

    «Non avete voluto salvarla!» gridò Peter.

    «Peter, non dimenticarmi mai.»

    Ora nel letto c’era Peter e tutti i dottori lo guardavano. Peter non riusciva a muoversi. Nella stanza c’erano anche Hans e Anna, i loro vicini di casa.

    Loro s tavano parlando di Peter con Karen, la quale era in piedi accanto a loro.

    «Ci dispiace molto, Karen. Peter era una persona a noi cara. Ti saremo vicini» disse Anna. Karen piangeva. Cominciò a girare tutto vorticosamente nella stanza.

    Peter si svegliò sul treno. Si era addormentato, ma solo pochi minuti. Il treno era a metà del suo percorso. L’uomo con la giacca di velluto era sparito, forse aveva ritenuto più educato togliere il disturbo. Ora c’era un ragazzo sui vent’anni dall’aria vagamente famigliare che gli sorrideva.

    «Peter, non dimenticarmi mai.»

    Peter era scosso, ma in fondo si era trattato solo di un sogno.

    «Peter, che hai fatto?» quella domanda però lo tormentava.

    Il mare era sempre agitato e fuori continuava a piovere. Toccò ancora una volta il ciondolo col delfino. Il sogno era stato così reale e Karen gli aveva parlato. Una lacrima gli segnò il viso. Karen aveva detto di lasciarla andare.

    «Ha bisogno di un fazzoletto signore?» disse improvvisamente il ragazzo dalla faccia famigliare.

    «Lo prenda, non si preoccupi. È della mia ragazza, Karen.»

    «Lei lavora a Malmö? Questo ponte è fantastico. Io sto andando a fare un colloquio di lavoro in Svezia. Sono un ingegnere e u n giorno vorrei costruire un’opera del genere» continuò il ragazzo che gli sembrava di conoscere.

    Ma che coincidenza. Un giovane ingegnere che andava a lavorare in Svezia e che aveva una fidanzata di nome Karen. Era un complotto? Lo stavano prendendo in giro?

    Peter si alzò senza prendere il fazzoletto. Voleva cambiare scompartimento. Se volevano prenderlo in giro non avrebbero avuto buon gioco. Si sedette nello scompartimento successivo. Era vuoto.

    «Peter, cosa hai fatto?»

    «Loro non sanno come il dolore ti bruci dentro» rispose Peter alla voce che parlava dentro di lui.

    «Perché non l’hai voluta lasciare andare?» continuò quella voce.

    «Perché non volevo dimenticarla.»

    «Tu non l’hai mai dimenticata Peter, ora lasciala andare.»

    Era il ragazzo di vent’anni che stava parlando.

    «L’hai amata, lei lo sa.»

    Peter si sentiva svenire. Il ragazzo era lui stesso. Ma come poteva accadere una cosa del genere?

    «Il dolore ti consuma. Non lascia spazio per null’altro. Ma il dolore può essere sopportato. Quello che ti distrugge veramente è la mancanza. Quando ti manca una persona che amavi, ti manca l’aria. Il tuo corpo non può sopportare la mancanza dell’aria. Se non reagisce trovando una fonte di ossigeno alternativa, semplicemente muore.» Peter avrebbe voluto gridare queste parole, ma riuscì solo a sibilarle perché stava veramente per perdere i sensi. Le voci dell’uomo con la giacca di velluto, dei medici, dei suoi genitori, di lui da ragazzo si mescolarono mentre una miriade di colori lo accecò.

    Poi il buio totale e il silenzio.

    «Peter, cosa hai fatto?» era la voce di Karen.

    «Io ti amavo» Peter ascoltò se stesso rispondere a sua moglie. Non era lui a parlare, ma allo stesso tempo era lui a farlo.

    «Peter, tu sarai sempre il mio amore, ma dovevi lasciarmi andare. Lo so che non mi hai dimenticata.»

    «Io non ti ho mai dimenticata» Peter ascoltava sempre se stesso parlare a sua moglie.

    «Peter, svegliati.»

    Peter aprì gli occhi. Attorno a lui c’erano il controllore del treno e il signore con la giacca di velluto verde.

    «Signore, come sta?» disse il controllore del treno.

    «Pare stia meglio» aggiunse il signore con la giacca.

    «Deve essere svenuto. Appena è caduto per terra l’abbiamo soccorsa. Ora si sieda qua» continuò il controllore, indicando un sedile vicino al finestrino. Nel frattempo fuori pioveva e il mare era sempre agitato.

    Peter si sedette e cercò di ricordare quanto gli era accaduto. Cercò con lo sguardo, nello scompartimento, il ragazzo-se stesso, ma non lo vide.

    «Devo essere stanco. Vi ringrazio. Ora resto seduto qua e mi passerà tutto.»

    «Quando arriveremo a Malmö, cercheremo un dottore» affermò il controllore.

    «Sto meglio, non ce n’è bisogno» Peter voleva chiudere quella faccenda.

    Aveva sognato ed era stanco; l a testa gioca scherzi strani.

    Il controllore e il signore con la giacca si allontanarono. Fuori la pioggia cadeva molto forte e i l cielo era scuro. Il ponte si stagliava sempre maestoso sul mare. Peter era di nuovo solo.

    Che strano, l’orologio segna ancora le otto, ma saremo partiti da più di trenta minuti pensò.

    «Che scherzi gioca la mente» Peter cercò di rilassarsi. A un certo punto si aprì la porta dello scompartimento ed entrò una donna. Si sedette un paio di posti davanti a lui. Peter non aveva visto il suo viso perché era entrata dalla porta dietro di lui. Aveva solo visto che aveva capelli biondi.

    Nel mare le onde cominciavano a essere davvero imponenti. La pioggia batteva costante sui finestrini del treno.

    «Peter, cosa hai fatto?» disse a un certo punto la donna.

    Peter si alzò per vederla in viso, ma lei non c’era più.

    Ora Peter era sul ponte di Oresund, sotto la pioggia. Il mare era sotto di lui e i l treno si stava avvicinando. Guardò il cielo e pensò per l’ultima volta a Karen. Poi fu un attimo. Il treno arrivò veloce e Peter si lasciò andare sui binari.

    «È stato un attimo, non potevamo evitarlo» disse il macchinista del treno ai poliziotti svedesi che lo interrogarono dopo l’incidente.

    «È vero che era uno degli ingegneri che avevano realizzato il ponte?» chiese il macchinista ai poliziotti.

    «È stato ritrovato sul ponte uno zaino con i suoi effetti personali, sembra proprio di sì» rispose uno dei due poliziotti.

    Peter era seduto nel suo scompartimento. Era sereno. Sapeva che il ponte era solido e che il treno ora lo avrebbe protetto dal dolore, per sempre. Fuori il mare non era più in tempesta. Aveva anche smesso di piovere.

    Il treno continuò la sua eterna corsa verso l’altra sponda.

    immagine 1

    LA PORTA DEL PARADISO

    Battistero di San Giovanni

    Firenze

    Claudia Visconti stava guardando per l’ennesima volta la Porta del Paradiso creata da Lorenzo Ghiberti nel XV secolo. Quel capolavoro, posto nel battistero di fronte alla basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze, la sua città, l’aveva sempre affascinata.

    Il battistero era un’opera di forma ottagonale, il cui ornamento esterno era in marmo bianco e verde, una miscela di colori piacevole per gli occhi di chi l’ammirava. Il monumento aveva diverse porte ornate da formelle in bronzo; Claudia si perdeva volentieri tra quelle immagini perché la sua mente vagava senza mantenere la cognizione del tempo che scorreva. E perché avrebbe dovuto farlo di fronte a quella bellezza?

    Quando il suo lavoro glielo permetteva, Claudia tornava sempre volentieri nella sua città. Purtroppo di tempo libero ne aveva poco perché essere la segretaria personale del ministro della Difesa era molto impegnativo. Non avendo una famiglia e figli, poteva permettersi di essere a disposizione quasi ventiquattr’ore su ventiquattro per le esigenze organizzative del ministro Legnini.

    Intendiamoci, Claudia adorava il suo lavoro, ma ogni tanto aveva bisogno di prendersi alcuni giorni di riposo. Negli ultimi quindici anni aveva seguito la carriera politica del ministro, fin da quando egli era un politico locale di Firenze. Una volta fatto il salto nella grande arena politica nazionale, aveva deciso che avrebbe condiviso quell’esperienza così impegnativa con quell’uomo onesto in quel mondo di squali pronti a tutto.

    Il suo lavoro consisteva nell’organizzare l’agenda quotidiana del ministro fino a ricordargli di pagare le bollette. Non era facile perché un ministro della Difesa, con un ruolo nel suo partito, doveva partecipare a innumerevoli incontri e iniziative, sia in Italia sia all’estero. Non era facile perché doveva svolgere quel particolare lavoro nella massima discrezione e fiducia, vista la quantità di documenti riservati che le passavano sotto mano. Ma Claudia era una donna tenace e forte.

    In quella metà di settembre, aveva chiesto alcuni giorni di libertà.

    «Certo cara, anche se ci mancherai, prenditi il tempo di cui hai bisogno. Sei sempre attenta e perfetta nel tuo lavoro. Mi aiuterà Marcello nei giorni durante i quali sarai via. Ci rivediamo quando tornerò dalla riunione Nato a Bruxelles» le aveva detto il ministro.

    Claudia aveva quarantaquattro anni, aveva studiato letteratura e sapeva parlare correttamente cinque lingue, ma la sua più grande passione era la sua amata città, Firenze. Fin da ragazza amava passeggiare senza una meta precisa per le strade della città toscana. Se cammini per Firenze non puoi non trovarti di fronte a un capolavoro dell’arte. Le strade stesse erano impregnate di

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