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Vista Con Camera
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E-book208 pagine3 ore

Vista Con Camera

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Info su questo ebook

L’autore di questo libro dovrebbe farsi vedere da uno specialista . Si è trasferito a Parigi portandosi solo una valigia e il passaporto, e sapendo che se non ci fosse andato se ne sarebbe pentito per il resto della sua vita. Aveva ragione o no? Unitevi a lui in questo viaggio: dalla ricerca di un appartamento alle difficoltà della scuola di lingue , dalla nascita di nuove amicizie all’occasionale incontro con dei nemici. Troverà perfino un po’ di tempo per l’amore. Nei suoi pensieri, almeno.

LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2016
ISBN9781310982378
Vista Con Camera
Autore

Kevin McDonough

Sit back and enjoy as the author recounts personal nightmares of performing Shakespeare in front of members of the Royal Shakespeare Company while only knowing his opening line, or calculating how to shoot a rocket to the moon in order to graduate, but having no ability how to get it there, "Don't Forget the Ketchup" recounts these and other stories that leaves the reader with that warm and fuzzy "Thank goodness that wasn't me!" feeling.

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    Anteprima del libro

    Vista Con Camera - Kevin McDonough

    Da Qualche Parte Sopra Al Polo Nord

    "Tu…cosa?!" L’uomo seduto nel posto accanto al mio mi guardava di sbieco, incredulo, con le sopracciglia aggrottate così profondamente che ci sarebbero potuti crescere degli alberi. Chiusi il libro e guardai fuori dal finestrino dell’aereo, nel buio. Non c’era modo di evitarlo in questo volo di undici ore. L’uomo prese una manciata di pacchetti di noccioline e una bibita dal carrello. La nostra fila sarebbe stata la prossima ad essere servita, ma lui non poteva proprio aspettare.

    Perché diavolo vuoi andare a Parigi? mi chiese insistente. Pensai di informarlo che anche lui stava andando a Parigi, ma mi precedette. Io ci vado solo per prendere la connessione per Francoforte.

    Avevo discusso la cosa molte volte a casa, ma ingenuamente avevo pensato che una volta salito sull’aereo, la questione sarebbe stata chiusa. Il sistema di emissione dei biglietti della compagnia aerea aveva piazzato quest’uomo accanto a me senza nemmeno preoccuparsi se saremmo andati d’accordo o no. Eravamo compagni di viaggio orribili e riuscivamo a malapena a sopportarci.

    La sua ostilità era agevolata dalla riserva illimitata di mini-bottiglie di vodka che continuava a scolarsi. E stavamo ancora volando su Los Angeles.

    Odio i francesi, mi disse.

    Me l’ha già detto. Ne ha mai incontrato uno? gli chiesi, sapendo già cosa avrebbe risposto.

    No.

    È mai stato in Francia?

    No. E dopo che atterri, cosa succede? mi chiese, un po’ arrogante.

    Gli volevo parlare delle infinite possibilità che c’erano: i caffè, i musei, la storia, andare a comprare croissant e vino, e chi più ne ha più ne metta. L’avrebbe messo a tacere. Ma quando mi girai per attaccarlo, non mi venne niente da dire.

    La verità era che non avevo la minima idea di cosa fare una volta che saremmo atterrati. Ero stato così impegnato a programmare il viaggio e a fare le valigie, che non avevo avuto il tempo di pensare a cosa avrei fatto una volta arrivato.

    Mi ero iscritto ad una scuola di lingue, ma sembrava una formalità, qualcosa per passare il tempo finché non mi sarei ambientato. E adesso mi trovavo qui con il Signor Troppe Domande, che mi aveva messo con le spalle al muro con quella più semplice di tutte.

    Era a causa di due esperienze diverse che stavo facendo questa cosa. La prima era che lavorando nella produzione televisiva, avevo notato certi segni premonitori, e puntavano tutti alla reality TV. Si era infiltrata come una perdita d’olio mentre nessuno faceva attenzione, e poi era balzata su di noi con budget minuscoli che avevano alimentato una tempesta a basso rischio/alto guadagno. Poi aveva schiacciato quasi tutti gli altri programmi, a parte alcuni quiz televisivi e soap opera, e aveva consolidato la prima serata televisiva in un gruppo di produttori scelti che continuavano a sfornare innumerevoli spin-off. Produzione fatta con lo stampino, la chiamavamo noi.

    La seconda era che da un po’ uscivo con una ragazza, o almeno credevo. Ultimamente lei si era comportata in modo un po’ sfuggente. Diventiamo tutti un po’ sfuggenti prima o poi. Ma lei era uscita dalla mia vita per sempre.

    Il nostro rito della domenica mattina era il bar locale per colazione, e poi il giornale, l’edizione domenicale del Times. Ma un fine settimana lei si era rifiutata. Aveva delle cose da fare e non poteva venire a prendere frittelle e caffè con me.

    Quindi uscii da solo per andare a comprare il giornale all’edicola all’angolo della strada. Stavo aspettando che il semaforo diventasse verde quando mi si rizzarono i capelli sulla nuca. Sul sedile del passeggero di una macchina ferma al semaforo c’era proprio lei. Cercò di nascondere il viso, ma era lei. Sapevo anche cosa stesse dicendo al bel macho al volante. Sta guardando da questa parte? Mi ha vista? Non ci posso credere che sia proprio lì. Vai, vai, vai! Sbirciò fra le dita mentre cercava di coprirsi il viso, e fu così scioccata di vedermi che non poté fare altro che rimanere a fissarmi mentre le passavo davanti. Guardai i loro fanali posteriori sparire all’angolo della strada. E con loro, anche lei.

    Potrei sbagliarmi di qualche dozzina, ma a Los Angeles ci sono circa duecento milioni di miliardi di persone. Quante probabilità c’erano che ci incontrassimo proprio a quell’angolo della strada quando non ci saremmo nemmeno dovuti vedere? Ehi, la colpa era la sua se aveva scelto di passare proprio da lì.

    Lessi il giornale al bancone del bar e notai che i programmi per i quali stavo lavorando non sarebbero stati rinnovati per un’altra stagione. Non ne ero sorpreso. La maggior parte dello staff era stupito che avessimo ancora un lavoro. Lasciai il mio giornale al tipo accanto a me.

    Le frittelle erano calde, ricoperte di sciroppo, e deliziose. E all’improvviso, il mio futuro divenne chiaro, trasparente come lo shock sulla faccia di lei nel momento in cui mi aveva visto. Avevo ricevuto due grossi colpi dalla vita, e mi rifiutavo di riceverne un altro. La mia famiglia e i miei amici mi sarebbero mancati, ma lei no. Forse un pochino.

    La smania di fare un salto dall’altra parte dell’Oceano Atlantico mi era venuta qualche anno prima, durante il mio primo viaggio in Europa. Nel momento preciso in cui ero sceso dalla navetta vicino all’Arco di Trionfo, non ero più voluto tornare indietro. Da quella volta non era passato un giorno in cui non avessi pensato a Parigi. L’idea di ritornarci per un soggiorno prolungato mi frullava in testa così insistentemente che dopo quel primo viaggio mi ero iscritto ad un corso di lingua francese.

    Mi era sempre piaciuta l’idea di trasferirmi a Parigi, ma adesso un trasferimento vero e proprio sembrava troppo. Sarei veramente riuscito a fare una cosa del genere? Cercai di considerare l’idea dal punto di vista opposto. Mi chiesi se avrei per sempre rimpianto il fatto di non esserci andato. E questo era ovvio. Mi sarei pentito ogni giorno di svegliarmi qui e non là. Finii le mie frittelle e non dubitai mai più della mia scelta.

    Tornai a casa e compilai una lista delle persone che avevano preso la mia stessa decisione: quella di mollare tutto e inseguire il loro sogno. L’unico a cui riuscii a pensare fu Homer Simpson, ma lui era uno che era andato all’Accademia del Circo.

    Finora l’unico difetto della mia decisione era seduto accanto a me, in stato comatoso, con tutte le sue bottigliette vuote che gli rotolavano sul vassoio. Lui, e il mio cappotto di lana. L’unico acquisto stravagante che mi ero permesso prima del viaggio era una rottura paragonabile al tipo seduto accanto a me. Dato che era troppo voluminoso per stare in valigia, e non c’era spazio nel vano portabagagli, avevo dovuto infilarlo sotto il mio sedile. E continuavo a pestarlo, rovinandolo.

    Ma almeno potevo chiarirmi le idee in silenzio. Feci una lista delle cose da fare. Numero Uno: Trovare un appartamento. Quando mi ero iscritto alla scuola a Parigi, avevo deciso di non barrare la casella in cui mi si chiedeva se ne volessi uno già pronto per me. No, dovevo trovare un pied-à-terre alle mie condizioni.

    Inoltre, sono uno sciagurato. Amo viaggiare, ma odio prendere l’aereo. Non mi piace pensare a dove potrebbe schiantarsi l’aereo, ma il pilota continuava a ricordarcelo: le Montagne Rocciose, i Grandi Laghi, la frastagliata calotta polare. Ma eccoci qua, in viaggio verso l’altra parte del pianeta alla velocità di un razzo, e stavamo scendendo su Parigi a tutta velocità - senza schiantarci, speravo.

    A circa un’ora dall’arrivo a Parigi i passeggeri cominciarono ad agitarsi, sapendo che saremmo atterrati presto. Avevo le mani sudate. Perché non aveva cercato di dissuadermi nessuno? Beh, a dire il vero tutti avevano cercato di farmi cambiare idea, e questo è quello che succede quando non dai ascolto ai tuoi amici.

    Indossavo il cappotto mentre ero in fila alla dogana, ed ero sudato come un maiale. Aveva un aspetto orribile dopo essere stato appallottolato sotto il mio sedile per undici ore. Volevo solo passare i controlli, prendere le mie valigie e fuggire verso la libertà.

    L’uomo davanti a me prese il suo passaporto dallo sportello della dogana e uscì attraverso le porte di vetro. Spostai le mie cose fino al bancone.

    "Passeport," chiese in tono monotono il funzionario dietro alla finestrella di vetro.

    Cosa? Appoggiai l’orecchio al microfono sul vetro. Può ripetere?

    Dopo un anno di lezioni di francese non riuscivo ancora a capire le domande più semplici. Una donna dietro di me si avvicinò per aiutarmi – o così credevo.

    Vuole il tuo passaporto, stupido. È un funzionario dell’immigrazione. Cos’altro credi che possa volere? Poi mi diede il mio passaporto. Tieni, è caduto da quella coperta militare che indossi.

    L’ho dovuto infilare sotto il sedile, dissi in tono difensivo.

    Avresti dovuto infilarlo dentro il cesso.

    Il funzionario osservò la mia fotografia, poi me, e mi restituì il passaporto. Ero impaziente che mi chiedesse qualcosa per potermi far perdonare. "Passez."

    Cosa? chiesi, con l’orecchio nuovamente incollato al microfono.

    La donna dietro di me si avvicinò allo sportello dandomi una spinta. Vuole che tu te ne vada. Siamo in due. E butta via quel cappotto. Sei a Parigi, per l’amor di Dio!

    Presi i miei bagagli e m’incamminai verso il binario della RER, il treno che mi avrebbe portato a Parigi. Feci un bilancio della mia vita fino a quel momento: un anno di lezioni di francese e non ero in grado di parlare nemmeno al livello più elementare; non avevo nessun programma per la mia permanenza lì se non l’indirizzo dell’amica di un’amica, che aveva accettato a malincuore di farmi dormire sul pavimento di casa sua finché non mi sarei sistemato. E fin qui, tutto male.

    Salii sulla RER. Mentre il treno si allontanava dalla banchina, ascoltavo frammenti di conversazioni fra gli altri passeggeri. Non capivo nulla, ma era bello ascoltare. Presi nota delle fermate nella cartina appesa sopra alla porta: Sevran-Livry, Aulnay-Sous-Bois, Blanc-Mesnil, Le Bourget, e feci il conto alla rovescia fino alla Stazione Centrale di Parigi, Châtelet e poi finalmente Saint-Michel.

    Alla destra del treno, attraverso la foschia, c’era la ragione principale del mio viaggio. La punta della Torre Eiffel bucava il cielo mentre noi le passavamo rumorosamente davanti. Il treno stava procedendo a tutta velocità. Le colline verdi della periferia cedettero il passo a zone industriali e graffiti. Il cuore mi batteva all’impazzata mentre osservavo il paesaggio alla mia destra. Il Sacro Cuore, la maestosa basilica che assomiglia ad una torta nunziale, era apparso all’orizzonte in cima alla collinetta di Montmartre. Era proprio il panorama che si può ammirare dal Sacro Cuore ad avermi dato l’idea di tornare per un periodo più lungo.

    Scesi a Saint-Michel e seguii con lo sguardo i fanali della RER mentre sparivano dentro il tunnel. Mi ricordavano di quella terribile domenica in cui la mia ragazza se ne era andata con quel tipo. Sembrava che fosse già passato così tanto tempo.

    Riemersi a Place Saint-Michel, che con la sua fontana è uno dei miei luoghi preferiti a Parigi. Dei ragazzini erano seduti tutt’intorno ad essa; i maschi spruzzavano le femmine con l’acqua e ridevano, corteggiandole. Delle coppiette stavano lì a guardarli, ricordando i tempi in cui anche loro avevano fatto la stessa cosa. Era il luogo ideale per un appuntamento romantico, e speravo che ce ne sarebbero stati diversi per me.

    Attraversai la strada e camminai fino al Ponte Saint-Michel sulla Senna. Il profumo delle crêpes riempiva l’aria. Mi girai lentamente, guardando tutto: a monte, Nôtre Dame, appollaiata sull’Île de la Cité; dall’altra parte della strada, la Sainte-Chapelle, e poi a valle il Pont Neuf, e Vert Galant in cima all’Île. Ovunque c’erano persone che passeggiavano, parlavano e schizzavano attraverso il meraviglioso traffico.

    Ero a Parigi!

    Io, L’ospite Sgradito

    Tirai fuori l’indirizzo dell’amica di un’amica. Sapevo vagamente dove si trovasse, ma avrei dovuto darmi da fare. Mi caricai il borsone in spalla, raccolsi le mie valigie e partii. Tagliai attraverso il Quartiere Latino, che è sempre bello da vedere, ma dopo due isolati ero sudato come un maiale. Il mio cappotto di lana sarebbe stato fantastico durante l’inverno, ma adesso era la fine della primavera, faceva caldo e non avevo nessun altro posto in cui metterlo se non addosso.

    Mi sedetti su una valigia per prendere fiato. Non c’era modo di fermare un taxi, e il mio portafogli era imboscato da qualche parte nel cappotto. Non c’era altro da fare che procedere a piedi.

    Dopo aver svoltato diverse volte in varie stradine, ero ancora alla ricerca del numero 36. Vidi un 12 sopra ad un negozietto e pensai che non dovesse essere molto lontano. Dopo due lunghi isolati ero al numero 14. Dovetti fermarmi e riposarmi un’altra volta.

    Quando finalmente arrivai, l’amica di un’amica mi aprì la porta. Fu marginalmente accogliente, e non potevo fargliene una colpa. Chi vuole ritrovarsi un estraneo alla porta alla ricerca di un posto in cui dormire? Ci scambiammo i classici convenevoli e m’indicò un angolo del suo minuscolo appartamento. Mi offrì dell’acqua durante una conversazione formale a proposito della nostra amica in comune, che aveva suggerito questa soluzione tutt’altro che ideale. Era quasi ora di cena, e quindi le proposi di portarla a mangiare fuori.

    Dopo qualche bicchiere di vino rosso, l’amica dell’amica capì che non ero poi così male. Credo. Le avevo fatto una brutta impressione con il mio cappotto rovinato e presentandomi con i bagagli per la mia permanenza di dodici mesi. Era un tale sollievo per me essere finalmente a Parigi, che probabilmente parlai un po’ troppo.

    Lei continuò a sorseggiare il suo vino ed ascoltò i miei programmi per il prossimo anno a Parigi. Avevo un milione di domande da farle. Lei ne aveva una sola. Quando parti?

    ***

    In tutta la mia vita non mi sono sentito più a disagio di quella notte. E non a causa del pavimento di legno su cui dovetti dormire: quello fu un gioco da ragazzi rispetto alla camminata verso casa, di ritorno dal ristorante. Cercai con fatica di pensare a cose interessanti da dire, ma dopo un viaggio così lungo era impossibile. Era fin troppo chiaro che l’amica di un’amica non era felice di avermi a casa sua. Quella stupida idea era andata a male come frutta al sole.

    Che siano maledetti il jet lag e i muscoli doloranti: la mattina dopo mi svegliai prima dell’alba, scrissi un bigliettino di ringraziamento, e sgattaiolai di fuori, al buio. Camminai per cinque isolati prima di accorgermi che non avevo idea di dove andare. L’unico posto a cui riuscii a pensare fu la scuola di lingue. Era ancora troppo presto, quindi mi sedetti ad un tavolino sul marciapiede in Rue de Saint-André-des Arts e ordinai un caffè e un croissant. Poi un altro. Non c’era modo migliore di passare il tempo, ma poi arrivò l’ora di partire.

    Entrai nel piccolo vicolo che portava alla scuola e mi feci strada fra un gruppo di studenti agitati all’entrata che fumavano come dei forsennati. Certe cose non cambiano mai.

    L’atrio era pieno di ragazzi che avevano la metà dei miei anni e si affrettavano di qua e di là con libri e sigarette in mano. Su una parete c’era una bacheca con degli annunci. Non c’era molta

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