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Non pensavo di amarti ancora
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Non pensavo di amarti ancora
E-book305 pagine4 ore

Non pensavo di amarti ancora

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Info su questo ebook

Alcuni errori sono la cosa più giusta da fare

Dall’autrice del bestseller Odioamore

Lì per lì ho pensato che fosse un’ottima idea. Chiamare all’improvviso al telefono Landon Roderick, per cui ho una cotta dai tempi dell’infanzia, mi è sembrata la cosa giusta da fare. Il fatto che fossi ubriaca e stessi passando sopra a tredici anni di emozioni contrastanti con uno stupido scherzo telefonico, invece, non mi è nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Ma poi Landon ha richiamato. Ci siamo ritrovati a passare le settimane seguenti al telefono, cercando di gestire l’intensa connessione che il suono delle nostre voci aveva risvegliato. È possibile desiderare qualcuno che si trova a chilometri di distanza? Durante tutte quelle ore passate a chiacchierare, mi sono chiesta che cosa sarebbe potuto succedere se ci fossimo incontrati. Farmi vedere da lui, però, era fuori discussione. Era da prima di compiere quindici anni che non uscivo con un ragazzo e non avevo intenzione di fare un’eccezione proprio per Landon Roderick. Ma il destino aveva altri piani, per noi. Un incidente con lo skateboard, Landon finisce in ospedale ed eccomi su un volo per Los Angeles: l’errore più grosso che abbia mai commesso o la cosa migliore che mi sia capitata? 

Un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal»

È possibile desiderare qualcuno che si trova a chilometri di distanza?

«Una storia d’amore moderna che ha passione, ironia, sentimento ed emozioni forti.» 

«Amo la scrittura di Penelope Ward e la sua abilità di trascinarmi dentro la storia fino a un epilogo entusiasmante e travolgente.»

«Ho amato questa incantevole storia dalla prima riga all’ultima. Molto amore per Rana e Landon. Cinque stelle stellari!»
Penelope Ward
È un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal». È cresciuta a Boston con cinque fratelli più grandi e ha lavorato come giornalista prima di riuscire a realizzare il suo sogno di diventare una scrittrice a tempo pieno. La Newton Compton ha già pubblicato i bestseller Bastardo fino in fondo e Un perfetto bastardo (scritti con Vi Keeland) e Odioamore. Vive nel Rhode Island con il marito e due figli.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2018
ISBN9788822724588
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    Anteprima del libro

    Non pensavo di amarti ancora - Penelope Ward

    Capitolo 1

    Rana Banana

    Quando mi buttai sul letto, la stanza era un vortice. Avevo ancora addosso il costume blu elettrico e oro da danza del ventre, con una cascata di perline sparse intorno a me.

    Avevo aperto quel vino senza neanche togliermi gli abiti da lavoro. La bottiglia di Shiraz che stringevo ancora tra le mani era vuota. Cadde, per fortuna senza rompersi. Almeno, io non sentii alcun rumore di vetri rotti.

    Non era la prima volta che tornavo a casa dal lavoro e mi aprivo subito una bottiglia di vino. Quel giorno però ero particolarmente malinconica. Mi sembrava di annegare nella tristezza. Non sapevo neanche di preciso perché.

    Ogni volta che mi ritrovavo così, chissà per quale motivo, andava sempre a finire che ripensavo a Landon. Era inspiegabile che, dopo tredici anni, stessi ancora pensando a quel ragazzo. Be’, tecnicamente era un uomo, ormai.

    Mi costrinsi ad alzarmi e incespicai verso l’armadio. Rovistai nello zaino nero di tela, setacciando le decine di biglietti che mi aveva lasciato. Erano tutti ripiegati a triangolo. Ne scelsi uno a caso e lo aprii.

    Rana Banana,

    Vorrei averli anch’io, tutti quei peli sulle braccia.

    Landon

    PS: Posso farci le treccine?

    Il mio nome, Rana, si pronuncia proprio come si scrive, così Landon era solito chiamarmi Rana Banana. Per un breve periodo della mia vita, quel ragazzo era stato la persona più importante per me.

    A tredici anni ero un maschiaccio e abitavo con i miei in un garage riadattato nella casa dei genitori di Landon, a Dearborn, nel Michigan. L’avevano ristrutturato trasformandolo in un appartamentino che affittavano, con un angolo cucina e un bagno. Non avevo molto altro, a parte un tetto sopra alla testa e, certo, i peli sulle braccia.

    Il papà di Landon era un dirigente della Ford, mentre mio padre, Eddie Saloomi, lavorava in una panetteria in centro e guadagnava giusto il necessario per arrivare a fine mese. Mia madre Shayla, molto più giovane di mio padre, non lavorava.

    Quello dei miei genitori era stato un matrimonio combinato. Papà preferiva che mia madre restasse a casa e se ne occupasse. In realtà, Shayla al massimo preparava un pranzo o una cena ogni tanto, tra un giro e l’altro al centro commerciale e un furto di vestiti da Macy’s. Riusciva anche a telefonare di nascosto al suo amante, che aveva un’età molto più vicina alla sua. Per gran parte della mia infanzia, ricordo solo che mia madre era sempre triste. Ricordo anche che fisicamente la consideravo la più bella del mondo. Shayla aveva lineamenti delicati, non come me che avevo ereditato il naso e il monociglio di mio padre. Ero anche più pelosa delle mie coetanee. Forse era per questo che Landon mi trattava come un maschio. Di sicuro non poteva sapere che avevo una cotta per lui. Non poteva sapere nemmeno che stare con lui ogni giorno dopo la scuola era la mia ragione di vita.

    Il periodo che trascorsi nell’appartamento di Dearborn fu breve. I genitori di Landon alla fine ci sbatterono fuori perché non pagavamo l’affitto e ricordo di essermi sentita come se mi fosse caduto il mondo addosso.

    Nel giro di due giorni, mio padre aveva caricato il suo vecchio furgone Toyota e ci aveva portato a vivere con i nonni, dall’altra parte dello Stato.

    Non rividi più Landon.

    Avevo deciso di non salutarlo. Neanche lui venne a salutarmi, del resto. Ero furiosa con lui, convinta che avrebbe potuto fare qualcosa per non farci sfrattare. Era un modo terribile di chiudere le cose.

    Negli anni, pensai molto a Landon. Non mi venne mai in mente di cercarlo o contattarlo, però.

    Fino a questo momento.

    Perché questo bisogno, all’improvviso, in un giovedì sera come un altro? Non ne avevo idea.

    Ripiegai il biglietto e lo rimisi nello zaino. Mi guardai allo specchio e intravidi il mio mascara colato. Il trucco pesante sugli occhi ne accentuava il verde e la pelle olivastra evidenziava i capelli neri. Nonostante la situazione, mi piaceva quello che vedevo e odiavo sentirmi in quel modo. Ma avevo fatto tanto per apparire così. Certo, forse era l’alcol a farmi sentire più sicura del dovuto.

    Chissà cosa penseresti ora di me, Landon.

    Una cosa la sapevo per certo: non avrebbe riconosciuto Rana Saloomi se l’avesse incontrata per la strada.

    Avevo le mie teorie su quello che poteva essere diventato Landon: immaginavo che avesse frequentato un’università importante, avesse un lavoro strapagato, una bella moglie o una fidanzata. Lo immaginavo felice. Immaginavo che non avesse mai pensato a me. Ero ossessionata dalla mia immagine di Landon e non riuscivo a capire perché mi importasse. Era tutto nella mia testa, ma in qualche modo la sua felicità era un riflesso della mia infelicità.

    Nonostante la confusione rispetto al persistere dei miei sentimenti per Landon, quella sera, nella nebbia della mia ebbrezza, ero solo arrabbiata. Volevo parlargli. E non c’era nessuno che potesse sensatamente distogliermi da quel proposito. Mi ero convinta che non avrei mai più ritrovato il coraggio. Era la mia unica possibilità. L’idea di chiamarlo in quel momento mi piaceva sempre di più, ogni istante che passava.

    Aprii il portatile e cliccai su Google, in cerca di Landon Roderick. Mi comparvero una serie di risultati a Los Angeles.

    Los Angeles?

    Poteva essere lui?

    In caso affermativo, probabilmente non si sarebbe ricordato di me. Incapace di dissuadermi, sbronza com’ero, dovevo dirgliene quattro. Dovevo dirgli che razza di comportamento schifoso era stato quello dei suoi genitori. E dovevo fargli sapere che lui non era meglio di me. Fondamentalmente, dovevo dire le cose che nella mia testa gli avevo urlato contro in tutti questi anni.

    Composi il numero e sentii squillare.

    Rispose una voce profonda, roca. «Sì…».

    Il battito del mio cuore accelerò. «Parlo con Landon?».

    «Chi parla?»

    «Sono sicura che non ti ricordi di me. Figurati, con la tua bella vita in California e tutto il resto».

    «Scusa?»

    «Devi sapere una cosa. Provavo qualcosa per te».

    «Ma che cazzo? Come?», ripeté lui. «Chi parla?».

    «Forse per te ero solo una ragazzina grassoccia che sembrava un maschio, con un taglio di capelli orrendo e i peli sulle braccia; quella che abitava nel garage. Ma a me importava. Anzi, ti ammiravo. Ogni giorno non vedevo l’ora di fare su e giù in bicicletta nel vialetto di casa, mentre tu mi giravi intorno con lo skateboard. Quei cavolo di bigliettini, ce li ho ancora tutti. Non so nemmeno perché li ho tenuti. Nel frattempo, scommetto che tu non ti ricordi nemmeno chi sono. Nooo, non tu, Landon Roderick con la tua puzza sotto il naso… nella tua villa di Los Angeles, troppo fico per ricordarti dei poveracci. Nel caso in cui ti stessi domandando che ne sia stato di me, be’, dopo che ci siamo trasferiti è andato tutto a puttane. Mia madre se n’è andata. E la mia vita non è più stata la stessa. Perciò, anche se non ti ricordi nemmeno chi sono, io mi ricordo di te. Triste a dirsi, ma l’ultima volta che sono stata felice è stato con te».

    Con le guance solcate dalle lacrime e nient’altro da aggiungere, riattaccai e gettai il telefono sul letto.

    Poi mi resi conto.

    Oh, cavoli.

    Oh, no.

    Che cosa avevo fatto?

    Avevo il cuore a mille. La stanza girava più veloce di prima.

    Pochi secondi dopo, il telefono incominciò a squillare. Portandomi le ginocchia al petto, lo fissavo come fosse una bomba che sarebbe scoppiata non appena avessi risposto.

    No. Non potevo rispondere. Mi ero resa ridicola. Quando smise, feci un sospiro di sollievo che finì un attimo prima che il telefono riprendesse a squillare. Continuai a non rispondere. Alla fine si fermò, per circa cinque minuti.

    Poi ricominciò.

    Mi decisi allora a prendere il ricevitore e guardai il nome sul display: L. Roderick.

    Mi appoggiai con la schiena contro la testiera, presi un lungo respiro e mi preparai a rispondere.

    Schiarendomi la gola, feci del mio meglio per sembrare una donna composta, una che fosse stata appena esorcizzata e liberata da un demone ubriaco. «Pronto?».

    Lui sospirò profondamente. Dopo un momento di silenzio, disse: «Rana Banana?».

    Capitolo 2

    La parola dell’uno contro quella dell’altra

    Sentire quelle parole pronunciate da una voce così profonda era davvero surreale. Da quando in qua Landon aveva una voce così?

    Alla fine risposi: «Sì».

    Fece un altro sospiro. «Porca miseria. Proprio Rana Banana, cazzo».

    «Senti… dimenticati che ti ho chiamato, va bene? Torna a fare quello che stavi facendo. Fai finta che non sia mai accaduto». Stavo per riagganciare quando la sua voce mi fermò.

    «Aspetta».

    Non dissi niente ma non riagganciai.

    «Sei ancora lì?», mi chiese.

    Risposi a bassa voce. «Sì».

    «Dovrei scordarmi di questa telefonata?»

    «Già. Proprio come ti sei scordato della mia esistenza».

    «Di cosa stai parlando?»

    «Come puoi farmi una domanda simile? I tuoi genitori ci hanno sbattuto in mezzo alla strada. Non sei nemmeno venuto a salutare. Anzi, in tutta quella brutta vicenda sei sparito, come per magia». Alzò la voce. «Aspetta un attimo. Per prima cosa, ti ho pensato: un sacco, se vuoi proprio saperlo. In realtà, è stata un’ossessione. E seconda cosa, la tua versione dei fatti è completamente sbagliata».

    «Perché?»

    «Non è che i miei genitori vi hanno sbattuto fuori. A me risulta che i tuoi genitori siano andati via senza pagare l’affitto. Mi ricordo che dopo ho aiutato i miei a togliere tutto lo schifo che avevate lasciato».

    «Be’, i tuoi genitori hanno mentito. Siamo stati costretti ad andarcene».

    «Senti, direi che siamo in una situazione in cui la tua parola è contro la mia. Quindi, non ho fatto apposta a non venire a salutarti. Non c’ero quando è successo. Ero andato dalla nonna per un paio di giorni. Nessuno mi aveva detto che ve ne sareste andati. Sono tornato e non c’eri più».

    Non sapevo come prenderla. O stava mentendo lui, o mi avevano mentito i miei genitori. In un modo o nell’altro, al momento mi sentivo un’idiota.

    «Ascolta. Te lo ripeto: la mia telefonata è stata un errore. Non ha senso stare a rimuginare su tutto questo, dopo tredici anni. Passa una buona…».

    «Perché mi hai chiamato, stasera?»

    «Ero sbronza».

    «Mi hai chiamato da sbronza?»

    «Sì».

    «Lo sei ancora?»

    «Purtroppo, mi sto riprendendo».

    «Dove hai preso il mio numero?»

    «Sembra che tu sia l’unico Landon Roderick di tutti gli Stati Uniti».

    «Che fortuna. Perché sei sbronza, di giovedì sera?»

    «Questa domanda richiede troppe risposte. Vediamo. Mi hanno di nuovo palpeggiato al lavoro. Sono in ritardo sull’affitto di questo mese, e so che cosa stai pensando: che evidentemente certe cose non cambiano mai, vero? Oh, e il mio coinquilino è uno psicopatico. Sono quasi sicura che mentre parliamo stia cercando il modo di farmi fuori. Vado avanti?»

    «Ma che cavolo dici?», ridacchiò.

    «Ora sei pronto a mettere giù, Landon?»

    «Scherzi? Proprio adesso che arriva il bello?»

    «Non hai niente di meglio da fare? Che stavi facendo quando ti ho chiamato?»

    «Stavo solo fumando sul balcone», disse. «La mia casa ha la vista sul mare. Però non è una villa, mi dispiace deluderti».

    «Fumi? Non fumavi, prima».

    «Avevo tredici anni quando mi hai conosciuto. Sapevo a stento dove avessi le palle. In tredici anni cambiano un mucchio di cose».

    «Non c’è dubbio».

    «C’è un sacco di tempo per mandare tutto in vacca e prendersi delle brutte abitudini».

    Sospirai. «Già».

    «Come per esempio le tue telefonate da sbronza il giovedì sera. Ci sono state altre vittime ignare? Oppure solo io?»

    «A dire il vero, non credo di avere mai fatto una cosa del genere in vita mia».

    «Be’… forse te ne sei scordata».

    Non potei trattenere una risata. Lui rise a sua volta e la situazione si alleggerì.

    Lo sentii accendere un’altra sigaretta poi disse: «Torna un attimo indietro. Hai detto di essere stata palpeggiata al lavoro. Che fai? La guardia carceraria o cosa?»

    «Ma come ti viene in mente?»

    «Non lo so. La prima cosa a cui ho pensato, direi».

    «Faccio la danzatrice del ventre».

    «Che cosa? Ma piantala!».

    «Perché ti sembra tanto assurdo?»

    «Ti vestivi da maschio… quei vestiti informi. Non ti ci vedo proprio come ballerina».

    «Be’, come hai detto tu, in tredici anni possono cambiare molte cose».

    «Così pare». Espirò a lungo. «Che bello sentire la tua voce, Banana».

    «La tua, di voce, è diversissima. Sembri un uomo».

    «Dall’ultima volta che ho controllato infatti, risulta così. A un certo punto ho pensato che lo fossi anche tu».

    «Cretino».

    «Sto scherzando, Rana… più o meno».

    Sospirai. «In ogni modo, sarà meglio che ti lasci andare».

    «Aspetta… ancora una domanda. Perché pensi che il tuo compagno di stanza ti voglia ammazzare?»

    «D’accordo, va bene. Si chiama Lenny. Un po’ di tempo fa ho messo un annuncio per un coinquilino. Non tiravo su un soldo e non riuscivo più a pagare l’affitto. Lenny ha risposto all’annuncio. Non è che mi parla proprio, ma a volte borbotta qualcosa tra sé. Ho l’impressione che abbia una fissa per me ma al tempo stesso mi odi, se la cosa ha senso».

    «No, non ha senso. Nemmeno tu, però». Rise. «L’appartamento è a tuo nome… il contratto?»

    «Sì».

    «Allora perché non lo sbatti fuori, se è messo così?»

    «Perché ho paura che mi ammazzi».

    «Dunque, hai paura di vivere con lui ma hai anche paura di buttarlo fuori».

    «Ho più paura di buttarlo fuori, sì. Non ha fatto niente. È solo… una mia sensazione».

    Landon rideva a crepapelle.

    «Che c’è di tanto divertente?»

    «Tu. Tu sei divertente. Non divertente ah ah… divertente sul serio. In effetti, non so più da quanto tempo non ridevo così di gusto». Parlò tra sé. «Cavoli. Questa sì che è una sorpresa interessante».

    A quel punto, sentii una voce.

    Gli si rivolse una donna. «Landon? Che stai facendo?». Aveva una pronuncia un po’ particolare.

    Rispose. «Arrivo subito. È una telefonata importante».

    «Chi è? Sei sposato?»

    «No».

    «È la tua ragazza?»

    «No. Non ce l’ho, la ragazza».

    «E allora chi è?»

    «Si chiama… uhm…».

    «Non lo sai?»

    «Valeria».

    «Venerea?».

    Rise. «Valeria».

    Chiaramente, avevo interrotto un qualche tipo di tresca.

    «Va bene, ti lascio riprendere quel discorso».

    Aveva un tono pressante. «Non riattaccare».

    «Sono sicura che tu debba andare da Valeria».

    «No, non è così. Comunque, è tornata dentro. Non è più qui».

    «Be’, non vorrai farla aspettare».

    «Può aspettare».

    «Meglio che chiuda».

    «Rana, non mettere giù. Mi richiami la prossima volta che ti ubriachi? Ho voglia di sentirle ancora, le tue assurdità».

    «Buonanotte, Landon». Riattaccai.

    Avevo il cuore a mille. Mi sembrava una cosa surreale. Era accaduto davvero?

    Che strano, era con una donna ma continuava a chiacchierare con me.

    Quella notte non riuscivo a dormire. Ripensavo costantemente a Landon che fumava sulla spiaggia, in California. Fantasticavo pensando all’aria dell’oceano e mi chiedevo quale aspetto avesse Landon, adesso.

    Visto che l’insonnia non si decideva a cedere, mi tirai giù dal letto e presi dall’armadio lo zaino dove tenevo i biglietti, scegliendone uno a caso.

    Rana Banana,

    perché i tuoi vestiti hanno sempre odore di spezie strane? Mi fa venire voglia di mangiare messicano.

    Landon

    PS: Pensi che tuo padre ci porterà da Taco Bell, una volta?

    Capitolo 3

    Fatti vedere

    L’indomani pomeriggio, mentre uscivo incrociai il mio coinquilino.

    «Buona giornata, Lenny».

    Lui si limitò a grugnire, portandosi del cibo in camera. Non mi interessava se mi salutava o meno, l’importante era che non rompesse o non mi soffocasse nel sonno.

    Schivando le pozzanghere, corsi verso la fermata dell’autobus, mentre il cellulare si mise a vibrare.

    Risposi senza guardare chi fosse. «Pronto?».

    Non mi aspettavo di sentire la sua voce. «Mi sembra che ieri sera ci siamo lasciati in un modo un po’ strano».

    «Sono abbastanza sicura che sia stata strana tutta la faccenda, Landon. Non solo il finale».

    «Be’, io preferisco quando finisce bene».

    «Ci scommetto».

    Rise. «Ehi, te lo volevo chiedere prima che mi chiudessi il telefono in faccia… sei mai riuscita a risolvere il cubo di Rubik?».

    Ma che domanda. Poi, mi ricordai che una volta terminare il cubo sistemando tutti i colori era un obiettivo importante nella vita.

    «No. Non ci sono riuscita».

    «Nemmeno io. Non perché non ci abbia provato. Immaginavo che probabilmente non ci eri riuscita neanche tu».

    «Perché eri così sicuro?»

    «Be’, per dirne una, hai lasciato il tuo cubo a casa nostra. Non potevi essere tanto appassionata. Ce l’ho ancora».

    La cosa mi sorprese molto. «Davvero?»

    «Già».

    «L’hai portato con te in California?»

    «Sì».

    «Adesso perché mi hai chiamato?»

    «Per lo stesso motivo per cui mi hai chiamato tu ieri sera… curiosità? A parte che non sono ubriaco».

    L’imbarazzo per il mio comportamento della sera prima non era ancora svanito. «Be’, ora sarei di fretta, quindi…».

    «Dove stai andando?»

    «Una volta alla settimana vedo una bambina di dieci anni, Lilith. È un progetto di volontariato del Comune che si chiama Detroit Big Sister. La vado a prendere a casa e la porto fuori».

    «Allora sei una specie di educatrice?»

    «Sì».

    «È una cosa molto bella da parte tua».

    «Sì, be’, qualche volta mi sembra che sia lei, la sorella maggiore. È molto matura per la sua età e in tante occasioni sono io quella che ha bisogno di compagnia».

    «Mi sembra bello. Quanto tempo stai con lei?»

    «Un paio d’ore. La lascio a casa poi devo andare subito al lavoro».

    «Oh, certo. La danza del ventre».

    «Sì. In un ristorante greco. È una cosa temporanea. Mi ci pago le bollette. Non ho intenzione di farlo per sempre».

    «Secondo me è fantastico, niente di cui vergognarsi».

    «Io non… me ne vergogno».

    «Vorrei solo poterlo vedere con i miei occhi».

    «Già, ma non succederà». Cambiando discorso, gli chiesi: «Tu che fai… di lavoro?»

    «Ho fatto mille cose. Al momento sono un aspirante chef, anche se non sono esattamente un Joe Bastianich».

    «Molto bene. Ora devo andare. L’autobus arriva tra poco».

    «Vai in autobus?»

    «Sì, al momento non ho la macchina».

    «Non te la puoi permettere?».

    Non sapendo se volerlo ammettere o meno, sospirai. «In realtà, non guido».

    «Veramente? Nel senso che non hai mai imparato?»

    «Proprio così».

    «Perché non hai imparato?»

    «Non me l’ha insegnato nessuno».

    «Accidenti. Non sarei in grado di sopravvivere quaggiù senza una macchina».

    «Già, però per fortuna c’è l’autobus».

    «Imparerai mai?».

    Era un punto dolente, una cosa che mi metteva in imbarazzo e di cui in realtà non volevo parlare. «Non lo so».

    «Più aspetti, più diventa difficile, lo sai vero?»

    «Sì, me ne rendo conto molto bene adesso che sto aspettando un autobus sotto la pioggia».

    «Oh, cazzo, mi fai venire voglia di insegnarti a guidare».

    «No, non mi sembra il caso. Comunque devo andare. Io…».

    «Posso richiamarti?», mi interruppe.

    «Perché?»

    «Mi sembra che non abbiamo finito di parlare di quello che è successo. Intendo… quando sei andata via».

    «Vuoi dire quando sono stata sbattuta fuori».

    «No, quando…».

    «Non importa, ormai».

    «Evidentemente a te importa, se dopo tredici anni ci pensi ancora e tra tutti ti viene in mente di chiamare proprio me, quando sei ubriaca. Mi sembra che forse ci dobbiamo… spiegare un po’. Che ne dici? Più tardi mi sbronzo e ti chiamo».

    Restai in silenzio mentre l’autobus si fermava cigolando davanti a me e le portiere si aprivano.

    Passai l’abbonamento e gli chiesi: «Ti vuoi ubriacare per poi telefonare a me

    «Certo, perché no? Occhio per occhio. A che ora torni a casa?».

    Mettendomi a sedere, domandai: «Le telefonate da ubriachi non dovrebbero essere una cosa spontanea?»

    «Preferiresti che ti sorprenda in un momento inopportuno?».

    Non aveva torto. In questo modo almeno mi potevo preparare.

    «Sono a casa verso le undici, ora locale».

    «Va bene… ti chiamo». Ridacchiò. «E mi ubriaco».

    Risi e mi guardai intorno per vedere se qualcuno avesse notato la mia assurda eccitazione. «Va bene».

    «Preparati, Rana».

    Lilith tamburellava con il piede mentre mi aspettava sulla veranda di casa. «Sei in ritardo».

    Non c’è niente di peggio che sentirsi sgridare da una bambina per la quale dovresti essere un buon esempio.

    «Lo so. Scusa. L’autobus va sempre piano quando piove».

    «Ti serve un ombrello?»

    «Ne hai uno in più?».

    Tornò di corsa in casa e mi prese un ombrellino da pochi soldi che sapevo non avrebbe retto, con quel vento.

    «Dove andiamo?», domandò.

    «A farci uno yogurt gelato da FroyoLand?»

    «Pensavo che avessi smesso con i dolci».

    Certe volte era una vecchia signora dispotica.

    «Infatti ho smesso. Ce l’hanno anche senza zucchero. Il gusto alla vaniglia».

    Alzò le spalle. «D’accordo».

    Quando arrivammo al locale, prendemmo una coppetta verde fosforescente a testa e la riempimmo con tutto lo yogurt e le guarnizioni che riuscimmo a farci stare. Io optai per

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