Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il principe delle ombre
Il principe delle ombre
Il principe delle ombre
E-book372 pagine8 ore

Il principe delle ombre

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Cassandra è una diciassettenne in fuga. Dopo essere stata rapita dall'ex fidanzato Andrea, cerca riparo e protezione in un piccolo paese, a casa della zia, isolata dal resto della famiglia e dai suoi amici. È proprio mentre si sta rassegnando a una vita lontana dai propri affetti, che fa la conoscenza di Rio, sempre sulle sue, sempre arrabbiato, terribilmente affascinante. Senza neanche poterlo immaginare, la giovane Cassie si ritroverà al centro di una battaglia antica come il mondo, tra due forze contrapposte in contesa per quanto di più prezioso esiste: l'anima degli uomini.
LinguaItaliano
EditoreDialoghi
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788892790018
Il principe delle ombre

Leggi altro di Francesca Persico

Autori correlati

Correlato a Il principe delle ombre

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il principe delle ombre

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il principe delle ombre - Francesca Persico

    />

    />

    © Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2020

    Marchio Editoriale: Dialoghi

    Collana: Sogni

    I edizione digitale: aprile 2020

    ISBN 978-88-927900-1-8

    Progetto grafico: Stefano Frateiacci

    www.edizionidialoghi.it

    A mia madre,

    per avermi insegnato a leggere.

    "Sono una tua creatura, ricordalo:

    dovrei essere il tuo Adamo, e sono invece l’angelo caduto

    che tu hai allontanato dalla gioia senza alcuna colpa da parte sua.

    Dappertutto vedo beatitudine dalla quale io sono irrevocabilmente escluso.

    Ero buono e benevolo: l’infelicità ha fatto di me un demone".

    (Mary Shelley, Frankestein)

    Prologo

    Tremavo. Non avevo mai provato tanta paura in vita mia. Non sapevo neppure che si potesse provare una paura simile. Sedevo su un letto con l’assurda sensazione di occupare troppo spazio e tentavo in ogni modo di farmi più piccola, così piccola da diventare invisibile. Il mio sguardo fisso, attonito, guizzava tra il pavimento e gli enormi cuori rossi stampati sul copriletto bianco. L’odore della vernice ancora fresca saturava l’aria, rendendola irrespirabile. Se solo ci fosse stata una finestra da aprire non avrei temuto di morire soffocata, ma non c’erano finestre. Nemmeno una.

    Un quadrato di cemento, la cantina di una vecchia casa ormai disabitata, racchiudeva me e Andrea. Ci ero stata un mucchio di volte, da bambina, e la ricordavo molto diversa, piena di cianfrusaglie, cose vecchie e ragnatele. Andrea, all’epoca, ci teneva i suoi tesori. Giocattoli rotti o per cui ormai era troppo cresciuto e di cui sua madre voleva disfarsi, ma lui, per impedirglielo, li nascondeva in quella cantina adesso irriconoscibile. L’aveva completamente ristrutturata. Alle pareti era comparsa una carta da parati bianca con i fiorellini e negli arredi lucidi ed eleganti riconobbi i vecchi mobili della camera da letto della nonna di Andrea, morta da qualche anno.

    Non sapevo che quella casa esistesse ancora, pensavo l’avessero venduta e, quando Andrea mi aveva proposto una scampagnata, non credevo mi ci avrebbe portato. Ero entrata senza sospetti, un po’ stupita semmai, e lo stupore era cresciuto sino a diventare incredulità e poi terrore nell’attimo in cui lui aveva iniziato a illustrarmi la ragione per la quale mi aveva condotto sin lì. Quella doveva essere la mia casa. Non l’intero villino, pieno di polvere e ricordi che nemmeno mi appartenevano, soltanto la cantina, la stanzetta che odorava di vernice e sulla cui porta era comparso un chiavistello di cui solo Andrea possedeva la chiave. E si era anche premurato di dirmi che nessuno era a conoscenza del fatto che fossi con lui quel pomeriggio e che la gente, soprattutto le ragazzine ingenue, sparivano continuamente.

    Pazzo. Era diventato completamente pazzo.

    A causa delle mie proteste camminava avanti e indietro, nervoso. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, continuavo a fissare le sue scarpe da ginnastica che sfilavano sotto i miei occhi, pestando il pavimento. Dalla pressione che metteva nei passi dava l’impressione di essere sul punto di esplodere. Somigliava a una bomba irrimediabilmente innescata e non riuscivo a farmene una ragione. Lo conoscevo da tutta la vita e mi piacerebbe poter dire che si era improvvisamente trasformato in un estraneo, che quello non era il ragazzo di cui mi ero innamorata tanto tempo fa, ma direi una bugia. Il germe della sua follia, della sua ossessione patologica per me, è sempre stato dentro di lui. Il suo problema era la smania di possesso: io ero sua come potevano esserlo una macchina, un paio di scarpe, una penna, e non tollerava che la mia attenzione potesse essere carpita da una qualsiasi altra cosa all’infuori di lui. Alternava momenti di estrema tenerezza, in cui mi trattava al pari di una reliquia di inestimabile valore, ad attimi terrificanti di pura e ingovernabile irrazionalità. Tuttavia, mai lo avrei creduto capace di un vero e proprio sequestro di persona.

    «Andrea, per favore» mi azzardai a bisbigliare.

    Lui si fermò. Le sue scarpe produssero un cigolio sinistro che mi fece accapponare la pelle. Sollevai appena appena lo sguardo e incontrai i suoi occhi. Lì dove credevo di trovare rabbia, vidi solo disperazione.

    «Cassie, mi dispiace» disse sottovoce, le mani seppellite tra i folti ricci castani.

    Provai un singulto di sollievo. Forse era rinsavito. Mi alzai svelta dal letto, tenendo a freno le lacrime. «D’accordo, portami a casa. Ti giuro che dimenticherò ogni cosa non appena saremo lontani da qui». Non avrei dimenticato un bel niente, ma lunghe ore di serial polizieschi americani mi avevano insegnato che i pazzi vanno assecondati.

    Andrea strinse lo sguardo, negli occhi di un caldo color nocciola comparve una sfumatura giallognola e le labbra si fecero tese. «Siediti. Non andremo da nessuna parte» sibilò glaciale e ricominciò a camminare. «Perché, Cassie? Dimmi perché?»

    La sua voce si distorse in una specie di ringhio trattenuto, frutto di una esasperazione profonda, come se davvero non comprendesse per quale ragione mi ribellassi all’idea di restare segregata in una cantina. «Perché ti ostini a non capire? Tu... tu sei mia».

    «Io non sono tua!» esplosi in preda al panico. Provai a colpirlo, ma lui mi afferrò i pugni. Era troppo alto e troppo forte perché avessi anche la minima possibilità di cavarmela.

    La sua mano si strinse attorno alla mia testa, mi accarezzò piano, mentre sfogavo le lacrime sul suo petto. «Sei così bella, Cassie» bisbigliò. «I tuoi capelli hanno il colore dell’oro e i tuoi occhi...». Andrea chinò il capo, sfiorandomi la guancia con il naso. Il suo fiato caldo mi suscitò un brivido di terrore. La salivazione si interruppe. Non sopportavo più di essere toccata da lui. «I tuoi occhi sono come acquamarina. Sei così preziosa».

    A voler essere precisi, i miei capelli sono di uno scialbo biondo cenere e i miei occhi non somigliano affatto all’acquamarina. Sono di un azzurro pallido, incorniciati da ciglia chiare che certamente non ne intensificano lo sguardo. Il modo in cui Andrea mi vedeva dà l’esatta misura di quanto fosse fuori di testa. Le sue dita mi sfiorarono il collo e scivolarono giù, lungo la scollatura della maglietta. Anche se fino ad allora non aveva mai preteso nulla da me, cominciavo a temere che potesse forzarmi e ne ero spaventata a morte.

    «Tu mi appartieni, Cassie» aggiunse. «Dovresti saperlo, non ti consentirò di andare via da me».

    Stava giocando al gatto e al topo, fiutava il mio disagio, la mia paura. Il mio tremore incontrollato lo eccitava e sapevo che quelle parole, sussurrate con voce melliflua, contenevano già la scintilla della sua esplosione. Non me ne preoccupai, che facesse di me ciò che voleva. Non me ne sarei rimasta buona a guardarlo andare via, lasciandomi imprigionata. «Io non sono tua!» urlai.

    E allora arrivò il ceffone. Fendette l’aria come una freccia scoccata da molto lontano e si scontrò pesantemente con la mia faccia. Non avvertii il minimo dolore. La confusione e lo stupore ebbero la meglio su qualsiasi altra reazione. Non lo aveva mai fatto. Non mi aveva mai colpito. Mi accorsi del sangue che mi colava dal naso solo quando mi bagnò le labbra.

    «Guarda cosa mi hai fatto fare, stupida!» disse, scuotendo il capo in segno di disappunto. «Rischiare di sciuparti solo perché sei così irragionevole».

    Aprii la bocca per ribattere, ma il suo sguardo ferino di avvertimento mi zittì.

    «Vieni, ti ripulisco». Mi prese per mano. Al pari di un automa lo lasciai fare. Chiusi gli occhi, trattenendo le lacrime.

    Il mio giorno peggiore era appena cominciato e non potevo di certo immaginare fin dove mi avrebbe condotto.

    I

    La prima volta che li vidi, più che stupita, rimasi perplessa. Era il mio primo giorno di scuola. Non il primo in assoluto. Il mio primo giorno nel nuovo liceo della nuova cittadina, in cui mi ero trasferita da appena una settimana. Cambiare città e scuola, al penultimo anno e con le lezioni già cominciate, non poteva certo considerarsi un’idea geniale, ma avevo le mie buone ragioni.

    Zia Betta, la sorella di mio padre, aveva acconsentito ad accogliermi in casa sua. Viveva da sola in un piccolo paesino di provincia, abbracciato dalle montagne e abitato da appena duemila anime, in cui non c’era mai traffico. La gente se ne andava in giro in bicicletta e dopo le sette di sera non c’era nemmeno un’anima per strada. Un paese con un’unica piazza, un’unica via centrale, sì e no venti negozi, tre caffetterie, cinque banche e un solo teatro che fungeva anche da cinema e in cui le anteprime dei film in programmazione giungevano con settimane di ritardo rispetto al resto del mondo. Niente fila nei supermercati e nemmeno alla Posta. La discoteca più vicina si trovava in aperta campagna a chilometri di distanza. Irritante. La calma che si respirava in quel posto era irritante. Soprattutto per me che venivo dalla metropoli, popolata e chiassosa anche di notte.

    La nuova scuola mi ispirò un sorriso ironico. Ero abituata a ben quattro piani, due palestre, una biblioteca in cui potevi rinvenire qualunque testo fosse mai stato scritto dal Codice di Hammurabi in poi, e aule di ogni genere – aula di informatica, aula di musica, aula di pittura – ed ero finita in un istituto strutturato su un unico piano, con appena tre sezioni. La palestra somigliava più a uno scantinato, la biblioteca era uno stanzino polveroso che puzzava di muffa, con appena cinque scaffali di libri ingialliti e qualche banco malconcio. Di un’aula di musica o di informatica nemmeno a parlarne, ammesso che i computer fossero mai arrivati in quel posto dimenticato da Dio. In compenso, la scuola aveva una squadra di basket, cosa che trovai confortante, almeno avrei potuto ammirare qualche bel ragazzo in pantaloncini.

    La preside, quella mattina, mi aspettava al varco. Non ebbi bisogno di recarmi in segreteria per annunciare il mio arrivo, la trovai all’ingresso pronta a mostrarmi la sua amata scuola. Non fece che ripeterlo: lei amava la sua scuola. Armata di uno sguardo arcigno, mi ammonì che non avrebbe ammesso alcun tipo di condotta illecita da parte mia, neanche io fossi una specie di terrorista e nello zaino, al posto dei libri, stessi trasportando un ordigno esplosivo fabbricato in casa.

    Era una donnina bassa, di corporatura robusta, stringata in un completo marrone tanto stretto da soffrirle addosso. E aveva pensato bene di indossare, sotto la giacca, una camicia giallo ocra, il peggiore degli abbinamenti possibili. Le scarpe, un paio di décolleté a punta rotonda da cui strabordavano i piedi grassocci, urlavano pietà. A ogni passo temetti potessero scoppiare e i tacchi disintegrarsi sotto il peso non trascurabile della donna. Al collo, taurino e corto, si era ficcata un foulard rosso – giusto per dare un po’ di colore – abbinato a un paio di orecchini, due enormi lampadari che tintinnavano come campanelle. Anche lì temetti un crollo e non sarebbe stato un bello spettacolo se i lobi di quelle grandi orecchie avessero ceduto.

    «Questa è la sua classe!» mi disse piccata, usando un ingiustificato tono di rimprovero. Si fermò davanti a un’aula in cui, sporgendomi, scorsi studenti impegnati in chiacchiere prima dell’inizio della lezione. «Da lei, signorina De Angelis, mi aspetto ammirabile impegno e rispetto delle regole!». Se ne andò, battendo i poveri tacchi sul pavimento e senza l’accenno di un sorriso.

    «Benvenuta, Cassandra...» borbottai tra me e me, abbandonandomi contro la parete. «E per quanto riguarda l’ammirabile impegno, sai dove te lo puoi ficcare...».

    Non morivo dalla voglia di entrare in aula. Essere quella nuova, al centro dell’attenzione, non rappresentava la mia massima aspirazione, ma ormai ero in ballo e non c’era nulla che potessi fare per evitarlo. Per un attimo ipotizzai un piano di fuga. L’ingresso distava solo qualche metro e la stazione, a piedi, l’avrei raggiunta in poco meno di una quindicina di minuti. Dai Cassie, vai! Sali sul primo treno e... e poi? E poi niente. A casa non ci potevo proprio tornare. Sospirai e feci un passo, pronta ad affrontare la mia nuova e miserabile vita. Sollevai lo sguardo e fu allora, in quel preciso istante, che li vidi.

    Tre ragazze e tre ragazzi. Avanzavano nel corridoio, sotto ai miei occhi, e quello che mi colpì non fu tanto il loro aspetto, quanto il fatto che non c’entravano niente l’uno con l’altro. Mi diedero l’impressione di un mucchietto di parole, ognuna di senso compiuto ma che, se accostate le une alle altre, avrebbero dato vita al monologo sconclusionato di uno scrittore pazzo. Per prima notai la sventola da copertina al centro, bella da mozzare il fiato. Fili d’ebano per capelli, bocca carnosa e un paio d’occhi scuri in cui mi sarei persa anch’io, nonostante non avessi mai provato attrazione per una donna in vita mia. Aveva un fisico da urlo che avrebbe fatto venire qualche complesso persino a Megan Fox. Per un attimo sperai fosse una mia compagna di classe. Chi mai avrebbe potuto far caso a me, se messa a paragone con una bambola come quella?

    Accanto a lei camminavano altre due ragazze. Spiccavano più per sciatteria che per avvenenza: una alta, dinoccolata, tutt’ossa e incarnato grigiastro; l’altra bassa, bionda, vestita di rosa, il che non donava affatto al suo fisico decisamente abbondante, ma i rotolini di ciccia erano niente rispetto al suo modo di camminare. Trascinava i piedi in maniera imbarazzante, senza provare neppure ad alzarli, ogni passo dava l’impressione di costarle una fatica immane.

    Al loro seguito, una specie di damerino, un lord biondo, occhi chiarissimi e un volto quasi effeminato, si muoveva come se fosse su un piedistallo a due metri da terra e lanciava occhiatine sprezzanti tutt’intorno con il naso arricciato all’insù e una spocchia insopportabile dipinta in volto. Era vestito con abiti ostentatamente griffati e scarpe lucidissime, neanche stesse per posare per un servizio fotografico piuttosto che affrontare l’ennesimo e inutile giorno di scuola. Al suo fianco avanzava, ciondolando, un tipo più morto che vivo, magro da far spavento, gli occhi castani enormi, sgranati, pronti a schizzargli via dalle orbite. Chissà perché mi fece pensare alla fame, a uno che non mangiava da secoli.

    Dulcis in fundo, dietro a tutti loro, a passo quasi militare, marciava un ragazzo pari in bellezza alla sventola. Per poco non persi il controllo della mandibola. Muscoli, muscoli e nient’altro che muscoli, di quelli donati per pura concessione di madre natura, non il tipo che passava ore e ore in palestra a gonfiarsi come un tacchino, ingurgitando anabolizzanti a colazione. Il suo era un fisico asciutto, perfetto, un David di Michelangelo, per intenderci. Trasudava potenza a ogni movimento, dai jeans, che gli cadevano morbidi sui fianchi, spuntava un lembo di pelle abbronzata e l’elastico dei boxer. La faccia non riuscii a vederla, teneva il capo chino, i capelli nerissimi, scompigliati in onde disordinate, gli nascondevano il profilo. Scorsi solo la punta del naso. Mi sorpresi, però, di essere l’unica a guardarlo. Le persone, comprese le ragazze, si scostavano al suo passaggio, come se ne avessero timore.

    Entrai in classe. Di certo non potevo restare a sbavare nel corridoio. Mi ritrovai bersagliata da una ventina di sguardi, della serie: e questa chi è?

    Sollevai una mano in segno di saluto e subito dopo entrarono le due sciattone. Dovetti soffocare un sorriso. Una accanto all’altra somigliavano alla versione femminile e più moderna di Stanlio e Ollio. Finii per sedermi proprio dietro di loro, l’unico posto libero.

    Il mio compagno di banco era un tipo belloccio, occhi e capelli castani, accesi da riflessi color miele. Mi scostò la sedia per farmi sedere. «Stefano» si presentò e mi porse galantemente la mano.

    Dovetti fare uno sforzo per non alzare gli occhi al cielo. Non ero in vena di conoscenze maschili, l’ultima mi era bastata. I ragazzi non rientravano tra i miei progetti a breve termine, anzi non volevo averci niente a che fare. Ero consapevole di aver appena divorato con gli occhi uno sconosciuto nel corridoio della scuola, ma ciò non stava a significare che fossi propensa a fare di più. Dopotutto, la vista non mi mancava e non potevo di certo andarmene in giro con gli occhi foderati di prosciutto.

    «Cassandra» risposi con un sorriso forzato. La mano gliela strinsi debolmente e subito la ritrassi.

    Lui, stranito, sollevò le sopracciglia. «D’accordo» mormorò e tirò fuori il libro di storia. «Immagino tu sia nuova» aggiunse, mentre iniziava a sfogliarlo.

    Però. Un tipo perspicace.

    «Da dove vieni?» mi chiese.

    «Roma».

    La ragazza vestita di rosa si girò di scatto, torcendosi le dita avvolte da un paio di guanti bianchi di cotone. «Roma? Io sono nata a Roma».

    La tizia dinoccolata le sferrò una gomitata nel fianco, come se avesse appena rivelato un segreto di Stato.

    «Vivi, che vuoi?» sbottò lei, arricciando il volto in una posa contrariata. In fondo era carina, buffa, con le guance piene e soffici e gli occhi grandi, da bambina. «Io sono Anastasia» si presentò, scostando un ricciolo biondo che le era ricaduto sulla fronte. «Ma mi chiamano tutti Pig».

    Pig?! Se avessi avuto qualche chilo di troppo e qualcuno si fosse azzardato a darmi un nomignolo del genere, come minimo gli avrei fatto ingoiare la lingua e le tonsille tutte in una volta, ma contenta lei...

    «Io sono Cassandra, per gli amici Cassie».

    Pig mi sorrise, un sorriso pigro e, allo stesso tempo, dolce.

    «Hai finito?» la rimproverò la sua compagna di banco e per un istante mi guardò. Davanti a quegli occhi grigi sprofondai in un mare di tristezza, mi salì persino un groppo in gola. Fui costretta a mandarlo giù, deglutendo rumorosamente.

    «Qui c’è un sacco di gente strana» bisbigliò Stefano. «Non sei capitata in quel che si direbbe il posto più bello del mondo. Comunque, benvenuta».

    Già. Benvenuta.

    ***

    I professori, a turno, mi obbligarono alle presentazioni. Ciao a tutti, io sono Cassandra De Angelis, mi sono trasferita qui perché sono una sfigata e anche voi lo siete, perché solo degli sfigati accetterebbero di vivere in un posto simile, ma sono davvero felicissima di essere qui con voi.

    Naturalmente non dissi niente del genere. Mi limitai a pronunciare il mio nome e a raccontare che venivo da Roma. Per fortuna a nessuno saltò in mente di chiedermi come mai mi fossi trasferita in un luogo tanto ameno, altrimenti avrei potuto sbranarlo con una sola occhiata e, decisamente, non sarebbe stato un buon inizio. Ero in quel periodo in cui gli adolescenti danno il peggio di sé, in cui avrebbero voglia di rivoltare il mondo al contrario e urlare che tutto è uno schifo, con la sola differenza che la mia vita uno schifo lo era davvero.

    Quando suonò l’ultima campanella avevo voglia di vomitare sulle povere scarpe della preside e di suicidarmi con una tonnellata di cioccolata giù per la gola. Schizzai fuori dall’aula, come se si fosse esaurito l’ossigeno e stessi per morire soffocata da un momento all’altro. Nel corridoio, però, qualcosa, o meglio, qualcuno, ostacolò la mia irrefrenabile voglia di dileguarmi. La mia spalla, nel passo affrettato, urtò un bicipite decisamente ingombrante. Mi fece un male cane. Ne seguì un tonfo e poi un altro. Il mio zaino e un libro, che apparteneva alla superficie di acciaio inossidabile contro cui mi ero schiantata, finirono sul pavimento.

    «Perché non guardi dove vai?» mi apostrofò una voce irritata.

    Sollevai la testa, tastandomi la spalla dolorante, e mi ritrovai davanti alla faccia più incazzata del pianeta. Due imperdonabili occhi neri mi trafissero.

    Uno dei miei peggiori difetti è che sono troppo reattiva e pretendo di avere sempre l’ultima parola. Come da copione, mi si offuscò la vista. «Perché non lo fai tu? Imbecille!» sbottai.

    Tutt’intorno a me si scatenò un improvviso e attonito silenzio. Quei due occhi, due pietre di onice così dure da sembrare infrangibili, si strinsero al punto da farmi ingoiare l’imbecille all’istante. Ma cosa voleva fare? Staccarmi la testa dal collo per avergli urtato una spalla?

    Indietreggiai istintivamente. «Vabbe’, scusa» borbottai, chinandomi a raccogliere lo zaino. «Non l’ho mica fatto apposta».

    «Rio, lei è Cassie. È nuova». Anastasia, detta – con sua somma e misteriosa gioia – Pig, comparve a salvare la situazione.

    Rio? Che razza di nome era Rio? Non avrei chiamato così nemmeno il mio cane.

    Il tizio, tutto muscoli e, a quel punto, zero cervello, le poggiò una mano sulla spalla e senza nemmeno scusarsi – io l’avevo fatto, avrebbe dovuto anche lui – le diede un buffetto sulla guancia. «Andiamo, Pig» disse.

    Non so spiegare che mi prese, sarà stato a causa dello stress accumulato o, forse, ero solo stanca di essere bistrattata, ma sentii il sangue ribollirmi nelle vene e proprio non ci riuscii a tenere la bocca chiusa. «A quanto pare i luoghi comuni hanno sempre un fondo di verità!» esclamai.

    Rio voltò leggermente il capo e i suoi occhi, nascosti da un paio di zigomi affilati, mi trafissero di nuovo.

    «Si dice che a suon di preoccuparsi del fisico, ci si scordi di alimentare il cervello e, a quanto pare, il tuo te lo sei giocato da un pezzo» continuai imperterrita. Dovevo proprio essere diventata matta. Avevo già provato l’esperienza di essere schiaffeggiata da un ragazzo, avrei dovuto avere una fifa blu e, invece, niente. Ero un fiume in piena, pronta a straripargli in faccia. Lui mosse solo un sopracciglio e un guizzo gli attraversò la mascella. Bastò questo a ridimensionare il mio lato impavido. Indietreggiai di nuovo, mentre lui faceva un passo avanti. Udii una specie di risucchio, come se tutti avessero perso il respiro.

    «Rio, è meglio se andiamo». Un braccio cinse la vita del decerebrato e una voce incredibilmente sensuale lo invitò a desistere da qualsiasi cosa avesse in mente e che, con elevata probabilità, implicava la mia povera testa spiaccicata su un muro. La sventola, comparsa dal nulla, lo tirò per il lembo della maglietta e rivelò una serie di addominali talmente scolpiti da far impallidire anche Mister Universo.

    «Sì, Lussie. È meglio se andiamo» disse lui, il tono vagamente minaccioso.

    Restai a guardarli, mentre si allontanavano nel corridoio e la gente, intorno a me, riprendeva a respirare. Lussie è proprio un nome da cane... anzi da cagna, pensai malignamente, ma la verità è che ero verde di invidia. Lei era la creatura – perché non ero certa fosse umana – più bella che avessi mai visto, il tipo di ragazza a cui ogni altra avrebbe voluto somigliare, e lui... beh, lui era uno schianto. Un idiota, ma pur sempre uno schianto.

    Inforcai lo zaino in spalla e stavo quasi per avviarmi all’ingresso, quando incontrai lo sguardo grigio della tizia dinoccolata. Vivi. Mi osservava, immobile, la testa un po’ piegata di lato. Un ghigno inquietante le comparve all’angolo della bocca e i capelli sulla mia nuca si rizzarono di riflesso. Scappai via come se il demonio in persona mi stesse dando la caccia.

    Ecco. Questo fu il mio primo giorno di scuola.

    II

    Il bello di vivere con zia Betta è che non c’era mai. Lavorava come infermiera nell’ospedale locale ed essendo stata assunta da poco faceva turni lunghissimi che la tenevano spesso impegnata anche di notte. Intendiamoci, non mi piaceva starmene da sola, in una casa tutta vuota, durante le ore notturne, ma la sua assenza mi consentiva di non subire inutili rimproveri a causa della mia insonnia cronica, né di essere obbligata a starmene a letto a fissare il soffitto. E poi zia Betta aveva l’abbonamento alla pay-tv, il che costituiva un valido aiuto a far passare il tempo in cui non riuscivo a dormire. Inoltre, il suo frigo era costantemente pieno di schifezze e, per me, cresciuta con una fan del cibo biologico e del tofu, era sinonimo di felicità assoluta. Per i miei fianchi un po’ meno, ma, da uno a dieci, dei miei fianchi me ne fregava zero. Non voglio mica fare la modella, mi dicevo, quando il senso di colpa faceva capolino davanti allo specchio.

    Cosa volevo fare da grande? La scrittrice di libri fantasy, e la linea non rientrava nei presupposti necessari per riuscire nel mio intento. E mi piaceva disegnare e dipingere. Ero una piccola artista in erba, più una pentola a pressione a dire il vero. Ero talmente piena di emozioni che spesso non sapevo dove metterle.

    Gli ultimi avvenimenti della mia esistenza mi avevano regalato un bel po’ di rabbia repressa e avevo preso l’abitudine di fare jogging. Non ero una sostenitrice dell’esercizio fisico e non mi sarei iscritta in una palestra nemmeno se ne fosse dipeso il destino dell’universo, ma zia Betta mi aveva consigliato di sfogare i miei scatti d’ira con una bella corsetta. Jogging, però, non era la parola più adatta a descrivere le mie uscite di prima mattina. Ogni volta mi vestivo di buone intenzioni, ma dopo i primi cinque minuti la mia forza di volontà mi abbandonava, andandosene chissà dove, e io finivo a bighellonare tra le strade del paese ancora addormentato.

    In una delle mie passeggiate mattutine capitai nei pressi di un parco, recintato da alte mura di mattoni rossi scrostati. Stonavano un po’ con le palazzine del vicinato, tutte perfette, con tanto di gerani penzolanti dai balconi e nemmeno una virgola fuori posto. Dall’esterno si vedevano solo le cime degli alberi e immaginai si trattasse di un parco pubblico. Lo aggirai, cercando un’entrata, ma scovai solo un alto cancello di ferro, tutto ricoperto di edera rampicante, chiuso da una catena che, come minimo, doveva pesare una decina di chili. Perplessa e incuriosita feci per andarmene. Il tempo di voltarmi e mi ritrovai davanti il decerebrato in calzoncini corti e maglia smanicata, coperto da un sottile strato di sudore dalla testa ai piedi. Senza una ragione precisa mi venne l’acquolina in bocca. In realtà sapevo perfettamente il perché, ma non ero disposta ad ammetterlo.

    Il suo volto si corrucciò in un numero di pieghe imprecisate e mi scoccò un’occhiata gelida. «Che stai facendo?». Era così accigliato che sembrava pronto a sbalzarmi dall’altro lato della strada con la sola forza del pensiero.

    «Ni... niente» balbettai. Non era il caso di fare la spavalda. Quel tipo aveva uno sguardo da serial killer impunito.

    «Cassie!».

    Sentii urlare il mio nome e... immaginate un po’ la mia sorpresa nel vedere Pig in tenuta da jogging, una tutina rigorosamente rosa, che le stava appiccicata come una seconda pelle, venirmi incontro e sbracciarsi nella mia direzione. Era ridotta uno schifo, tutta sudata, e i riccioli le grondavano sulla fronte e sulle spalle. Negli ultimi giorni, a scuola, aveva tentato in ogni modo di attaccare bottone con me, ma mi ero mostrata piuttosto reticente. Se proprio dovevo fare amicizia, perché scegliere la più sfigata? Non mi davo delle arie, ma al liceo, se cominci con il piede sbagliato, rischi che ti attacchino addosso un marchio e non ci tenevo affatto ad averne uno. Non quello di sfigata, almeno. Senza contare che Vivi, sua sorella – ebbene sì, le due sciattone erano imparentate – continuava a suscitarmi una certa inquietudine, oltre che infondermi un insopportabile senso di tristezza.

    «Anche tu vai a correre, la mattina?» mi chiese la versione in carne e ossa di Miss Piggy, sputando fuori grovigli di fiato. Il mio abbigliamento, pantaloni della tuta e felpa sportiva, l’aveva tratta in inganno. Si piegò, sfinita, puntellando i palmi delle mani sulle ginocchia. «Potresti venire con noi, la prossima volta».

    Io e il decerebrato le lanciammo entrambi un’occhiataccia.

    «Mio fratello è davvero bravo come istruttore» insistette.

    In quel momento due pensieri mi attraversarono il cervello. Come hanno fatto la madre e il padre di questi due a dare vita a combinazioni genetiche tanto diverse, e: Piuttosto che farmi dare ordini da Big Jim preferirei prendermi a martellate le dita dei piedi da sola.

    «Grazie per il cortese invito, ma non credo proprio». Non mi preoccupai minimamente di celare il sarcasmo e arricciai il naso in una smorfia.

    Pig si strinse nelle spalle. Fortunatamente, non reiterò la proposta. Il decerebrato, invece, si lasciò sfuggire un sorrisino sardonico, mentre mi scrutava dall’alto in basso.

    «Cosa?» sbottai. Inspiegabilmente ero di nuovo fuori controllo, mi prudevano le mani dalla voglia di tirargli un pugno in faccia.

    «Avresti bisogno di correre» affermò, riferendosi chiaramente al mio fisico.

    Non ero grassa, ma nemmeno magra. Ero una ordinaria, con qualche difettuccio e, magari, anche un accenno di cellulite sulle cosce. Nel complesso, però, non ero poi così male, non tanto da dovermi ridurre nello stato di Pig, né da essere obbligata a smuovere la mia pigrizia latente. Fottiti!, pensai. Non lo dissi. Ho avuto una educazione piuttosto rigida sull’uso delle parolacce. Tuttavia, nella mia testa avevo la libertà di dire qualsiasi cosa.

    «Magari vuoi farlo tu?» ipotizzò il decerebrato, intuendo il mio accorato e silenzioso invito.

    Mi si accesero le guance e una furia incontrollata mi scoppiò nel petto. Sì, avevo una dannatissima voglia di prenderlo a pugni!

    «Nei tuoi sogni!» ribattei, prima di scandalizzarlo con un gestaccio davvero poco femminile. Al diavolo l’educazione! Se l’era cercata.

    Me ne andai senza dargli il tempo di replicare

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1