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Shoulder Blade
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E-book420 pagine5 ore

Shoulder Blade

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Info su questo ebook

La diciassettenne Zara Monthgomery vive la sua vita da adolescente in modo normale e tranquillo portandosi addosso l'enorme peso della scomparsa dei genitori e della sorella maggiore avvenuta durante un incidente d'auto. Tutto sembra spento e privo di significato fino a quando non comincia ad avere visoni di omicidi da parte di un misterioso serial killer che da mesi sta lasciando dietro di sè una scia di sangue e terrore. Da quel momento in poi Zara si rende conto di possedere abilità sovrannaturali: nel suo mondo tutto si trasforma e ben presto si ritroverà catapultata in una realtà che la metterà faccia a faccia con la sua vera natura. È la discendete di un'antica dinastia creata dal dio Odino, le Shoulder Blade, che lottano per proteggere la loro identità e il proprio mondo ormai sull’orlo del baratro. Zara dovrà quindi fare i conti con se stessa e con le sue fragilità, superando limiti e paure perché per affrontare il pericolo che sta incombendo avrà bisogno di tirare fuori tutto il suo coraggio...
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2015
ISBN9788867824748
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    Anteprima del libro

    Shoulder Blade - Chiara Agresti

    Chiara Agresti

    SHOULDER

    BLADE

    EDITRICE GDS

    Chiara Agresti Shoulder blade©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel. 02 9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Collana ©AKTORIS

    Illustrazione in copertina di ©Bryan Mazzini

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

    Il presente romanzo è frutto della fantasia dell’Autrice. ogni riferimento a persone, cose, luoghi e fatti realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.

    A Marzia.

    PREFAZIONE

    Ho vissuto nell’illusione di un mondo perfetto per molto tempo.

    Mi guardavo intorno e avevo esattamente quello che volevo: una famiglia che mi amava, un’amica fedele e sincera; a scuola poi ero sempre stata brava.

    Avevo una vita semplice: piena di gioia e amore, un amore che ho faticato tanto a ritrovare.

    Varie volte mi sono chiesta come mai tutto sia svanito all’improvviso. Ho provato persino a darmi delle risposte. Non ne ho trovate.

    Sono stata privata di tutto e la sola cosa che mi restava era il dolore. Ho convissuto con lui a lungo, dimenticandomi di ogni cosa.

    «Ricorda chi sei veramente»ripeteva sempre mia madre.

    Il problema è che io non l’ho mai saputo davvero.

    CAPITOLO 1 - Risveglio

    Il sole illuminava l’intera stanza. Con gli occhi ancora chiusi emisi un lungo respiro: non avevo voglia di alzarmi.

    Oggi, proprio non ne avevo la forza.

    A farmi cambiare idea fu l’ondata di calore che mi colpì il viso. L’estate non era ancora arrivata e già il caldo si faceva sentire. Inspirai profondamente e iniziai a vestirmi con lo sguardo fisso sul calendario posto a lato della scrivania.

    24 maggio 2008.

    Il giorno in cui la mia famiglia era scomparsa. Quando i miei genitori e mia sorella maggiore morirono in un incidente d’auto, avevo tredici anni e da allora ne erano passati quattro.

    La sorella di mia madre, la zia Crystal, e suo marito Anthony erano gli unici parenti rimasti, mia madre li chiamava nomadi. Sono cuochi e spesso vengono contattati da qualche albergo o ristorante famoso: non si fermano nello stesso posto per più di un anno.  Secondo i servizi sociali non era una buona idea che restassi con loro: avevo subito un trauma e mi serviva stabilità ed essi non potevano darmela. Sono stata affidata a una casa famiglia e quando credevo che tutto fosse perduto ho conosciuto i Sullivan. Mi hanno adottato legalmente l’anno successivo.

    La signora Sullivan aveva desiderato per tutta la vita, più di ogni altra cosa, avere dei figli ma la sua sterilità glielo aveva impedito. Quando mi adottò, divenni il surrogato di quel figlio che aveva sempre voluto avere. Mi trattò come tale fin dall’inizio.

    Mi fece sentire amata. Assieme a suo marito costruì una stanza apposta per me con un enorme letto lillà e le pareti bianche. Adorai quella stanza all’istante e ben presto divenne un luogo sicuro.

    Il mio luogo sicuro. Nulla poteva toccarmi dentro quelle quattro mura,mi sentivoprotetta. Al riparo. Mi recai in cucina sorridente. Ero talmente abituata a fingere che a volte finivo per crederci anch’io.

    David era seduto di fronte a una tazza di caffè fumante mordicchiando una brioche mentre leggeva il giornale.

    «Robe da pazzi!» esclamò alzando lo sguardo dall’articolo che aveva attirato la sua attenzione.

    «Che cosa succede?» domandòLudmilla incuriosita.

    «La polizia ha trovato altri due cadaveri nel Michigan, stesso modus operandi di quelli trovati in Ohio due settimane fa: sgozzati e poi fatti a pezzi».

    «È davvero assurdo » disse mia madre «chi farebbe una cosa del genere?».

    «Un pazzo probabilmente»rispose secco mio padre.

    «Scusate ma devo andare. Faccio tardi al lavoro. Zara?»si voltò verso di me «Cerca di prenderlo in tempo l’autobus questa volta».

    Mi diede un bacio sulla fronte e dopo aver salutato mia madre, uscì.

    Mio padre era sempre così: un po’sfuggente.

    Divorai la colazione a base di pancake e succo d’arancia in un secondo.

    L’autista suonò il clacson due volte.

    Afferrai di corsa lo zaino che avevo appoggiato sul divano e uscii da casa.

    Salii in autobus appena in tempo.

    «Sempre al pelo nonè vero biondina?» George portava un cappello con la visiera e due occhiali tondi che gli davano un’aria un po’buffa.

    Era un uomo sulla cinquantina, grassottello e con il pizzetto. Prendevo il suo autobus fin dalle medie e ormai mi conosceva bene.

    «Scusami George».

    «Ho una cosa per te». Dalla tasca dei pantaloni estrasse un quadrifoglio e me lo porse «Un giorno la fortuna girerà dalla tua. Ne sono sicuro».

    Ogni anno nella ricorrenza della morte dei miei, George mi regalava qualcosa. La prima volta che presi l’autobus dopo il funerale mi regalò un peluche. Era qualcosa di automatico per lui, conosceva i miei genitori e sapeva quanto ci fossi legata. Il suo era un modo per farmi sentire meno triste. Mi diressi verso l’ultima fila, nel posto accanto al finestrino, ascoltando l’mp3 come facevo sempre. Accanto a me un ragazzo leggeva il giornale nello stesso modo assorto di mio padre.

    «Davvero una brutta storia, vero?»

    «Oh, scusa. È solo che l’ha letto anche mio padre questa mattina»dissi togliendomi l’mp3 dalle orecchie.

    «Fa davvero paura. Non c’è proprio limite alla follia umana».

    «Come dici?»

    «Mi riferivo agli omicidi. Come si può sgozzare una persona e poi avere ancora voglia di torturarla? Lo chiamano l’Indemoniato perchéuccide con una brutalità mai vista prima. A quanto pare però, la cosa davvero strana sono le cicatrici trovate sui corpi».

    «Cos’hanno di particolare?»

    «Sono circondate da un alone nero e i medici non sanno cosa sia. Non si è mai visto niente del genere prima».

    «Questa strage va avanti da mesi»affermai.

    «Hai idea di come ci si possa sentire? A perdere di colpo ogni cosa? La famiglia. Gli amici. Ogni cosa spazzata via nel giro di pochi secondi. Hai idea di come ci si possa sentire? Ti consiglio di tenere gli occhi aperti fatina».

    «A dire il vero sì»risposi prima di scendere dall’autobus «So come ci si sente».

    Odiavo il lunedì mattina. Chiunque all’interno di quell’edificio dalle pareti scrostate lo odiava, persino le pareti stesse.  Mi diressi verso il mio armadietto con andatura cascante nel vano tentativo di non scontrarmi con nessuno.

    «È stato fico, sai? Il modo in cui abbiamo passato la serata ieri. Davvero fico». La voce squillante di Alexa mi fece sobbalzare.

    Conoscevo Alexa Mc Person da quando avevo tre anni. Mi era sempre stata accanto, soprattutto dopo la morte della mia famiglia, ciò nonostante non la definivo mia amica. Per me era solo un grosso peso. Ogni cosa lo era.

    «Alexa, pizza e film a casa mia non èper niente fico».

    «Hai ragione. È stato originale.  Saresti potuta andare con Laura, però non l’hai fatto».

    «Le discoteche non fanno per me. Lo sai».

    «Esatto. È proprio di questo che sto parlando. Sei nella squadra di pallavolo dunque sei una specie di celebrità, eppure preferisci startene in casa a guardare un film piuttosto che sballarti in discoteca. È originale, sai?»

    «Se lo dici tu. A me sembra solo di andare contro tendenza».

    «Forse è per questo che piaci tanto» disse indicandomi un gruppo di ragazzi che mi squadravano famelici.

    La campanella trillò sfondandomi i timpani.

    «Ci vediamo in mensa»rispose Alexa sorridendo.

    Annuii dirigendomi verso la mia aula. 

    La signora Backster entrò in classe annunciando che avrebbe interrogato. Non c’era da stupirsi: lo faceva sempre.

    Il primo ragazzo che chiamò non spiccicò nemmeno una parola, rimase imbambolato a fissarla con il terrore dipinto negli occhi per cinque minuti.

    Lo rispedì a posto con una bella F. Ne chiamò un altro ma nemmeno questo dimostrò  di aver studiato granché. Quando venne il mio turno, mi stavo rigirando il quadrifoglio di George tra le dita Bella fortuna pensai.  Venire a scuola era stato un suicidio. Nei corridoi e nelle aule echeggiavano schiamazzi e risate che mi provocavano un gran mal di testa. Quando suonò l’intervallo, ringraziai Dio…non che ci credessi ovviamente. C’era un unico posto in cui volevo andare e non aveva niente a che fare con il giardino. La scuola ne possedeva uno immenso: era lì che stavano tutti quanti durante la pausa. Ma non io.

    «Ehi tu!» un paio di braccia sottili mi circondarono la vita.

    «Laura» sussultai. Laura faceva parte della squadra di pallavolo: aveva due grandi occhi marroni sempre stracolmi di mascara e lunghi capelli neri.

    Il suo sogno fin da bambina era di diventare una modella ma mi aveva confessato che anche stare nella squadra non le dispiaceva.

    A parte la pallavolo non avevamo nulla in comune ma andavamo comunque d’accordo.  Alexa invece non la sopportava.

    «Accompagnami in biblioteca» disse trascinandomi con lei.

    Uno dei miei posti preferiti, dopo la palestra, era la biblioteca.

    Avrei voluto passarci la pausa da sola ma dire di no a Laura era impossibile, specie se ti coglieva alla sprovvista. Il preside aveva fatto ristrutturare la biblioteca un anno fa: era spaziosa, piena di scaffali, colma di libri e ricca di tavoli dove poter studiare. L’unico difetto di quel luogo incantato era l’assistente del professor Nicklas.

    «Professor Nicklas?» la voce di Laura risuonò nell’intera biblioteca.

    «Forse è ancora a lezione» dissi.         

    «Come mai non sei venuta ieri sera?» mi chiese con tono di stizza.

    «Non mi sentivo tanto bene».

    «Ma ora sì, vero? Ti ricordo che domani alla quarta ora dobbiamo battere la squadra di Justin».

    Justin Allen era un ragazzo del penultimo anno, il che significava che il prossimo sarebbe andato al college. Non ci avevo mai parlato, era un tipo riservato e a dirla tutta un po’ m’intimoriva.

    «Pensi di restare concentrata?»

    Laura arrossì come una bambina. Aveva una bella cotta per lui, come tutte le altre ragazze del resto.

    Io non ero interessata a questo genere di cose.

    «Davvero ti emozioni alla mia vista?» Dal bancone della reception comparve un ragazzo dai capelli castani che ci sorrise maliziosamente.

    «Nemmeno per sogno Matt».     

     Matt Lee, l’assistente del professor Nicklas.

    A volte capitava che il professore, amante appassionato dei libri, fosse troppo occupato a causa d’interrogazioni e compiti di storia da correggere, allora il suo prezioso gioiello era affidato a Matt.

    Ancora non ero riuscita a capire come mai avesse incaricato lui d’occuparsene. Ogni studente possedeva una tessera che dava la possibilità di prendere solo un certo numero di libri dalla durata di tempo variabile.

    «Il professor Nicklas?» chiesi appoggiandomi al bancone.

    «Non hai voglia di vedermi?»

    «Dio! Matt sei sempre il solito e finiscila una buona volta» rispose Laura rotolandosi i capelli tra le dita.

    Il ragazzo puntò il suo sguardo ammaliatore su di lei. Alcuni riccioli castani gli caddero sul viso.

    Matt li spostòcon la mano. Laura sorrise.

    Matt aveva un fascino tutto suo e a scuola era conosciuto per il suo lato da seduttore.  Non faceva il filo proprio a tutte ma era attirato dalle ragazze della squadra di pallavolo come api alla vista del miele. A detta  di molte ragazze era anche un bel tipo: alto, slanciato e dal fisico scolpito.

    «Non essere gelosa. Lo sai che il mio cuore batte solo per te» rispose senza staccarle gli occhi di dosso. 

    «Certo, certo» Laura abbassò lo sguardo. Si morse il labbro inferiore mentre la sua bocca disegnava un sorrisetto chiaramente compiaciuto. Matt non se ne accorse. Io sì.

    «Allora, in cosa posso esserti utile bellezza?»chiese Matt spostando la sua attenzione su di me.

    Estrassi la tessera «Mi serve Per chi suona la campana di Hemingway».

    «Un gruppo di partigiani repubblicani che agivano dietro le linee fasciste tra El Escorial e Segovia, nelle zone boscose della Sierra de Guadaramma in Spagna. Lettura interessante».

    «Mi serve per il compito di storia».

    Matt frugò in uno scaffale dietro di lui poi tornò con un libro in mano.

    «Non sei la prima a chiedermelo» disse «Ma sei la prima cui posso dare ripetizioni».

    «Ne faròa meno» risposi dandogli la tessera che mi timbrò «Posso tenerlo per due settimane, giusto?» Laura tossì.

    «Di cosa hai bisogno?»

    «Canti di Castel Vecchio, voglio tutta la raccolta di poesie se è possibile»Matt batté le palpebre «È Pascoli».

    «Oh, chiaro. Lingua inglese?»

    «Lingua originale».

    Matt consultò il computer nel quale erano classificati tutti i libri secondo genere e autore.

     Scorse nella lista dei poeti italiani.

    «Te lo prendo subito».

     Si avviò nella sezione dedicata alla poesia italiana, poi tornò con in mano un raccoglitore in cui erano inserite tutte le poesie.

    «E da quando leggi poesie?» le chiesi stupita.

    «Vuoi scherzare! Io non leggo poesie. È per mia sorella. Questa estate vuole andare a trovare i miei nonni in Italia e vuole essere preparata».

    «Ci andrai anche tu?»

    Laura sorrise «Mi piacerebbe ma ho altri progetti».

    «Sono divise in ordine cronologico».

    «Grazie» Laura gli porse la tessera.

    «A volte scordo le tue origini italiane» disse Matt timbrandogliela.

    «A volte scordi persino la testa».

    «Perché penso sempre a te».

    «Ruffiano».

    «E tu sei bellissima».

    L’elettricità sprigionata dai loro sguardi era tale da far andare in corto circuito la scuola. La campanella trillò.

    «Ci vediamo»dissi strattonando Laura.

    «Quant’èfastidioso!» borbottò lei.

    «Beh io vado in classe».

    «Ricordati della partita di domani»

    Percorsi il corridoio che portava alla mia aula.

    Era deserto.

    L’unico momento della giornata in cui finalmente regnava il silenzio.

    Per terra, in un angolo accanto al cestino della spazzatura, l’articolo in prima pagina sulle morti del Michigan mi paralizzò. Lo raccolsi. Lasciai scorrere le dita sul profilo del ragazzo. Si chiamava Joshua, non ne potevo essere sicura però. Tutto divenne confuso.

    Urla.

    Feriti.

    Sangue.

    Cicatrici.

    Morti.

    Le immagini si accavallavano nella mente senza un ordine logico.

    Flash su flash.

    La testa iniziò a pulsarmi, la sentivo scoppiare. Iniziò a girare e il viso di Joshua divenne sempre piùindistinto.

    Vedevo solo i volti dei ragazzi del Michigan.

    Poi niente.

    Non so per quanto tempo rimasi svenuta. Quando mi svegliai due grandi occhi verdi mi fissavano preoccupati. Erano gli occhi più belli che avessi mai visto: scuri e profondi.

    «Ti senti bene?» 

    «Sto bene» dissi alzandomi. Mi guardai intorno. Il corridoio era vuoto.  «Cos’è successo?» non credevo di aver rivolto la mia domanda proprio a lui.

    «Sei svenuta» rispose Justin osservandomi bene «Stavo andando in aula e ti ho trovato. Ti gira la testa per caso?»

    «Sto bene». Il volto di Joshua riaffiorò nella mia mente facendomi venire la pelle d’oca. «Non ho fatto colazione questa mattina» mi affrettai ad aggiungere «andavo di fretta».

    «Vuoi che ti accompagni in aula?»

    «Faccio da sola».

    Nel dirlo sentii le gambe cedere.  Il braccio di Justin scivolò con delicatezza attorno al mio fianco.  Non gli ero mai stata così vicina. Fui invasa da un odore fresco e delicato.

    «Grazie» risposi scostandomi da lui. Le gambe continuavano a tremarmi ma non avevano nulla a che fare con lo svenimento.

    Un brivido mi attraversò la spina dorsale costringendomi ad allontanarmi da lui. Justin, accanto a me, sorrideva incerto. Sul suo viso dai lineamenti regolari comparvero due fossette ai lati delle guance.

    I capelli castani tutti spettinati gli davano un’aria ribelle; portava una maglietta a maniche corte e un paio di jeans strappati, sulle braccia nude risaltavano le venature, verdi come i suoi occhi, in contrasto con la pelle chiara.  Quegli occhi così profondi m’inquietavano, avevo l’impressione che potesse leggermi dentro, fino all’anima.

    «Ti offro un tè» disse «Hai bisogno di zuccheri».

    «Davvero. Non è necessario. È stato solo un capogiro» .

    Ma prima che potessi impedirglielo si era già recato alla macchinetta.

    Mi avvicinai a lui con cautela; ogni passo era calcolato per essere il più preciso possibile, pronto alla fuga se era necessario.

    «Limone o pesca?»

    «Limone».

    «Sta attenta. Scotta».

    «Grazie».

    «Sediamoci».

    Ci sedemmo su una panchina di legno e per i primi cinque minuti nessuno dei due disse nulla.  A spezzare quel silenzio fu Justin.

    «Ti chiami Zara, vero?» Annuii stringendo il tè caldo tra le mani «Ti ho vista giocare a pallavolo. Sei forte».

    Avevo lo sguardo fisso sul bicchiere di tè e non avevo alcuna intenzione di staccarlo.

    «Dovresti berlo» mi disse «Altrimenti si raffredda».

    Appoggiai le labbra contro il bordo del bicchiere. L’odore fresco e delicato che avevo sentito prima mi entrò nelle narici. Basilico. Ecco cos’era.

    «Io sono Justin».

    Il tèmi bagnò le labbra riscaldandomi tutto il corpo. 

    «Sei al penultimo anno».

    «Già.  Non credevo che sarebbe arrivato così in fretta. Non voglio andarmene. Non ancora».

    Mi portai nuovamente il tè alle labbra. «Non è male. Andarsene».

    «Tu lo faresti? Se fossi al mio posto, lo faresti?»

    Alzai lentamente lo sguardo verso di lui. Era proteso in avanti con i gomiti sulle ginocchia; i miei occhi si scontrarono con i suoi, così scuri che ebbi quasi l’impressione che fossero privi di pupilla. Il brivido che mi aveva attraversato la schiena la prima volta tornò.  Distolsi lo sguardo da lui.

    «Sì. Se potessi andarmene lo farei».

     «E dove andresti?»

    «Non ha importanza dove. Basta che non sia qui».

    «Io voglio restare. Non posso andarmene, non posso farlo».

    La sua voce era calma e pacata con qualche nota triste e malinconica. Avevo lo sguardo fisso sulle piastrelle color crema del pavimento e continuavo a ripetermi che era stato uno sbaglio. Sarei dovuta rimanere a casa a crogiolarmi nel mio patetico e solitario dolore.

    La testa mi sembrava più leggera ma non potevo dire lo stesso del cuore. Avevo l’impressione che la parete vascolare che lo circondava si stringesse sempre di più attorno a lui, sotto la gabbia toracica. Lo sentivo farsi sempre più piccolo, come se volesse nascondersi per non farsi trovare mai più. La pressione delle pareti aumentò, comprimendolo, schiacciandolo quasi. 

    Mi mancava il respiro.

    Appoggiai il bicchiere di tè sulla panchina e mi portai la mano destra al cuore. Uno squarcio letale e violento m’attraversò il petto facendomi gridare.

     «Zara?» La voce di Justin era un sottofondo smarrito e sordo.

    Mi piegai sulle ginocchia pregando che il dolore svanisse ma non faceva altro che aumentare.

    Lo squarcio divampò opprimendomi.

    Alla fine, il dolore incrostato per anni, sepolto in ogni angolo buio, lasciato solo e abbandonato a se stesso aveva proliferato. Aveva infranto le robuste pareti dei vasi sanguigni ed era pronto a essere liberato.

    Aveva ceduto. Se ne sarebbe andato per sempre ed io con lui.

     «Zara? Zara ti prego parlami» La voce di Justin era limpida e chiara, piena di preoccupazione e terrore. Un rumore assordante mi perforò i timpani.

    Era metallico e brusco. Lo isolai.

    Non fu difficile: c’era un altro suono che mi attraeva, più delicato e caldo.

    Mi concentrai su quello e tutto il dolore svanì.

    «Zara? Dimmi qualcosa ti prego».

    Mi tirai su a fatica «È passato» sussurrai «È tutto passato adesso».

    Il corridoio s’era riempito di un vociare confuso e caotico e accanto al cestino della spazzatura il volto di Joshua veniva calpestato più volte senza alcun ritegno, senza alcuna pietà.

    «Zara…».

    «È passato» lo interruppi «Ora sto bene». Justin mi lanciò uno sguardo di disapprovazione. Aveva i muscoli contratti e sul suo viso persisteva un’espressione sgomenta. «Devo andare inaula adesso».

    «Stai scherzando vero?»

    Mi alzai di scatto e nel farlo il bicchiere di tè si rovesciòsul pavimento.  «Dovresti andare a casa» i suoi occhi verdi si fecero seri «Dovresti riposare».

    «Sì, dovrei farlo». Grida, profonde e sonore rimbombarono nella mia testa. Mi allontanai senza voltarmi indietro. Volevo andarmene.

    Volevo il mio posto sicuro.

    «Dove stai andando?» Alexa mi afferrò il braccio con decisione «Stavi parlando con Justin? Cavolo Zara, questo è il tuo giorno fortunato».

    «Come hai detto scusa?»

    «Che è il tuo giorno fortunato».

     La fissai negli occhi sconvolta «Già. Fortunatissimo» dissi oltrepassandola.

    «Non era  quello che volevo dire».

    La voce di Alexa che dal fondo del corridoio  chiedeva di perdonarla mi dava sui nervi.

    La ignorai continuando a camminare dritto fino a  quando non raggiunsi l’uscita.

    Una folata d’aria calda mi scompigliò i capelli. Respirai a fondo. Odiavo il caldo. Mi sentivo obbligata a essere felice ed io non lo ero.

     «Ehi» la voce di Justin mi paralizzò. Mi si avvicinò cauto, quasi mi temesse. «Ti ho vista andartene. Ti serve un passaggio?»

    «Devi tornare in classe» dissi senza guardarlo «Ti ho fatto perdere già troppo tempo».

    Fece un passo in avanti «Posso accompagnarti a casa».

    «Aspetterò l’autobus».

    «Ti faccio compagnia».

    «Non voglio che tu lo faccia». Le parole mi uscirono dalla bocca così velocemente che non ebbi il tempo di elaborarle. «Mi dispiace, io…Non volevo dire questo. Posso cavarmela da sola. Ecco tutto».

    «Sì» rispose «Immagino che tu possa farcela».

    Stava accadendo di nuovo.  La fitta che mi aveva lacerato il cuore era tornata.

    Repressi il desiderio di gridare e resistetti alle lacrime che minacciavano di scendere.

    «Aspetta» respirai a fondo «Protesti restare. Fino a quando non arriva l’autobus».

     «Okay» disse «Resto. Fino a quando non arriva l’autobus».

    Mi rivolse un sorriso rassicurante e per quanto mi fu possibile cercai di ricambiarlo. Il mio cuore si fece più grande, liberato dall’opprimente giogo che lo affliggeva, tornò a scandire battiti lenti e un po’ insicuri. Restammo ad aspettare l’autobus per dieci minuti. Il cielo iniziava a farsi nuvoloso, tra un paio d’ore sarebbe iniziato a piovere. Justin se ne stava accanto a me con le mani in tasca, sobbalzò quando gli vibrò il cellulare.

    Lo estrasse e se lo rinfilò in tasca.

    «Se… Se devi andare, vai pure. Arriverà tra qualche secondo ne sono sicura».

    «Non è niente. Posso restare se non ti da fastidio».

    «Nessun fastidio» Mi sorpresi per quanto fossi stata sincera.

    Avevo smesso di tollerare la gente molto tempo fa, avevo smesso di fingermi carina per piacere a qualcuno nonostante tutti facessero a gara per essermi amici. Il telefono di Justin vibrò ancora.

    «Dovresti rispondere. Potrebbe essere importante».

    «Non loèfidati.È solo un gran seccatura».

    «Indonesia».

    «Come?»

    «Se dovessi scegliere un posto per andarmene, sceglierei l’Indonesia».

    «È bellissima» disse «E anche molto lontana».

    «Per questo la sceglierei».

    «Sembri proprio decisa a lasciare Eureka».

    «È un’idea che mi alletta molto. Solo che per il momento non posso fare nulla».

    Il sole gli colpì il viso illuminandoglielo. Non avevo mai fatto caso alla sua bellezza prima d’ora. Mi sorrise e per la prima volta non ebbi alcun timore nel ricambiarlo. L’inquietudine che sentivo verso di lui svaniva solo fino a quando non incrociavo i suoi occhi. Erano belli, anzi stupendi, c’era però qualcosa in essi che mi terrorizzava. Non sapevo dire cosa fosse ma ne avevo paura.

    «Non ho mai pensato di abbandonare Eureka» la sua voce mi riscosse dai miei pensieri. «Sono nato qui. È difficile lasciare questo posto».

    «Questo vuol dire che non hai ancora idea di quale college frequentare?».

    «Esatto. Diciamo che non è il mio obiettivo principale».

     «Allora qualè?»

    «Per adesso? Solo riuscire a batterti domani».

    «Sarà dura vincere contro un capitano sofferente come me».

    «Mi auguro che domani le tue condizioni siano migliori. Mi piace vincere ad armi pari».

    «Quindi ti piace vincere».

    «A chi non piace».

     «A me» Justin mi fissò dritto negli occhi «Voglio dire…».

    «Tranquilla. Dimmi quello che pensi. Lo voglio sapere».

     «Vincere non ha senso. Cinque minuti di gloria. È questo quello che si vince. Fama e popolarità sono solo conseguenze. La vera vittoria sono quei cinque minuti di gloria in cui credi di aver cambiato il mondo. Non ha senso. Vincere non ne ha». Distolsi lo sguardo da lui «Questo è quello che penso».

     «Perché hai iniziato a giocare a pallavolo allora?».

     L’autobus si fermò a un metro da me.

    «Devo andare a casa. Grazie per la compagnia».

     «Ci vediamo domani».

    Salii in fretta sull’autobus. Mentre l’immagine di Justin si faceva sempre più piccola ebbi la sensazione di sentirmi un po’ più leggera.

    Mi portai la mano al petto.

    Quel dolore era stato così forte da farmi desiderare di strapparmi il cuore.

    Dopo quattro anni soffrivo ancora come un cane, avrei sofferto sempre e ogni anno sarebbe stato più devastante del precedente.

    L’autobus fece una sosta davanti al cimitero. Non ci avevo mai messo piede. Mai. Mi ero dimenticata di quel posto il giorno in cui la mia famiglia era stata seppellita sotto cumuli di terra. L’avevo trovato un gesto orribile, privo di tatto e di rimorso. Ci avevano separati per sempre. Ma il vero colpevole di tutta questa storia era quel pazzo ubriaco che gli era andato addosso. Avevo provato molta rabbia per lui, lo avevo maledetto non so quante volte, adesso invece non provavo nulla. Né rabbia, néodio. Niente.

    «Ragazzina» mi voltai verso la voce dura e fredda che aveva parlato.

    Nel sedile di fronte al mio era seduta una donna sulla quarantina magra e dalla pelle diafana, leggere sfumature arancioni spuntavano qua e là tra i capelli rosso fuoco tirati indietro in tante piccole treccine che s’univano poi in un’unica grande treccia che le arrivava a metàdel busto.

    Indossava un vestito rosa, lungo fino alle ginocchia, sulla vita portava una spessa cintura di cuoio e gli stivali le arrivavano a metà delle  lunghissime gambe lasciandone scoperta solo una piccola parte.

    I suoi piccoli occhi scuri mi fissarono minacciosi.

     «Sì?»

    «Ti ha chiesto perché non scendi» disse indicandomi George.

    Non mi ero resa conto di essere arrivata a casa.

    Scesi rapida dall’autobus e m’incamminai sul vialetto. A un tratto mi fermai. Avevo come la sensazione di essere osservata. D’istinto mi voltai.

    Attraverso il finestrino dell’autobus la donna dai capelli rossi mi fissava.

    CAPITOLO 2 - Tensione

    Urla.

    Città in fiamme.

    Corpi smembrati e volti tumefatti.

    Ancora grida.

    Fiumi di sangue. Una donna si copre il viso con le mani insanguinate.

    Morte. Morte. Morte.

    Voci indistinte sussurrano morte. Lentamente la donna scopre il suo volto. Gli occhi piangono sangue. Figure ormai decomposte mi osservano.

    Le loro labbra si muovono lente, scandiscono piano parole mute. Sussurrano qualcosa che non capisco.

    La donna compare di nuovo.

    Le voci che proclamano la sentenza di morte si fanno più insistenti. Silenzio.

    D’un tratto dall’oscurità si leva un grido.

    Mi svegliai di soprassalto con il cuore che batteva all’impazzata.

    Diedi uno sguardo veloce alla sveglia. Segnava le due e mezzo di notte.

    Mi asciugai la fronte imperlata di sudore mentre cercavo di riprendermi dall’incubo appena avuto.

    A catturare la mia attenzione fu un rumore  stridulo e agghiacciante che proveniva da fuori. Scesi piano dal letto e cautamente mi avvicinai alla finestra. Spostai le tendine color lilla per capire meglio di cosa si trattasse.

    Nel buio della notte due grandi occhi verdi brillavano.

    Spalancai la finestra e lo vidi lì, accucciato su un ramo dell’albero che si trovava a pochi centimetri. 

    Un gatto bianco, bellissimo e dal pelo folto.

     «Come ci sei arrivato fin qui?» gli domandai allungando le braccia per prenderlo. Sapevo che i gatti erano agili e veloci ma quell’albero doveva essere alto almeno dieci metri ed era pazzesco che si fosse arrampicato così in alto. Mi fissò con gli enormi occhi verdi e dilatando le fauci mi mostrò i suoi piccoli denti appuntiti. Li digrignò quando feci il gesto di riportarlo sull’albero.

    «E va bene ti terrò con me, ma solo per questa notte» dissi richiudendo la finestra. Mi sedetti sul letto e scese dalle mie braccia mettendosi diritto in un angolo. Soltanto allora notai che attorno al collo portava un sottile nastrino rosso con in mezzo un fiocchetto anch’esso rosso dal quale pendeva un sonaglino d’oro: su entrambi i lati vi erano degli strani simboli, tutti attorcigliati e molto complessi.

    Mi ritrassi rapidamente quando sentii Ludmilla appoggiare la mano sulla maniglia per aprire la porta.

    Fu un secondo: il gatto che prima si trovava sul letto fece un salto agile e veloce e balzò per terra nascondendosi.

    «Tutto bene tesoro?»

    «Tutto sotto controllo» risposi infilandomi sotto le lenzuola.

    «Okay, cerca di dormire allora ».

    «Notte» le dissi mentre la guardavo chiudere delicatamente la porta per non fare rumore. Diedi un’occhiata in giro e di colpo me lo ritrovai davanti. Mi osservò un instante poi si accucciò in fondo al letto; aprì la bocca quasi in uno sbadiglio poi, piano piano chiuse i suoi grandi occhi.

    Rimasi imbambolata a fissare il soffitto. Per riaddormentarmi dopo l’ incubo che avevo avuto feci una fatica enorme. Mi giravo e rigiravo nel letto spostando le lenzuola da una parte all’altra. Quando finalmente riuscii a prendere sonno qualcosa di umido mi lavò la faccia. Aprii gli occhi che si scontrarono con quelli del gatto.

    Si ritrasse non appena m’alzai bruscamente dal letto, scese immediatamente e si sistemò di fianco al mio zaino leccandosi le zampe.

    Dopo essermi preparata mi diressi verso lo specchio per sistemarmi meglio. Per un momento il volto scorticato d’un ragazzo si riflesse in esso.

    Le sue labbra sussurravano qualcosa che non riuscivo a decifrare.

    Soffocai un grido.

    Tremando, distolsi rapida lo sguardo.

    Il gatto con un balzo arrivò sul davanzale della finestra e con un altro più lieve si sistemò sul ramo dove lo avevo visto la sera prima.

    Scesi lentamente le scale facendo un profondo respiro prima di entrare in cucina. David doveva già essere andato al lavoro e Ludmilla non era nei paraggi, quindi in punta di piedi attraversai la stanza e aprii la porta. Dovevo uscire da quella casa il più in fretta possibile.

    Durante le  lezioni la mia concentrazione non fu delle migliori. Non prestai attenzione quasi a niente nemmeno alla campanella che  suonava.

    Ero completamente assente.

    «Cavolo!» esclamai quando mi scontrai violentemente contro un ragazzo.

    «Guarda dove vai!» strillò lui dileguandosi tra la folla.

    «Accidenti» sussurrai piegandomi a raccogliere l’ mp3 che nello scontro mi era caduto dallo zaino

    «É ridotto proprio male, mi dispiace».

    Alzai lo sguardo e

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