Arco iris de mi alma
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Rafael non aveva mai dimenticato quell'uomo, quell'americano che l'aveva salvato dalla strada. In qualche modo ne aveva fatto il suo modello e tale era rimasto anche quando, adottato da una famiglia italiana, aveva abbandonato la miseria e gli stenti per vivere la vita di un ragazzo europeo benestante. Poi anche questo era svanito, mentre l'Italia sprofondava in una crisi senza fine. Ma attraverso tutte le traversie Rafael aveva davanti a sé un destino, ed era legato a quell'uomo, quell'americano il cui ricordo non era mai svanito del tutto. E che era legato a un mistero che andava aldilà di ogni immaginazione.
Alessandro Fambrini, nato a Seravezza (Lucca) nel 1960, lavora presso l'Università di Trento. Si occupa di letteratura tedesca di Ottocento e Novecento; in particolare dei rapporti tra avanguardia e tradizione nel fin de siècle come lente d'ingrandimento per una definizione e una migliore comprensione della modernità.Ha pubblicato lavori tra gli altri su Kurd Laßwitz ("Apoikis, ovvero I sogni della scienza sono un mondo senza scienziati", 1999), Egon Friedell ("Egon Friedell precursore dello Steampunk?", 2002), Franz Kafka ("Tentativi di evasione. Kafka e Houdini", 2003). Al fantastico e alla fantascienza ha dedicato e dedica un impegno non secondario come autore (racconti e romanzi su numerose pubblicazioni del settore, tra le quali "Urania" e "Robot") e come critico (numerosi i suoi articoli e saggi pubblicati su "Futuro Europa", "Robot", "Nova sf*" e "Anarres", che ha fondato insieme a Salvatore Proietti nel 2012).
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Anteprima del libro
Arco iris de mi alma - Alessandro Fambrini
a cura di World SF Italia
Arco iris de mi alma
di Alessandro Fambrini
ISBN versione ePub: 9788867753031
© 2008 Alessandro Fambrini
Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl
Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano
Versione: 1.0 aprile 2014
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
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Indice
Colophon
Alessandro Fambrini
Arco iris de mi alma
Introduzione dell'autore
Dedica
I – ROBERTO
II – ABRAM
EPILOGO – RAFAEL
Delos Digital e il DRM
In questa collana
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Alessandro Fambrini
Alessandro Fambrini, nato a Seravezza (Lucca) nel 1960, lavora presso l’Università di Trento. Si occupa di letteratura tedesca di Ottocento e Novecento; in particolare dei rapporti tra avanguardia e tradizione nel fin de siècle come lente d’ingrandimento per una definizione e una migliore comprensione della modernità.Ha pubblicato lavori tra gli altri su Kurd Laßwitz (Apoikis, ovvero I sogni della scienza sono un mondo senza scienziati, 1999), Egon Friedell (Egon Friedell precursore dello Steampunk?, 2002), Franz Kafka (Tentativi di evasione. Kafka e Houdini, 2003). Al fantastico e alla fantascienza ha dedicato e dedica un impegno non secondario come autore (racconti e romanzi su numerose pubblicazioni del settore, tra le quali Urania e Robot) e come critico (numerosi i suoi articoli e saggi pubblicati su Futuro Europa, Robot, Nova sf* e Anarres, che ha fondato insieme a Salvatore Proietti nel 2012).
Introduzione dell'autore
Nel 2007 ho trascorso quasi due mesi in Bolivia, a Cochabamba, una città adagiata su un altopiano verdeggiante, meraviglioso, circondato da altissime montagne. Sono stati giorni indimenticabili, che hanno segnato per sempre la mia vita e l’hanno arricchita di un figlio. Ogni mattina, alle prime luci dell’alba, mi svegliavo nel minuscolo appartamento che occupavo insieme alla mia famiglia, al settimo piano di un edificio del centro, e per un’ora, un’ora e mezza, sfruttavo la luce che spioveva dalla grande vetrata del salone per scrivere qualche riga di questo racconto, concepito e nato integralmente in quel luogo. Era un rituale, un appuntamento con cui inauguravo giornate di impegni e di scoperte, scaricando sulle parole scritte le ansie, le inquietudini e le speranze che si legavano a quell’esperienza così straordinariamente intensa.
La storia racconta di un’adozione, come quella che stavo vivendo allora, ed è in questo senso, oltreché uno sforzo di proiezione, anche un atto di amore, di fiducia e di inevitabile timore di fronte alle incognite del grande mondo, che sentivo incombere sulle mie fragili spalle. Ogni particolare dell’ambientazione boliviana è ricavato dalle mie osservazioni quotidiane nelle strade, nelle campagne, nelle botteghe che visitavamo e nelle istituzioni con cui ci trovavamo in contatto, e naturalmente reca tracce profonde delle mie angosce e delle mie gioie di allora, convertite con un atto di rovesciamento tipicamente letterario in sguardo che si sforza di farsi spassionato, algido, obbiettivo.
Il racconto è stato pubblicato su Futuro Europa numero 50 – l’ultimo di quella rivista gloriosa – ed è stato insignito del Premio Italia 2009 per la categoria racconto. La visione che racchiude – politica, culturale, poetica – oggi (2014) mostra i segni del tempo, ma non quanto mi sarei augurato, ahimè.
La paz es mi aire
El arco iris de mi alma
La esperanza de mi deshilachado corazon.
Diana
I – ROBERTO
Il capitalismo è stato un fenomeno naturale con il quale un nuovo sonno profondo ha travolto l’Europa e riattivato poteri mitici.
Walter Benjamin
Non ricordo molto di lui: appena un’impressione del suo viso, della sua alta statura, della sua pelle chiara. Ho visto le sue fotografie, anni dopo, il suo volto magro segnato dalle rughe e crepato dal sole, gli occhi grigi e i capelli corti color del fieno. Non le collego a lui, tuttavia, quelle immagini: all’uomo che veniva a portarci le caramelle e ad accarezzarci la testa, invitandoci a strani giochi con tubi di gomma, strumenti lampeggianti e siringhe che non facevano male. A lui che quell’ultimo giorno, prima di sparire per sempre, mi disse: – Ricordati che ti chiami Rafael. È un nome importante, il nome di un arcangelo. Ricordatelo sempre.
Questo, tra le molte cose di quei tempi, non l’ho dimenticato. Come non ho dimenticato che pioveva, mentre mi parlava e mi stringeva a sé, come solo in Bolivia può piovere nella stagione di marzo, l’acqua che ruscellava sul tetto di lamiera del dormitorio e si riversava sull’asfalto crepato, rimbalzando fino ai nostri piedi, e che quando se ne andò e il cancello di ferro si richiuse alle sue spalle, sulle cime del Cerro Tunari, in distanza, splendeva l’arcobaleno.
Era anche il suo nome e quindi quelle sue parole non erano del tutto disinteressate: Raphael C. Grossman, si chiamava, ed era uno scienziato. Non so come fece a ottenere la custodia di Abram, mio fratello. Per quanto la Bolivia fosse un paese poverissimo in cui per pochi dollari potevi comprare qualsiasi cosa, qualsiasi servizio, qualsiasi persona, i bambini godevano tuttavia di uno statuto speciale. Almeno quelli piccoli e piccolissimi (e piccolo restavi fino a cinque-sei anni – la mia età di allora; dopo iniziavi a sniffare la colla o, se ti andava bene, a lustrare le scarpe per strada, a mangiare quello che trovavi ai lati del marciapiede, vicino alle fogne, o quello che i pochi benestanti o rari turisti di passaggio – quegli stessi che avresti cercato di derubare alla prima occasione – ti lasciavano dal fondo del loro piatto). I bambini erano angeli, emanazioni del cielo, proiezioni di carne e sangue dell’amore di Cristo, di quel Cristo che ti guardava dall’alto della collina di San Pedro, sopra Cochabamba, severo, gigantesco e bianco, con le braccia spalancate e le orbite vuote.
Abram aveva appena tre anni ed era stato affidato al nostro istituto solo in quanto io e Roberto, il mio fratello più grande, già ne eravamo ospiti. Di nostro padre (dei nostri padri) si era perduta ogni traccia e nostra madre veleggiava in una dipendenza alcolica che la rendeva inaffidabile e crudele, e le terapie di riabilitazione a base di preghiere e Madonne condotte con tutte le buone intenzioni dalle suore e dai preti non sortivano altro effetto che quello di riempirle il cervello di litanie senza senso e il corpo di vino da quattro soldi rubato alla dispensa delle sacrestie, destinato ad andare in corto circuito nel corpo con la chicha, il micidiale liquore di mais fermentato che tutti producevano nelle baracche e che era facile procurarsi in cambio di pochi spiccioli o di qualche favore che non costava nulla e che si poteva andare a confessare alla prima occasione, sicuri dell’assoluzione.
Grossman prese Abram con sé e lo portò via, anche se ero io il suo favorito, lo capivo dai mille indizi delle cose che non vengono dette, ma che i bambini sanno captare: dai sorrisi che scoccava a