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Delfini, vessilli, cannonate: Autobiografia letteraria
Delfini, vessilli, cannonate: Autobiografia letteraria
Delfini, vessilli, cannonate: Autobiografia letteraria
E-book860 pagine11 ore

Delfini, vessilli, cannonate: Autobiografia letteraria

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Info su questo ebook

Cosa vuol dire essere adolescenti? Dove trovare gli amici? Come dobbiamo pensare agli antenati? Quante potrebbero essere le forme del coraggio? Perché non possiamo fare a meno di riflettere su Dio o sulla sua assenza? Cos’è l’esilio? In che modo interpretare la famiglia? Possiamo accettare la giustizia giuridica?

Sono domande universali che rappresentano tappe spirituali per diventare finalmente adulti o restare eternamente bambini.

In Delfini, vessilli, cannonate, titolo ricavato da un verso di Giorgos Seferis, Eraldo Affinati prova a rispondere, identificando, componendo e raccogliendo i tasselli più significativi della sua vita. Costruisce così un libro che è al tempo stesso una mappa interiore scandita da ventuno sezioni tematiche, una meditazione sull’esistenza umana, una riflessione sul senso attribuibile oggi alla lettura e alla scrittura. Grandi romanzieri, poeti classici e contemporanei popolano le sue pagine, alla maniera di compagni segreti e stelle polari, portando con sé nuovi interrogativi: dove ci trascinano le guerre? Come possiamo pensare l’Italia? Cos’è la vera libertà? Perché le macerie ci parlano? Chi è la madre? A quale memoria dobbiamo credere? Fino a che punto siamo disposti ad abbracciare nostro padre?

La letteratura diventa carne viva e bussola insostituibile, ancorché fracassata dalla nuova dimensione digitale, per orientarci nel vuoto. Grazie alle opere, tracce luminose da seguire, possiamo ancora tentare di rispondere alle richieste estreme: quelle della responsabilità da esercitare nella Storia, della rivoluzione a cui non dovremmo mai rinunciare, della sapienza da ricercare comunque, della scuola da inventare sempre, della senilità da vivere, del tempo da affrontare.

LinguaItaliano
Data di uscita29 ago 2023
ISBN9788830592841
Delfini, vessilli, cannonate: Autobiografia letteraria

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    Anteprima del libro

    Delfini, vessilli, cannonate - Eraldo Affinati

    Avventure da un mondo all’altro

    A volte ho immaginato lo scrittore come un uomo impegnato ad avanzare nelle tenebre, ma col tempo mi sono convinto che c’è una luce nel suo cuore in grado di orientarlo verso direzioni a lui stesso ignote.

    Arriva il momento in cui tutto si ricompone e ciò che sembrava dettato dal caso acquista un senso, se non un valore. La cultura moderna, diciamo novecentesca, ha gettato discredito sulla pretesa di spiegare i rapporti, illustrare i nessi, stilare bilanci, fornire risposte. I risultati della sofisticata dissuasione sono sotto i nostri occhi: la stessa esperienza della realtà, dispersa e resa innocua dalla Rete, sembra diventata fungibile e strumentale, come se tutto fosse uguale a tutto e le stesse differenze sociali e culturali, pure innegabili, non producessero più gerarchie credibili, né luoghi spirituali dove ritrovarsi.

    Questo libro, nella sua simbolica campionatura o tentata decifrazione di alcuni stemmi araldici, si potrebbe configurare come una risposta operativa a tale sensazione di smarrimento, peraltro derivata dalla sottile esaltazione, ovviamente ingannevole, dovuta all’idea di poter ormai controllare, se non conoscere, l’intero scibile umano. Chi non ha mai sentito, del resto, nei nostri anni tumultuosi e variopinti contraddistinti dall’euforia digitale, come se bastasse un clic sulla tastiera per capire tutto, incluse felicità e malattie, il desiderio di mettere un punto fermo, sia pure provvisorio, alla frenesia imperante, col suo stanco corteo di chiacchiere mediatiche? Torniamo dunque al disbrigo delle vecchie pratiche che, sbagliando, avevamo creduto obsolete.

    Verificare le fonti.

    Rinnovare l’esperienza.

    Farsi trovare pronti.

    Forza e onore, come sussurrava il condottiero romano ai legionari disposti a rompersi l’osso del collo per lui.

    Nuovamente le opere, antiche, moderne e contemporanee, nelle quali abbiamo trovato e lasciato un po’ di noi stessi, ci chiamano, in una fantastica assise, al fatale rendiconto.

    È chiaro che le pratiche resteranno sempre incompiute e sospese, forse anche velleitarie: sarebbe illusorio pensare il contrario. Non riusciremo mai a fermare il flusso; per fortuna, aggiungo. Potremo soltanto assecondarlo, tirandoci infine da parte, senza essere in grado di decidere quando. Tuttavia ciò non dovrebbe impedirci di scommettere ostinatamente sugli stili e sulle passioni, ferite della Storia e non eventi casuali, pure a costo di recuperarne i cocci e identificarli nel magma cibernetico. Questo gesto romantico, senza tacere la consapevole vanità che si trascina dietro, potrebbe servire a smascherare gli eleganti e ipocriti alibi interiori coi quali ci capita di giustificare la nostra accidia, o diserzione, o tracotanza, trasformandosi piuttosto in una reazione vitale tesa a ricomporre lo scenario che sentiamo degradato, sfigurato e compromesso. Altrimenti perché dovremmo continuare a leggere un libro, vedere un film, osservare un quadro, ascoltare un brano musicale, conoscere una persona nuova, senza misurare lo scarto nei confronti della tradizione che qualsiasi energia creativa sempre rappresenta?

    Perché dovremmo continuare a nutrire un’inesauribile speranza e una sconfinata fiducia, nonostante tutto, negli esseri umani?

    C’è stata un’epoca – quand’ero appena uscito dall’infanzia ma non ancora del tutto – in cui appuntavo in fondo ai libri letti qualche nota con il lapis: impressioni, riassunti, giudizi, intemperanze. Credo che quelle brevi schede siano le progenitrici di molte recensioni da me composte in seguito, comprese alcune di quelle raccolte in questo volume. Recensione, lo so, è parola impropria, inadeguata. Dovrei usarne un’altra ma rischierei di infilarmi in un vicolo cieco. Si tratta di un ritmo vitale. Un battito del cuore, sarei tentato di precisare. Con tutte le inevitabili aritmie. Ho deciso di dividerle in sezioni tematiche, tenute insieme dalle loro risonanze. A ogni romanzo, saggio o raccolta di versi corrisponde un testo per sentenziare l’emozione provata, l’idea scaturita, insieme a vari tagli più lunghi. In coda ho inserito alcune scie di prosa poetica o poesia prosastica. Vorrei che i miei studenti lo sapessero: dietro la passione si cela sempre un rovo di spine, proprio come in tutte le isole sconosciute e disabitate di cui vagheggiava Rodolfo Wilcock, «che da lontano sembrano così verdi / per quanto, immagino, saranno piene di vipere». Eppure, non dimentichiamolo, negli intrichi del fogliame si nascondono anche le gioie: profonde e segrete, nobili e prestigiose, meravigliosamente inservibili. Nessuno ci spiegherà mai come fare a scoprirle. Dovremo essere noi a provarci. A costo di graffiarci la pelle.

    Quanto tempo è passato! Era un altro mondo: quello, tanto per capirci, dei gettoni telefonici color rame, con il solco in mezzo, poco prima dello spettacolare salto che tutti abbiamo compiuto nel vuoto informatico. All’inizio, siccome lavoravo dalla mattina alla sera nell’ufficio stampa di un’azienda automobilistica, chiedevo a mio padre, allora già in pensione, di consegnare fisicamente gli articoli nelle segreterie. Il vecchio Fortunato ci andava a piedi, oppure prendeva l’autobus, per arrivare alle sedi dei giornali, situate in centro; credo non gli dispiacesse affatto. Chi leggerà le pagine che seguono, se lo vorrà, potrà attribuire valore poetico, se non addirittura profetico, alle preziose commissioni compiute dal genitore per il figlio, anche considerando il fatto che uno dei primi quotidiani sui quali ho cominciato a collaborare era proprio Paese Sera, la cui redazione si trovava all’interno degli stessi locali dove mio padre, da piccolo, e in mancanza d’altro giaciglio, aveva trascorso diverse notti addormentato, in attesa di svegliarsi all’alba per andare a vendere i fogli appena usciti dalla tipografia.

    Poi venne la stagione dei fax e quella decisiva e trionfante delle mail che, oltre a rendere obsolete le macchine da scrivere, interruppe le sue commissioni. Ma lui, nel frattempo, era già morto.

    Più o meno in quegli stessi anni lontani, ben prima dei viaggi in Europa, Africa, Russia, Asia e America, trascorrevo molte ore fra piazza Vittorio e il Colle Oppio scrutinando gli scrittori che amavo. Mi bastava sillabare qualche titolo per sfogliare i quaderni della gloria: il ritorno del soldato, gli uccisori, pian della tortilla, che ne pensi dell’America, paesano?, la mattinata di un possidente, storia della giornata di ieri, il diavolo, padrone e garzone, notti bianche, casa d’altri, prima che il gallo canti, vecchio blister, superino. Li scrivo senza corsivo, in minuscolo, per lasciarli lì dove ancora oggi sono, nei depositi dei fondali interiori, fumanti di aromi. Ernest Hemingway era il cielo obliquo delle Casse di Risparmio Postali a piazza Dante; Lev Tolstoj il crocicchio sempre intasato fra via Napoleone III e via Umberto Rattazzi; Silvio D’Arzo il giardinetto sotto casa; Beppe Fenoglio la scuola del Nomentano dove lui era stato realmente acquartierato dopo l’8 settembre nella sua primavera di bellezza.

    E io, chi ero?

    Avrei voluto diventare Andrej, idealista kantiano, gravemente colpito sotto il cielo di Austerlitz, ma sapevo di essere Pierre, con le mani sporche di fango, nella Mosca incendiata. M’immedesimavo anche in Nicola, lo ammetto, che aveva salvato la principessina Maria soffocando sul nascere la rivolta contadina scoppiata nella sua tenuta; era stato facile per lui, innamorato di quella ragazza sin dal primo sguardo, sventare la boria dei caporioni.

    Tenevo il Bren di Milton idealmente sotto il lettuccio, sognando Fulvia, all’ultimo piano del fatiscente palazzo umbertino in cui ho trascorso molta parte della mia solitaria adolescenza.

    Pensavo ai capitani di Joseph Conrad, ai ragazzini di Rudyard Kipling, alle locande dove Renzo cerca riparo, al sepolcro foscoliano, alla ringhiera del giovane recanatese invischiato nel suo niente, al cortiletto che vede la cena solitaria di Alfio sotto gli occhi dolci di Mena. Era un tumulto di flash grazie ai quali crescevo e, a modo mio, fra le macerie dell’antica civiltà, prosperavo. Robert Louis Stevenson batteva il tempo delle isole Marchesi in via dello Statuto. Stendhal segnava il volo della rondinella oltre il campanile di Santa Maria Maggiore. Il principe Myškin chiedeva l’elemosina sotto l’arco di Gallieno.

    Mi domandavo: cosa ne farò dei romanzi e delle poesie che sto leggendo? A cosa mi serviranno? Erano intuizioni sfolgoranti, impossibili da mettere a frutto. Emozioni tutte mie destinate a perdersi appena formate. Modi di essere intravisti in una frazione di secondo nel pertugio di un condominio e subito svaniti, fra gli escrementi secchi lasciati dai piccioni, molte cicche di sigaretta, qualche gomma americana incollata al muro. In quelle scritture scoprivo supreme eleganze, sublimi negligenze, bellezze indicibili. Amarezze, sconforti, bandiere bianche, solitudini, disperazioni. Stili del pensiero. Desideri infranti e ricomposti. Una linea di difesa scavata con le unghie lungo le impervie gallerie della vita.

    Lo sapevo già allora con sicurezza assoluta e lo ribadisco adesso: il patrimonio fantastico che nella mia ingenuità credevo di star riscattando, dal primo risparmio all’ultimo raccolto, sarebbe finito nel cestino, in mezzo agli scarabocchi, ai fiori di plastica, alla frutta marcia, alle batterie scariche, alle matite spuntate, alle medicine scadute, alle biro consumate, ai giocattoli rotti, agli orologi senza lancette. Pensi forse – dico ancora oggi a me stesso – che un giorno lontano qualcuno andrà a raccogliere queste cartacce con l’intenzione di decifrarle? Confessalo: ti piacerebbe se un gruppo di ragazzetti carichi a mille, maschietti svegli e intuitivi, fanciulle appassionate, decidesse di farlo, vero? Mi rispondo così: dammi retta, ammesso e non concesso, nella migliore delle ipotesi, se li contassimo, questi futuri improbabili amanuensi, avanguardie specializzate alla testa della truppa, fantastici pontieri fra una generazione e l’altra, si ridurrebbero a poche decine al massimo. E poi alla fine anche loro, fulgidi eroi delle patrie lettere, cadrebbero a terra stremati. Del resto i muriccioli lungo i quali giacciono accatastati nella polvere i preziosi volumi di Don Ferrante ora assomigliano a una specie di discarica, disdegnata perfino dagli avvoltoi. Ho visto coi miei occhi, in un sottopassaggio della metropolitana capitolina, vecchie copie di romanzi, alcuni appartenenti al canone aureo, dispersi nel ciarpame senza che nessuno si prendesse la briga di metterli in salvo e portarseli a casa. Restavano lì ammucchiati tra i rifiuti, invasi dalle formiche. Avrei voluto fermarmi, chiamare a voce alta uno dei tanti pischelli che passavano indifferenti per dirgli: aspetta, tieni, te li regalo col cuore rosso che batte forte, prenditi questo signore delle mosche, questo ritratto dell’artista da giovane, quest’armata a cavallo, questo processo, questo padri e figli, questo ulisse, questo grande cantiere, questa morte felice, questo sole e acciaio, questa fiesta, quest’uomo che dorme, questo quartiere, queste occasioni, questi occhiali d’oro, queste mie stagioni… non andar via senza averli fatti tuoi. Alla tua età io li rubavo e tu che potresti averli gratis nemmeno li tocchi?

    A me bastava l’attacco di uno fra i racconti del defunto Ivan Petrovič Belkin per andare in tilt. Tipo: «Eravamo di stanza nella piccola località di…». Era lui, Aleksandr Sergeevič Puškin, a guidare il formidabile drappello: sia benedetta l’anima sua. Appena iniziavo a leggere, come in sogno, ricominciava l’incanto: ecco, bisbigliavo in una specie di febbre, lo stretto di Bering che unisce la letteratura russa con quella americana.

    Se la gioventù non è questo, cos’altro dovrebbe o potrebbe essere?

    Un modo per affrontare il presente volume potrebbe essere intanto quello di scorrere l’indice: la colonna vertebrale della mia vita. O una sua semplice proiezione. Raffazzonata quanto basta per scompaginare qualsiasi pretesa di selezione: chiudiamola così, ben sapendo che resterà tutto aperto. Chi invece decidesse di leggere il testo per intero dall’inizio alla fine meriterebbe, lo confesso, la medaglia d’oro. Ma il sapere che una tale ricezione è per forza di cose minoritaria, paradossalmente, invece di abbattermi, accresce la mia fiducia, dilata gli spazi che mi sono concesso, spingendomi a liberarmi dalla schiavitù del risultato. Non importa quanti like riceverò. Anche uno solo, per assurdo, potrebbe essere sufficiente.

    Ecco qui raccolta, senza soluzione di continuità, un’emulsione lirica dei capitoli seguenti.

    L’adolescenza è il sole che a ogni generazione si leva dietro il promontorio.

    L’amicizia è lo stracciato stendardo sul fortino semidistrutto: restiamo uniti sino all’ultimo, perfino oltre il tradimento.

    Rotolano le ossa degli antenati nel vortice della Storia che ci riguarda.

    Vuoi sapere cos’è il coraggio, oltre il cognac? Lo scrigno dei Re Magi: i talenti dell’oro, l’umiltà dell’incenso, le tribolazioni della mirra.

    Sali sulla moto, a cavalcioni sul destriero, se vuoi riconoscere Dio.

    Solo lontano da te stesso, nell’esilio operoso di Erich Auerbach a Istanbul, sfiorerai con le mani le tue radici.

    La famiglia è un nido putrefatto: rondini, rondini, addio!

    Viviamo nella lucida follia della convenzione giuridica: in caso contrario, come ho sempre sostenuto, se ci incontrassimo io e te da soli, nudi e impuri, nella radura di un bosco, ci uccideremmo.

    Siamo sempre tutti alla vigilia di guerra. Lo sapeva Miguel de Unamuno: caro amico, non predicarmi la pace, scrisse convinto, perché significa sottomissione e menzogna.

    Se l’Italia, corpo della mia lingua, è, come è, lo sguardo attonito e sgomento di Pulcinella davanti alla sua tomba.

    Oppure vuoi ancora illuderti che la libertà sia il superamento dei limiti?

    Impara dagli occhi di tua madre distesa sul letto d’ospedale a contemplare la finitudine.

    Nelle rovine tornerà a risplendere la primavera, quando noi non ci saremo più.

    Oltre i ricordi inventati nell’energia dell’errore, dobbiamo apprendere la distinzione, come direbbe il teologo, fra realtà penultima e ultima.

    Nell’aldilà non ci daranno i voti, così come noi possiamo intenderli, altrimenti quale senso avrebbe avuto, prima della creazione o dell’alterazione termica, scegli tu, l’amor che move il sole e l’altre stelle?

    Andremo tutti in Paradiso.

    O resteremo larve.

    Il giudizio è un arnese obsoleto.

    È stato Pinocchio a farci comprendere quale dovrebbe essere il costo della crescita per diventare padre.

    Tu, Jan, continui a rispondere presente all’appello.

    È questa l’unica, vera, rivoluzione.

    Evadere dal verbalismo.

    Fare il bene con disperazione.

    Invecchiare senza difese.

    Fino al punto di diventare invisibili ai bambini.

    E così, nel mio piccolo, riunendo i tasselli degli articoli e di alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni, ma anche più in là nel tempo, sulle opere che mi hanno dato forza o semplicemente confortato, insieme a certi spezzoni in prosa e poesia dei diari di viaggio recuperati come navi di sughero dentro la bottiglia frantumata sulla riva, ho provato a costruire una scansione capace di legittimare i ragionamenti che da quei testi erano scaturiti.

    Ventuno nuclei tematici, avventure da un mondo all’altro, stazioni di sosta, piattaforme universali: modi per diventare adulti o restare bambini. Anche perché poi le cose che uno legge e scrive, così come le persone incontrate, le esperienze compiute o mancate, gli restano dentro: lo scolpiscono, lo modellano, lo definiscono. In certi casi lo smentiscono. È giusto. Nella certezza, questa sì, che la letteratura, in quanto respiro spirituale della specie cui apparteniamo, resta ancora oggi, nonostante la molteplicità delle sue forme in continua mutazione, una bussola insostituibile, sebbene fracassata, nelle nostre povere tasche scucite.

    La scienza smarrita

    Sta cambiando il nostro modo di leggere? Io direi di sì. Soprattutto se penso ai più giovani. Allora faccio un passo indietro e mi chiedo, in via preliminare, quale sia la spinta che orienta gli esseri umani verso i libri. I grandi linguisti ce l’hanno spiegato a sufficienza: senza la dimensione verbale ogni esperienza non avrebbe senso, sarebbe soltanto un grumo emotivo impossibile da sciogliere. Quando ci esprimiamo con le parole interpelliamo il passato, chiamando a raccolta chi ci precede. La tradizione letteraria non è un blocco granitico fisso e inamovibile, ma viene continuamente sollecitata e modificata. Scrivere anche un solo verso significa far scricchiolare l’intero asse lungo il quale camminiamo; leggere produce la medesima conseguenza, così come avviene nell’esecuzione di un brano musicale. Le nostre coscienze non sono monadi chiuse: al contrario, s’intrecciano in un movimento collettivo. L’istruzione pubblica rappresenta, in tale prospettiva, una gigantesca ruota grazie alla quale la civiltà avanza da una generazione all’altra. I passaggi di testimone non sono mai indolori; anzi quasi sempre producono una ferita, e si lasciano dietro punti di sutura spesso ben visibili: Luigi Pirandello, nel suo romanzo I vecchi e i giovani, illustrò ad esempio la transizione, per noi italiani assai rilevante, fra gli ideali eroici risorgimentali e quelli meno febbrili ma più consapevoli dello Stato unitario.

    Ciascun adolescente, nel momento cruciale della formazione culturale, è chiamato a misurarsi con l’intera storia dell’umanità. Mi ha sempre affascinato questo evento: come se ogni volta i quindicenni scoprissero uno scenario grandioso e remoto di cui tutti siamo parte ma che loro devono esplorare come un territorio vergine. Per farlo hanno bisogno di guide affettuose e credibili, persone di cui fidarsi, capaci di precederli nelle future visioni: tesori e segreti, saggezze e lungimiranze, ma anche orrori e nequizie, tragici sbagli e crudeli nefandezze. Cominciare a leggere significa cominciare a pensare, entrando così, come affermò Albert Camus, in una zona di rischio. Ci siamo forse dimenticati il tumulto spirituale che, ben prima della conradiana linea d’ombra, dovemmo giocoforza affrontare quando, buttate giù come birilli le certezze dei maestri, non sapevamo con che cosa sostituirle? Divorati dalla passione dell’assoluto, ci sentivamo inadeguati, smarriti e persi: la condizione tipica della giovinezza, sempre al limite della caricatura. Tutti gli insegnanti dovrebbero riconoscere in questa fragilità il terreno più fertile dove intervenire, nel tentativo di rinnovare l’esperienza dei giovani impegnati a ricostruire i fondali che magari loro stessi hanno contribuito a distruggere.

    Paradossalmente, la rivoluzione digitale sembra aver complicato il compito formativo dell’educatore, ma forse si tratta di una falsa impressione. Certo, di fronte al grande mare della Rete occorre trovare bussole efficienti, capaci di dettare una rotta dinanzi a un orizzonte dove tutto sembra uguale. Urge, come diciamo spesso, ripristinare le gerarchie di valore spiegando ai ragazzi cosa è importante e cosa non lo è. Per farlo dobbiamo avere in testa un sistema di valori. Non esistono scorciatoie conoscitive. Oggi che le fonti sono diventate accessibili in tempo reale, bisogna incrementare, non diminuire o peggio ancora omettere, la loro verifica. Applicazione e rigore un tempo erano legati alla ricerca del testo originario. Nel momento in cui quest’ultimo si rende disponibile a chiunque, c’è la concreta possibilità che non venga neppure preso in considerazione. Ricordo, circa trent’anni fa, all’alba del nuovo mondo informatico, un mio studente che, contento e soddisfatto, scaricò sul banco una voluminosa risma di carta: articoli e studi su Giuseppe Ungaretti stampati da Internet. Gli chiesi se avesse letto tutto quel materiale e lui, con il meraviglioso stupore della sua età, confessò di no; ma si affrettò ad aggiungere che lo avrebbe fatto presto, di sicuro. Intanto però mi stava consegnando il frutto della ricerca, consapevole di aver compiuto il primo passo. Ovviamente sorridemmo insieme ai compagni, ma oggi molti di noi rischiano di trovarsi nella medesima condizione di quello scolaro.

    Potenzialmente siamo diventati tutti artisti. Ognuno potrebbe leggere e farsi leggere con una rapidità e una capacità di diffusione un tempo inconcepibili. La fine dell’aura dell’oggetto unico, preconizzata da Walter Benjamin nel 1936, ha prodotto una mutazione antropologica del lettore, verificabile specialmente nelle aule scolastiche. I ragazzi saltano da un contesto all’altro con una capacità associativa sorprendente. Se facciamo riferimento ai loro coetanei del passato, con ogni probabilità i giovani di oggi leggono di più, sebbene in maniera estemporanea: i social glielo impongono. Potremmo precisare: prima ancora che scrivere, comunicano. Ciò in effetti sembra innegabile, tuttavia non è sempre vero che non approfondiscano. Lo fanno in forme diverse, in luoghi mentali nuovi, affidandosi a strutture intellettuali inedite. L’idea stessa di stile personale, mentre li vedo impegnati in certe loro azioni estetiche, mi sembra obsoleta. Adesso ipotizzo: ciò che io, seguendo un immaginario novecentesco, definirei «frammentazione» potrebbe essere un’altra maniera di raccogliere ed elaborare nozioni. La domanda che molti si pongono è: cosa ne faremo del canone? E soprattutto: i filtri selettivi che hanno determinato quei criteri di valore, costruiti con fatica e pazienza dai nostri padri e dalle nostre madri, saranno ancora funzionali fra qualche decennio?

    Per restare in ambito letterario: la questione non è soltanto pretendere che gli adolescenti leggano gli autori che per noi restano fondamentali, bensì provare a conoscere la vegetazione fantastica nella quale i classici sono e saranno percepiti. Un tempo dicevi Stendhal e ti veniva in mente Napoleone, Austerlitz, la Certosa di Parma, Fabrizio del Dongo e il ritmo di battuta da codice civile della scrittura criptodiaristica del grande autore francese. Oppure pensavi a Hemingway ed era come tornare nel border fra Canada e Stati Uniti insieme a Nick, fresco reduce dal fronte della Prima guerra mondiale. Scrivevi Čechov e non potevi evitare di farti venire in mente i suoi giardini di ciliegi quasi smarriti nella bassura dove uomini e donne alla perpetua ricerca di se stessi consumavano la vita. Sillabavi Tolstoj ed ecco di fronte a te, ancora una volta, due modi di vivere: quello di Andrej e quello di Pierre. Il faut choisir: non si poteva essere, allo stesso tempo, questo e quello. Era un’epoca in cui un avvocato aveva letto Balzac e se lo ricordava. Un architetto doveva per forza conoscere Manzoni e spesso gli capitava di citarlo con gli amici. Un medico che non avesse divorato Dostoevskij pareva abbastanza raro. Non dico tutte le signorine di buona famiglia, ma almeno una discreta parte conservavano nelle loro biblioteche una copia di Cime tempestose. E non stiamo parlando di addetti ai lavori, critici o docenti. Ci riferiamo alla media borghesia.

    Tutto ciò oggi sembra un patrimonio perduto. L’orizzonte entro il quale collocare questi grandi scrittori pare offuscato. I programmi di letteratura italiana che, per obbligo ministeriale, vengono svolti nei trienni delle scuole medie superiori rappresentano un esempio eclatante: nel migliore dei casi, eccetto Dante e Leopardi, che ancora sono letti e interpretati, si riducono alla ripetizione mnemonica di qualche scheda biografica da parte degli studenti. Ho fatto per diverse volte il commissario esterno agli esami di Stato nei licei e negli istituti tecnici del Belpaese e devo ammettere che ben pochi degli studenti giunti davanti alla commissione avevano incontrato i vari autori direttamente sui testi. Nella quasi totalità dei casi i loro docenti si erano limitati a sottoporre alla classe riassunti tematici e schemi concettuali.

    La letteratura assomiglia oggi a una scienza smarrita, conservata soltanto, in vitro, nelle aule universitarie, dove trionfa la parafrasi critica, ancora troppo teorica sebbene, per fortuna, lontana dalle forme asettiche degli anni Settanta. Tuttavia il nobile repertorio, chiamiamolo così, non pare più essere eredità comune (se mai lo è stato): persino gli studenti delle facoltà umanistiche non sempre dimostrano di possedere i cosiddetti fondamentali; ad esempio, se non hai mai fatto tue le opere dei quattro grandi scrittori italiani del Ventesimo secolo, vale a dire Svevo, Pirandello, Gadda e Fenoglio, come puoi iscriverti a Lettere moderne?

    Sto semplificando, è chiaro. Ma il ragionamento può essere utile a capire la situazione in cui siamo immersi. Grazie alle innovazioni tecnologiche, un giovane di talento oggi dispone, ne sono convinto, di una straordinaria possibilità di conoscenza. Entro breve la Rete ospiterà tutte le biblioteche del pianeta. Già ora basta un clic per accedere ai testi della tradizione, con tanto di corredi interpretativi. Chi ama leggere non è mai stato più avvantaggiato di quanto lo sia adesso. Eppure, osservando la grande maggioranza dei ragazzi, è difficile sfuggire alla sensazione di un paesaggio culturale sfigurato in via di progressiva ricostruzione, secondo criteri che ancora fatichiamo a identificare. La percezione della frase scritta sembra toccare corde cognitive un tempo inutilizzate. Una testa nuova è già all’opera per riannodare i fili con il passato: lo vediamo da come Internet accumula il sapere. La sua memoria è quella dell’elefante: non butta via niente ma si rifiuta di distinguere e selezionare. I vecchi armamentari esegetici, in mezzo alle più recenti acquisizioni, sembrano rovine archeologiche, fabbricati abbandonati, che tuttavia prima o poi saranno di nuovo scoperti, forse dallo stesso lettore digitale che in questo momento pare averli completamente dimenticati.

    1

    ADOLESCENZA

    «Sembrava un bambino torvo e paziente, forse indurito dall’abitudine alle vessazioni; sopportava le percosse di Hindley senza battere ciglio o versare una lacrima e i miei pizzicotti gli facevano solo trattenere il respiro e spalancare gli occhi come se si fosse fatto male da solo per sbaglio e non fosse colpa di nessuno.»

    Emily Jane Brontë, Cime tempestose

    Roma. Vivere e morire all’Esquilino

    È quando stai sulla prua e ti prendi il vento in faccia

    motocicletta sponda sull’abisso nell’azzurro

    che brucia come una vecchia sigaretta senza filtro

    Alfa color verde smeraldo

    sì proprio così

    Nazionali esportazione

    col veliero disegnato sul pacchetto

    appoggiata sul bordo del tavolino

    ricoperto con la tela cerata

    le fumai sul terrazzo del condominio

    una volta sola poi mai più

    è quando ridi sguaiato e mezzo secondo dopo

    piangi senza ritegno

    ti basta uno stagno

    per sguazzare fra le rane o fare il morto a galla

    è quando incroci la spada davanti allo specchio

    in canottiera di cotone bianco

    a righe sottili

    sotto gli occhi di tuo padre

    sdraiato in poltrona a vedere la televisione.

    È quando costruisci il passato col futuro

    sbagliando i conti

    perdendo ogni scommessa.

    L’abbiamo avuta tutti questa carta regalo

    coi fiocchi e le margherite

    una coppa i nastrini e le stelle gialle

    mi stai a sentire?

    È quando uscivi all’aperto indossando pantaloni

    color carta da zucchero e la camicia leggera

    di terital

    col mondo spalancato davanti a te

    e supponevi

    in quelle notti calde

    la luna impegnata a fare manovalanza

    da sola priva di supporto

    davvero mi vuoi far credere che non ti ricordi?

    Era quella solitudine perfetta

    cinematografica

    il regno delle ordalie

    da cui non usciva mai niente

    vivere e morire all’Esquilino

    dopo essere cresciuto

    sul più grande sepolcreto della preistoria

    lo percorrevi in motorino

    Cimatti 50 propulsore della Morini ruote artigliate

    nello sterminio del desiderio

    che divorava se stesso

    con la medesima improntitudine

    della macchina senza conducente

    destinata a sfracellarsi contro il muricciolo

    della stanza accanto.

    Ma era anche

    il pulviscolo alle tre del pomeriggio

    nei giorni d’estate

    sotto al finestrone

    della potenza meridiana

    nel momento in cui

    sentivi tutta la forza

    insieme alla cialtroneria

    di quello che avresti potuto realizzare

    un gioco scintillante di boomerang

    lanciati verso il futuro

    astri d’emozioni indicibili

    nella convinzione cocciuta superba velleitaria

    che altri ragazzi e ragazze come te

    ti avrebbero prima o poi

    generazione dopo generazione

    nella pazienza e nella fatalità

    del tempo incommensurabile

    restituito

    con gli interessi triplicati

    arrivavi addirittura a pensare

    per dire fin dove potevi spingerti

    a quali assurdità intendo

    immerso nel delirio febbrile

    degli scatti ciechi

    da un cantone all’altro

    del cortile sotto casa.

    È finita questa mattanza di blue jeans

    e camicette a fiori

    sbottonate apposta

    per mostrare gli addominali

    in un futuro di vertigine li avresti ritrovati

    scolpiti nel tuo scolaro nigeriano

    che tirandosi su la maglietta

    davanti a tutti avrebbe chiesto:

    c’è qualcuno che vuole giocare a dama?

    e giacche nere attillate di velluto a coste

    capelli ricci arruffati dall’alba al tramonto

    con gli angeli protettori

    chiamati a fare gli straordinari

    nei cantieri delle grandi manovre

    dove si possono mettere

    i piedi nel posto sbagliato

    in un giorno qualsiasi del calendario

    fra Natale e Pasqua

    precipitando come fagotti dentro la cava di calcestruzzo.

    È finita o non finirà mai

    questa stagione di spese pazze

    assegni a vuoto

    cambiali non pagate

    liste minuziose

    propositi incongrui

    pietre sepolte come tesori

    volti feroci nei boschi

    patti siglati nella cecità della scelta

    avanzi d’inquietudine lasciati a marcire

    così come se niente fosse

    squadroni di cavalieri in corsa verso l’ignoto?

    Io credo penso spero

    voglio immaginare

    di rivederla ogni giorno

    quest’età dell’oro

    cane da caccia della natura sfolgorante

    sorpresa a guerreggiare

    immemore sotto ai bastioni dell’eternità

    che arde come un filo di paglia

    crepitante nel sorriso di Jabar Hussain

    quindicenne pakistano di creta lavorata a mano

    nella smorfia di Sandra Obulo

    sedicenne delle casupole frantumate nella brousse

    e ristagna nel silenzio di Ibrahim mentre compone

    i tasselli delle parole colorate di plastica sparse sul banco.

    O è me stesso che ritrovo in loro

    nel passaggio di testimone

    della mia gara preferita

    cinquant’anni fa

    quasi una vita

    the killer event

    i quattrocento metri

    il tiro da un colpo solo

    ai vostri posti prooonti via!

    scandiva la voce il giudice nel microfono

    dilatando la vocale interna prima dello scatto

    noi inginocchiati sui blocchi

    allo stadio delle terme di Caracalla

    che estese la cittadinanza romana

    a tutti gli abitanti dell’Impero

    sulla pista in terra battuta sospesa senza avversari

    le impronte di chi mi precedeva

    ancora davanti a me

    nel segno dei tacchetti più lunghi sotto le scarpe

    acquistate col bonus del CUS Roma

    i tabelloni spenti e i giudici dileguati

    inclinato verso la curva delle ombre

    forza Eraldo!

    (fu una ragazza magra pallida con gli occhi grandi e le trecce

    lunghe a gridarlo

    per incitarmi a dare tutto ciò che mi restava e fare il tempo

    durante l’ultimo rettilineo)

    (una che non conoscevo: e mai più avrei visto)

    nella sapienza delle cose nascoste

    fin dalla creazione del mondo

    come scrisse Matteo?

    Per rispondere ci vorrà molto tempo.

    Fra i dodici e i diciannove anni

    «Stupefatto del mondo mi giunse un’età / che tiravo dei pugni nell’aria e piangevo da solo»: due versi come questi di Antenati, una poesia compresa in Lavorare stanca (1936) di Cesare Pavese, aprono uno squarcio lancinante sull’adolescenza perché si trascinano dietro il vuoto, la solitudine, il tempo morto, le inquietudini e lo sperpero dei tentativi falliti, la caterva di errori, gli entusiasmi, i veri e falsi rigori che continuano a contraddistinguere un periodo dell’esistenza affascinante ma irto di ostacoli.

    Avere fra i dodici e i diciannove anni, restando in equilibrio a cavalcioni sul cannone come fa Kim, il protagonista dell’omonimo romanzo (1901) di Joseph Rudyard Kipling; sognare i viaggi e le avventure dei ragazzi più grandi magari solo di poco rispetto a noi, alla maniera del diarista che firma Il grande Meaulnes (1913) di Alain Fournier; correre verso il mare dopo essere evasi dal riformatorio in stile Antoine Doinel, nella scena finale di I quattrocento colpi (1959), il memorabile film d’esordio di François Truffaut: tutto questo significa essere adolescenti.

    C’è un misto di forza e fragilità, fierezza e introversione, arroganza e timidezza, nel fanciullo non più bambino e non ancora adulto – anche se delimitare con steccati cronologici precisi questa regione anagrafica e spirituale sarebbe, a detta degli specialisti, un semplice azzardo. Non solo oggi che in Africa i ragazzini sono già padri di famiglia e nelle metropoli occidentali possono ancora giocare coi soldatini. È sempre stato così.

    Ricordiamo come Thomas Hardy ci presenta Tess dei d’Uberville nel grande romanzo del 1891: «Nel suo aspetto apparivano ancora, appena abbozzate, certe fasi della sua fanciullezza. Quel giorno, mentre seguiva il corteo con le compagne, malgrado la sua prorompente e stupenda femminilità, si potevano ancora intravedere, di tanto in tanto, i dodici anni nelle guance, o i nove anni che le balenavano nello sguardo o perfino i cinque anni, che si rivelavano, a tratti, nelle curve della bocca».

    Sembra quasi di risentire, in una musica lontana che torna improvvisa alla memoria, il dettato con il quale Giacomo Leopardi, più di sessant’anni prima, aveva rievocato con tocchi meravigliosi l’inconsapevolezza di Silvia («Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi; / non ti molceva il core / la dolce lode or delle negre chiome, / or degli sguardi innamorati e schivi; / né teco le compagne ai dì festivi / ragionavan d’amore»); e l’altrettanta felice strozzata ingenuità di Nerina («Ma rapida passasti; e come un sogno / fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte / la gioia ti splendea, splendea negli occhi / quel confidente immaginar, quel lume / di gioventù, quando spegneali il fato, / e giacevi»).

    Basta guardare il celebre dipinto di Tanzio da Varallo su Davide e Golia (1625) per capirlo: l’eroe che impugna vittorioso la testa del gigante filisteo ha il volto angelico del fanciullo e il braccio muscoloso dell’uomo fatto. Una compresenza di attributi infantili e virili che lascia intendere il tumulto tempestoso presente nell’individuo in formazione. A chi volesse scrutare, da un antico strapiombo della Storia, il profilo mutevole di questa stagione della vita – ultima fase di quella che in psicologia viene definita l’età evolutiva, un tempo negata dai riti di iniziazione che fissavano con arbitrio assoluto il termine dell’infanzia maschile – gioverebbe tornare nel polveroso fondovalle biblico dove il figlio di Iesse, futuro secondo re d’Israele, manovra la fionda contro un nemico che pareva imbattibile.

    La sua imprevedibile astuzia ci aiuta a comprendere l’intraprendenza tipica di quello che sempre Leopardi, in Il sabato del villaggio, definì il «garzoncello scherzoso», così prefigurando la sua esistenza fortunatamente smemorata, in quanto immersa nel presente destinato a svanire: «Cotesta età fiorita, / è come un giorno d’allegrezza pieno, / giorno chiaro, sereno / che precorre alla festa di tua vita. / Godi, fanciullo mio; stato soave, / stagion lieta è codesta. / Altro dirti non vo’; ma la tua festa / ch’anco tardi a venir non ti sia grave».

    Ma forse nessuno come Giovanni – il più giovane degli apostoli, colui che secondo la tradizione «Gesù amava», lucido e sfrenato, curioso e riflessivo – ha siglato con altrettanta potenza lirica l’essenza di questa fase critica, in alcuni momenti cruciali che lo riguardano: nella corsa verso il sepolcro (20,3-8) e sul lago di Galilea (21,7). In entrambi i casi l’evangelista mostra l’impeto commovente caratteristico della sua età: più rapido degli altri, arriva subito davanti alla tomba ma, giunto sulla soglia, si ferma, fra il rispettoso e il timoroso, lasciando entrare il vecchio pescatore. Qualche giorno dopo, sulla barca dei discepoli delusi e amareggiati, sarà il primo a riconoscere il Risorto. Soltanto dopo il suo esplosivo grido d’avvistamento, Pietro, d’istinto, senza ragionare, si getterà in mare verso il Maestro.

    Tali episodi indicano con evidenza plastica la tensione irrisolta dell’adolescenza, quando il desiderio pulsa come un cuore affannato anticipando gli eventi. I ritmi sono scompaginati. Gli argini travolti. Le certezze, specialmente quelle che guidano i genitori, sembrano essere messe in discussione. E tuttavia le azioni appaiono fragili, le determinazioni incompiute. Le enunciazioni intercambiabili. Riuscire a contenere l’ansia del futuro che attanaglia il ragazzo uscito dalla regione incantata dell’infanzia, talvolta immobilizzandolo, oppure rubandogli il fiato, è la via accidentata e tortuosa verso la maturità. Il peso delle scelte da compiere si trasforma in un macigno. Le immagini di possibili futuri incalzano una dietro l’altra, senza soluzione di continuità, al tempo stesso esaltando e inaridendo l’iniziativa dell’adolescente.

    La civiltà del romanzo occidentale nasce dalla rappresentazione di tale condizione umana, simbolicamente incarnata dall’indimenticabile vagabondo errante del Lazarillo de Tormes (1554), novella picaresca all’origine della letteratura spagnola. Un’opera di valore universale con la quale l’anonimo autore ha gettato le basi per l’invenzione del concetto stesso di adolescente. Al punto che oggi, a qualcuno di noi, potrebbe capitare di veder spuntare, impertinente e capriccioso, il ghigno immortale e inconfondibile del trovatello iberico negli occhi accesi dei piccoli immigrati giunti sulle coste europee spesso senza avere niente in tasca. Le vicende tragicomiche dell’orfano teso a sopravvivere negli stenti, fra preti, ciechi e mendicanti, hanno segnato in modo profondo la forma narrativa moderna. Basti pensare a quante figure di ragazzi persi alla ricerca di se stessi gli saranno debitori: dal Tom Jones (1749) di Henry Fielding al nullafacente di Joseph von Eichendorff (Storia di un fannullone, 1823), fino all’Oliver Twist (1839) di Charles Dickens – per citare solo alcuni dei più rappresentativi. Potremmo dire che la percezione che noi ancora adesso abbiamo dell’adolescenza risale a tutti loro. Bambini cresciuti troppo in fretta, costretti a diventare adulti senza alcuna protezione famigliare, nei bassifondi delle prime metropoli industriali, nelle campagne dei masnadieri, mischiati a qualche banda di ribelli senza famiglia: sembra incredibile, ma basta poco per riconoscere in molti dei ragazzi che oggi sprofondano nella solitudine di fronte allo schermo del cellulare, scoppiano in gesti violenti contro gli altri o contro se stessi, oppure sbarcano su coste straniere dopo aver visto l’Inferno, le medesime tensioni che orientavano quei famosi personaggi romanzeschi.

    In L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, l’adolescente si pone al centro della scena, quale spartitore dei nuclei tematici: è colui che vive e racconta la storia del tesoro disegnato sulla mappa. Il quattordicenne protagonista di questo capolavoro, Jim Hawkins, ci conduce dentro l’emozione profonda della sua età. È lui a rievocare per noi la stagione dello sguardo dei bambini, ancora incantato ma non più rapito, bensì pronto a dar fuoco alle polveri varcando la soglia della pura contemplazione per entrare nel vivo della battaglia. Il coraggio del ragazzo, impegnato a misurarsi nelle prove che sanciranno o negheranno la sua crescita completa, stilla come una goccia piena dall’istintiva incoscienza, al punto da confondere, ai suoi occhi, ciò che appartiene ai regni del fantastico e a quelli dell’esperienza bruta. Nello Jim stevensoniano, mirabilmente conteso tra il focolare domestico e le avventure dei pirati, i due piani si sovrappongono, e chi osservasse da fuori l’intera avventura potrebbe avere l’impressione di vederli neutralizzarsi a vicenda, quasi che l’Hispaniola fosse un vascello fantasma e l’infarto del vecchio marinaio Billy Bones un malore da niente: cartoni di un mondo inventato che solo l’accesa fantasia dell’impareggiabile giovane eroe riesce a rendere credibili. Così, a conti fatti, è il romanzo di Stevenson che rappresenta, come meglio non si potrebbe, il carattere unico di questa fase vitale. Giorni travolgenti e indimenticabili, durante i quali siamo chiamati a riattraversare, quasi sempre da soli, la storia dell’umanità: se infatti pare innegabile che ogni generazione debba sempre ricominciare da capo la verifica della tradizione, il momento in cui ciò accade va collocato proprio intorno ai quindici, sedici anni. È come se nello sguardo smarrito di ogni ragazzino si riproponesse uno scenario preistorico.

    Chiunque abbia a che fare con gli adolescenti, in famiglia o a scuola, come padre e madre o nella funzione di educatore, è costretto a fronteggiare il continuo scarto che essi vivono fra i precetti che l’ordine sociale e giuridico chiede loro di accettare e la pulsione irrefrenabile che al contrario li spingerebbe, se non a distruggerli, almeno a contestarli: una frizione dolorosa tra la deflagrazione del desiderio, colto nella sua massima espansione biologica, e la necessaria accettazione del patto sociale. Nella drammatica conciliazione di queste forze contrastanti si forma il carattere della persona: se ciò non succede, possono aprirsi i fossati delle tossicodipendenze, le pareti cieche della disperazione. Ecco la ragione per cui trovare in certi momenti di particolare travaglio un adulto che non si limiti a indicare la norma, ma sia disposto a incarnarla, scoprendo gli ingranaggi della fatica necessaria, diventa imprescindibile.

    Lo sapeva il grande teologo protestante antinazista Dietrich Bonhoeffer quando, nella reclusione berlinese di Tegel, sotto le bombe dell’aviazione alleata, scrisse su questo aspetto alcune pagine da appuntarsi con l’inchiostro rosso: «L’adolescente non è mai totalmente là dove si trova; ciò fa parte della sua natura, diversamente egli sarebbe privo d’immaginazione; l’uomo invece è sempre un tutto e non sottrae nulla al presente. La sua nostalgia, che resta nascosta agli altri, è una nostalgia in qualche modo già sempre superata; e quanto più grande è il superamento che deve compiere, per essere totalmente presente, tanto più misterioso e affidabile egli diventa, nel fondo del suo essere, per il prossimo, e in particolare per i giovani che stanno ancora camminando sulla strada da lui già percorsa».

    Viceversa, se un adulto vuole conoscere la passione devastatrice in grado di animare il giovane alla ricerca di se stesso, non può far altro che simulare la sua voce: così accade con Dostoevskij quando scrive L’adolescente (1875), il cui protagonista, Arkadij, diviso fra due padri, quello naturale e quello putativo, deve affrontare il tipico smarrimento del minore non accompagnato, travolto e annichilito dalla spaventosa libertà che viene chiamato a gestire. Se a un giovane sottrai il nemico, polo di confronto e argine insostituibile, impersonato dal genitore – che troppo spesso lascia tale incombenza all’insegnante –, rischi di consegnarlo al vuoto dialettico, negandogli l’accesso alla vera maturità, frutto di andate e ritorni, analisi e scontri senza i quali l’esistenza perderebbe molto del suo senso. Carlo Collodi ce lo conferma appieno. Come da tempo gli studiosi hanno rivelato, Pinocchio (1881), dietro la confezione esteriore della favola per bambini, mostra una metamorfosi in atto. Ed è ben più che semplicemente istruttivo ripercorrere, attraverso l’educazione sentimentale del famoso burattino, le tappe inconfondibili, divertenti sì ma spesso angosciose, cariche di incubi e visioni, che segnano il suo complicato sviluppo da pezzo di legno a ragazzino perbene. Interpretato così, il monello di mastro Geppetto può diventare parente stretto del ragazzo randagio e selvaggio nato, solo tre anni dopo, sulle rive del Mississippi grazie alla fervida fantasia di Mark Twain.

    Il giovane vagabondo protagonista di Le avventure di Huckleberry Finn (1884), in fuga sulla zattera verso l’isola in mezzo al fiume insieme a Tom, l’amico migliore, e a Jim, il coetaneo nero liberato dai suoi padroni, diretto verso un finimondo di possibilità, è uno dei ritratti più belli mai fatti dell’adolescenza. Le sue note picaresche suoneranno a lungo nella letteratura americana lasciando forti rimbombi: a partire dal Nick presente ne I quarantanove racconti di Ernest Hemingway, attivo sin da piccolo alla frontiera con il Canada, ai quattordicenni cavalieri solitari di Cormac McCarthy, fino ai figli di coppie separate, malinconici e abbandonati a se stessi, al centro delle opere di Richard Ford.

    La religione della prima giovinezza, come la chiamava Jean Cocteau, consapevole della sua pericolosità, in I ragazzi terribili (1929), «esige delle astuzie, delle vittime, dei giudizi sommari, dei terrori, dei supplizi, dei sacrifici umani. I particolari restano nell’ombra e i fedeli possiedono un loro idioma che riuscirebbe incomprensibile a chi per caso li udisse senza essere visto». Pagine incandescenti e sempre attuali, anche alla luce di certi eventi che vedono alla ribalta quindicenni pronti a sfidare la morte compiendo gesti estremi.

    Il sentiero dell’adolescenza è pieno di piste false e fuorvianti, scorciatoie ingannevoli, fatte di lunghi giri oziosi, improvvisi avanzamenti, repentine marce indietro, accelerazioni e stop: è una storia di tempeste e bonacce, fulmini e cieli azzurri, dichiarazioni altisonanti e drammatici bisbigli. All’inizio credi di essere tu l’artefice unico del tuo destino, col tempo comprendi che non lo sei mai stato. Ciò che diventi dipende molto da quelli che hai incontrato, persino da chi hai perso. Da coloro che ti hanno abbandonato.

    Ma nell’adolescente brilla sempre una luce di speranza in grado di illuminare il suo cammino pur nei momenti più difficili. La stessa luce che fino all’ultimo sostenne, fra il sorriso e le lacrime, la resistenza gentile di Anna Frank: «Splende il sole, il cielo è azzurro intenso, soffia un venticello meraviglioso e vorrei tanto… vorrei… tutto… Parlare, essere libera, avere amici, essere sola. Vorrei tanto… piangere!».

    La dolce stagione. Giacomo Leopardi

    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

    e questa siepe, che da tanta parte

    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

    Ma sedendo e mirando, interminati

    spazi di là da quella, e sovrumani

    silenzi, e profondissima quiete

    io nel pensier mi fingo; ove per poco

    il cor non si spaura. E come il vento

    odo stormir tra queste piante, io quello

    infinito silenzio a questa voce

    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

    e le morte stagioni, e la presente

    e viva, e il suon di lei. Così tra questa

    immensità s’annega il pensier mio:

    e il naufragar m’è dolce in questo mare.

    Leopardi andava sul Monte Tabor sin da ragazzo a cercare momenti di pausa e riflessione. Si trattava di un luogo familiare al primogenito del conte Monaldo. Quando, a soli ventun anni, scrisse L’infinito – idillio in endecasillabi sciolti di valore sorprendente rispetto alle opere fino allora da lui composte – era reduce da una grande delusione: pochi mesi prima il padre, sventando un suo piano di fuga da Recanati, lo aveva mortificato, come nessun educatore dovrebbe mai fare. Eppure, il tumulto emotivo che potremmo supporre nel silenzio che precede il mirabile attacco della poesia sembra scomparso. Ogni presumibile enfasi viene cancellata, una volta per tutte, dalla perentoria risoluzione stilistica. Nel verso iniziale convivono due parole di opposta estrazione: «ermo» (solitario, lontano) e «caro». La prima è rara e scelta, la seconda dolce e affettuosa. D’improvviso il repertorio lirico e lessicale della nostra tradizione si ravviva come mai prima era accaduto. In questo avvio c’è una musica interna irripetibile, un’onda ritmica che certo ritornerà potente in Le ricordanze e suprema in La ginestra. Ma la lucidità febbrile e animata che dà vita al capolavoro dei vent’anni resterà come una luce unica della giovinezza, un nodo che non si scioglierà più.

    e questa siepe, che da tanta parte

    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

    La siepe impedisce allo sguardo di spaziare oltre, favorendo il raccoglimento del poeta. «Tanta parte» e «ultimo orizzonte» richiamano alla mente distanze vertiginose. «Quest’ermo» e «questa siepe» delimitano l’area: la inchiodano. È una contrapposizione folgorante che annuncia, in uno sventolio di bandiere, il tema-fondamento.

    Ma sedendo e mirando, interminati

    spazi di là da quella, e sovrumani

    silenzi, e profondissima quiete

    io nel pensier mi fingo;

    Il «Ma» iniziale è un colpo di gong improvviso che produce una torsione indimenticabile, da cui scaturisce tutto il resto. Mentre resta seduto e guarda, Leopardi immagina che oltre la siepe («quella») ci siano spazi privi di confine, silenzi indicibili, una quiete smisurata. Dalla posizione angusta in cui si trova, il poeta ricava, dentro di sé, un sentimento nuovo. Anche qui c’è una concretezza realistica (lo stare seduti) e un’astrazione fantastica (lo scenario figurato).

    ove per poco

    il cor non si spaura.

    La mente, nel suo agitarsi inquieto, aveva fatto congetture; il sentimento che ne consegue resta turbato, quasi confuso. Là dove la ragione avanza, il cuore recalcitra, timoroso. Notare che «il cor» non ha nulla di vezzoso. Siamo di fronte a uno strapiombo dell’anima. Come facesse il giovane Giacomo a non perdere, nemmeno per un istante, il governo degli strumenti espressivi, dominando la propria ansia tesa a rappresentarsi chissà quali mondi dietro quel cespuglio, resta un mistero. Questo ottavo verso è il centro pulsante della poesia perché viene spezzato dal punto fermo che imporrà un radicale cambio di passo: una scogliera memorabile della nostra letteratura dalla cui sommità un secolo di finti ragionatori (gli imparruccati poeti illuministi), prende congedo.

    E come il vento

    odo stormir tra queste piante, io quello

    infinito silenzio a questa voce

    vo comparando:

    Qui comincia, quarant’anni esatti prima del languido Bacio di Francesco Hayez, il vero, grande romanticismo italiano. La voce del vento tra le fronde degli alberi è penetrata nei «sovrumani silenzi» e li ha trasformati in «infinito silenzio»: il passaggio dal plurale al singolare risulta cruciale perché mette a fuoco l’immagine. Il silenzio nasce nell’animo del giovane come un’accensione spirituale indeterminata, quindi vibra dentro di lui nel rapporto diretto con la Natura. Quella che poteva rischiare di essere una semplice fantasticheria trova forza e riscontro nell’esperienza concreta.

    e mi sovvien l’eterno,

    e le morte stagioni, e la presente

    e viva, e il suon di lei.

    Aver udito il suono del vento fra le piante e averlo paragonato al silenzio interiore innesca il ricordo delle epoche trascorse che si ripresentano come in un fascio unico, tenendo insieme presente e passato, ancora nella successione fra plurale e singolare. «Morte stagioni»: qua c’è tutto il disincanto leopardiano, la sfiducia storica per quelle che poi diventeranno le «magnifiche sorti e progressive» della Ginestra. «La presente e viva, / e il suon di lei»: qui invece tocchiamo con mano il vitalismo del poeta che, nel momento in cui conosce la felicità, intuisce di non poterla praticare.

    Così tra questa

    immensità s’annega il pensier mio:

    e il naufragar m’è dolce in questo mare.

    Il pensiero, dopo aver immaginato territori sconfinati, non riducibili a categorie razionali, si perde, si smarrisce, muore. Questa sconfitta conoscitiva, invece di rattristare il poeta, lo fa star bene. Il piacere scaturito dal mancato controllo ha la meglio sulla pretesa di dominare i fantasmi appena evocati. Non si tratta di un abbandono mistico. Tutto nasce da un’emozione dei sensi. Questi ultimi, al cospetto del grandioso paesaggio della mente e del cuore, si trasformano in povere lance spuntate. Ma anche le categorie logiche non ci portano oltre. Il giovane Leopardi sputa a terra la semplice raison settecentesca. D’accordo, questa potrebbe essere la sua voce, mi sono letto tutta l’Encyclopédie. Ho eseguito i compiti. Ma cosa posso farmene ora, di fronte alla consapevolezza della finitudine che m’attanaglia? Proprio grazie a tale presa in carico della mia insufficienza, apprezzo i tesori che la vita mi offre. La loro sostanza effimera accresce il valore che possono dispensarmi. Un immortale, oltre a essere un individuo infelice, non scriverebbe.

    L’infinito rappresenta un punto di non ritorno. Dovremo aspettare ancora qualche anno per avere le risposte che qui mancano. Verranno annunciate nelle Operette morali e mirabilmente sentenziate in La ginestra: bisogna continuare a vivere per amore degli amici (Dialogo di Plotino e Porfirio) e andare avanti nella notte stellata, anche se ignoriamo dove possa mai essere l’America (Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez). Al tempo del suo primo grande idillio Leopardi non le aveva ancora elaborate. Era da solo sul colle come paradossalmente continuano a essere oggi, due secoli dopo, tanti adolescenti di fronte allo schermo del cellulare, che quegli stessi spazi chiamati in causa dal geniale giovinetto s’illudono, senza una siepe, di poter esplorare. Per questo l’età nella quale leggere, se non capire, con maggior profitto L’infinito resta la fascia che va dai quindici ai vent’anni, non superiore all’età in cui venne scritto.

    Il mestiere di vivere. Lazarillo de Tormes

    Alla base della civiltà narrativa moderna sta, fulgido e senza rivali, il Lazarillo de Tormes, romanzo cinquecentesco spagnolo d’autore ignoto, ma non certo improvvisato. È la storia di un povero accattone figlio di un mugnaio partito per la guerra e mai più ritornato, che si ritrova da solo con la madre la quale, non sapendo come mantenerlo, appena grandicello lo affida a un cieco bisognoso di guida.

    Iniziano così le avventure del piccolo randagio che s’addestra al «mestiere di vivere», come scrive lui stesso quando, ormai adulto, rivolto a un imprecisato «Vostro Signore», decide di svuotare il sacco. Cesare Pavese, scegliendo questo titolo per il suo diario, saprà cogliere, nella nota del 23 novembre 1937, insieme alla propria impotenza, lo spirito più autentico dell’orfano costretto, dopo essere caduto a terra, a rialzarsi in piedi e a riprendere il cammino: «L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità –, si vorrebbe morire».

    Oggi l’Europa è piena di Lazarilli multicolori che vengono dall’Africa e dall’Asia, minorenni non accompagnati, pronti a scoprire, fuori e dentro se stessi, le medesime risorse a cui attinge l’indimenticabile vagabondo in giro per le strade di Salamanca: prima al servizio di un prete che non esita a fargli fare la fame, poi sotto la direzione di uno scudiero se possibile ancora meno avveduto, quindi al seguito di un frate della Mercede, di un venditore d’indulgenze, di un cappellano e infine di un banditore di vini. Lazarillo, per placare i morsi della fame, deve fare di necessità virtù, dunque diventa esperto di comici stratagemmi tesi a rosicchiare i pezzi di pane che i suoi padroni gelosamente nascondono insieme a qualche crosta di formaggio. Fra gli episodi più famosi (ricavati dai fabliaux, divertenti racconti lirici d’origine medievale, talvolta dal linguaggio scurrile, diffusi nelle corti dai trovieri), possiamo per esempio ricordare quello della chiave della stanza delle provviste tenuta in bocca dal ragazzo durante la notte e poi scoperta dal proprietario con dolorose e tuttavia esilaranti conseguenze.

    Dobbiamo considerare che prima dell’avvento di questo testo gli unici romanzi esistenti erano quelli cavallereschi d’impronta aristocratica. Qui invece troviamo uno sguardo realistico inaspettato: gli ambienti rustici delle case che emergono potenti fra le pagine come fondali di teatro, il vicinato chiassoso e popolare con le anziane tessitrici pronte a prendersi cura del ragazzo nel momento del bisogno, le ricette di cucina, i giochi di cortile, i mestieri perduti, come quelli dei venditori d’acqua e dei pittori di tamburello, le pietanze, gli usi e i costumi della società del tempo.

    Lazarillo alla fine metterà giudizio e diventerà adulto, si sposerà con una domestica, troverà persino una certa tranquillità economica, ma nella percezione dei suoi tanti futuri lettori resterà sempre l’adolescente astuto e intraprendente capace di sopravvivere in mezzo alle quotidiane difficoltà della vita, fino al punto di trasformarsi nella prima maschera universale del romanzo picaresco e forse ancora di più: nel fantastico padre spirituale di Cervantes e Defoe, figure alla base della coscienza occidentale.

    Trovatelli sovietici. Luciano Mecacci

    Ragazzi abbandonati costretti a vivere da soli senza punti di riferimento ci sono sempre stati. Dall’Africa e dall’Asia, molti di loro raggiungono l’Italia e ci raccontano le terribili esperienze che hanno vissuto. Alcune famiglie di nostri connazionali se ne prendono cura adottandoli, oppure diventando per loro figure di riferimento: si tratta di individui speciali di cui non si parla abbastanza. Invece io credo che proprio da queste persone dovremmo ripartire per ricucire, con pazienza e lungimiranza, il tessuto sociale strappato del Paese. I cosiddetti trovatelli incarnano un principio di umanità allo stato puro: non è un caso che essi crescano di numero nei momenti di crisi politica. Specie nel passaggio da un regime all’altro. Ma forse la dimensione dell’orfanità non fu mai così grande come nella Russia sovietica, all’indomani della rivoluzione bolscevica, quando sette milioni di bambini, maschi e femmine, dopo aver perduto i genitori, si ritrovarono in balia del destino, costretti a rubare e a mendicare pur di sfuggire ai morsi della fame e sopravvivere al gelo. «Giorni interi se ne stanno / malinconici a fischiare» scrisse di loro Sergej Esenin.

    A questa drammatica stagione novecentesca è dedicato un libro di storia sconvolgente: Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), la cui lettura ci fa sprofondare in un abisso che potrebbe sembrare incredibile, se ogni affermazione non fosse documentata con puntuale rigore filologico nell’accertamento costante delle fonti che comprendono documenti, testimonianze e articoli, nonché alcune impressionanti fotografie. Lo ha scritto Luciano Mecacci, al quale va la nostra ammirazione per il lavoro certosino che ha fatto. Il risultato avvicina quest’opera ad altre grandi ispezioni sul male umano: da In quelle tenebre di Gitta Sereny a L’istruttoria di Peter Weiss. La parola Besprizornye ricorre spesso nella letteratura novecentesca: come ricorda l’autore, ne fece cenno persino Beppe Fenoglio in Il partigiano Johnny; e quasi tutti i cronisti occidentali che visitarono la Russia post-rivoluzionaria – dal più oscuro giornalista a scrittori e filosofi celebri come Joseph Roth, Walter Benjamin, André Gide e George Simenon – nei loro reportage non mancarono di segnalare la presenza dei bambini randagi nei pressi delle stazioni ferroviarie.

    Gli orfanotrofi non riuscivano a contenerli, molti scappavano e si organizzavano in bande di piccoli rapinatori, pronti a lottare per un semplice giaciglio nei sotterranei delle città ghiacciate, attraversando tutte le tappe del degrado e della mortificazione: solitudine, droga, prostituzione, fino al cannibalismo. La carestia ucraina, in particolare, come ben sappiamo – basti ricordare fra gli altri il libro di Martis Amis, Koba il Terribile – provocò una regressione bestiale nei comportamenti umani. Una gran parte di questi bambini disperati non divenne mai adulta, molti finirono nei gulag siberiani: Solženicyn e Šalamov ne hanno dato conto in pagine che non si dimenticano. Siamo nei pressi di Stavrogin, il più demoniaco dei personaggi dostoevskiani. Le autorità sovietiche, malgrado la pubblica preoccupazione della moglie di Lenin, Nadežda Krupskaja, cercarono di nascondere e soffocare la diffusione di notizie riguardo al crimine infame perpetrato nei confronti degli Besprizornye. Vladimir Majakovskij li ritrasse in una poesia nel momento in cui derubavano i passanti: «Mollate la borsa, cittadine-zietta, / se no vi mordo, / se no v’infetto».

    Chi lavora nelle case-famiglia o nei centri di prima accoglienza per minori conosce la solitudine dei ragazzi smarriti che arrivano da noi con soltanto una borsa di plastica, a volte senza nemmeno quella, dove conservano i pochi oggetti di cui dispongono: biancheria, dentifricio e smartphone. Di fronte alla loro mortificazione, quasi sempre camuffata dal sorriso o dalla sbruffonaggine tipica degli adolescenti, non dovremmo girare la testa da un’altra parte. O lamentarci solo quando diventano pericolosi.

    Vita animale. Aharon Appelfeld (1)

    Credo di aver letto praticamente tutti i libri di Aharon Appelfeld, il grande scrittore israeliano scomparso qualche anno fa dopo un’esistenza incredibile, segnata dallo sterminio nazista che in Bucovina gli portò via i genitori e da un’infanzia randagia nei boschi. Una volta, incrociandolo al Salone del Libro di Torino, gli chiesi a bruciapelo perché non avesse mai raccontato, se non per allusioni, il lager che pure conobbe personalmente in Transnistria, allora territorio rumeno. Mi rispose in un soffio, con gli occhietti socchiusi dietro le spesse lenti, dicendo che quella era stata soltanto «vita animale». Un’espressione che mi sarebbe rimasta fissa in mente, anche pensando a ciò che poteva significare la reclusione coatta vista dagli occhi di un bambino. Di certo Appelfeld raccontò come pochi altri reduci gli effetti che il campo di concentramento produsse nella psiche dei deportati: conseguenze spesso nemmeno percepibili da un occhio esterno, ma in grado di sconvolgere l’esistenza di quegli sventurati non solo per ciò che subirono, ma anche per quel che videro. Penso sia questa la prospettiva migliore con la quale leggere L’immortale Bartfuss, che risale agli anni Ottanta del secolo scorso e mette in scena una sorta di alter ego dell’autore, il protagonista, capace di sopravvivere alle pallottole nemiche e approdato come tanti scampati a Giaffa, dopo una prima parentesi italiana. Ciò che colpisce

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