Perimeni
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Anteprima del libro
Perimeni - Alessandro Fambrini
a cura di World SF Italia
Perimeni
di Alessandro Fambrini
ISBN versione ePub: 9788867755011
© 2014 Alessandro Fambrini
Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl
Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano
Versione: 1.0 ottobre 2014
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.
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Indice
Alessandro Fambrini
Perimeni
Introduzione dell'autore
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Delos Digital e il DRM
In questa collana
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Alessandro Fambrini
Alessandro Fambrini, nato a Seravezza (Lucca) nel 1960, lavora presso l’Università di Trento. Si occupa di letteratura tedesca di Ottocento e Novecento; in particolare dei rapporti tra avanguardia e tradizione nel fin de siècle come lente d’ingrandimento per una definizione e una migliore comprensione della modernità. Ha pubblicato lavori tra gli altri su Kurd Laßwitz (Apoikis, ovvero I sogni della scienza sono un mondo senza scienziati, 1999), Egon Friedell (Egon Friedell precursore dello Steampunk?, 2002), Franz Kafka (Tentativi di evasione. Kafka e Houdini, 2003). Al fantastico e alla fantascienza ha dedicato e dedica un impegno non secondario come autore (racconti e romanzi su numerose pubblicazioni del settore, tra le quali Urania e Robot) e come critico (numerosi i suoi articoli e saggi pubblicati su Futuro Europa, Robot, Nova sf* e Anarres, che ha fondato insieme a Salvatore Proietti nel 2012).
Dello stesso autore
Alessandro Fambrini, Arco iris de mi alma Classici della Fantascienza Italiana ISBN: 9788867753031
Introduzione dell'autore
Questo racconto nasce da un episodio reale. Nel corso di un viaggio in Grecia nel 2002, nel parcheggio presso uno dei monumenti più splendidi del mondo, il Palazzo di Nestore, vidi due bambini eseguire una strana danza. Uno di fronte all’altro, come per un serissimo gioco o sull’onda di una musica silenziosa, eseguivano movimenti solenni, scanditi da una litania che culminava in quella strana parola che alle mie orecchie risuonava come – perimeni. – Non conosco il greco moderno, quelle sillabe non rappresentavano altro per me che un suono suggestivo, e la storia aveva già preso forma dentro quando infine, dopo varie ricerche, mi fu spiegato che cosa significasse quella parola. Non fui troppo stupito di scoprire che s’incastrava alla perfezione nel mio racconto. Sarà stato il contesto, la combinazione tra la solennità del luogo e l’incongruenza apparente di quei gesti, ripetuti secondo una coreografia precisa, come se i bambini che li eseguivano fossero posseduti da qualche demone silvano, dimorante tra le pendici scabre della collina e il riverbero del mare, accecante nell’agosto: sta di fatto che in rare altre volte come in quella, se mai, mi sono sentito tanto vicino al mistero.
Devo dire poi ancora: che Perimeni è una trasparente trasposizione narrativa della crisi dei quarant’anni, da qui un protagonista-narratore così torvo, chiuso in se stesso e terrorizzato dal mondo, in particolare dall’universo femminile (se c’è misoginia – spero esorcizzante – nei miei racconti, questo davvero li batte tutti); che per quanto e in quanto spregevole soggetto, detto protagonista è anche un pezzo di me; che, infine, il personaggio di Fotini è ispirato anch’esso a persone reali, e a una in particolare, io l’ho soltanto resa un po’ meno affascinante e un po’ più terribile.
Il racconto è uscito nel 2004 su – Robot – nuova versione, accolto lì dallo strepitoso Vittorio Curtoni, che gli dei di Perimeni l’abbiano in gloria. Una successiva edizione è apparsa nel 2005 in Le strade che non esistono, un’antologia di miei racconti pubblicata dalla gloriosa Perseo Libri, con una generosa, lusinghiera (fin troppo!) introduzione di Ugo Malaguti, e sia gloria anche a lui. Da quest’ultima edizione, tra l’altro, ho ripreso buona parte delle presenti note.
1
Fu più che altro per snobismo, lo riconosco, che scelsi Patmos. Tra le isole del Dodecaneso, Patmos è quella più arida, più desolata, più triste. Distese di roccia riarsa si susseguono sul suo dorso irregolare, alternandosi ai pochi campi di terra giallastra, sterile, che gli abitanti cercano da secoli di coltivare, strappandola al deserto. Le capre leccano il sale dalle pietre, strappano le gemme agli arbusti stenti e le masticano lente, con le loro bocche orizzontali, riducendone la polpa tignosa a poltiglia commestibile. Le città degli uomini si arroccano sulle alture, cercando il vento e l’aria respirabile, case bianche hanno preso il posto delle grotte che un tempo furono care agli eremiti, mentre la costa dagli scogli affilati come rasoi è lasciata al suo ribollire e alle sue calate inaccessibili.
Scelsi Patmos perché non ci sono spiagge, non ci sono aeroporti, non ci sono turisti. Il viaggio per raggiungere Skala, il porticciolo che sorge nell’insenatura a forma di mezzaluna intorno alla quale l’isola raggruppa le sue coste contorte, è interminabile: un volo da Roma ad Atene, poi la scelta se proseguire dal Pireo con un traghetto bisettimanale che svolge anche la funzione di postale e attracca a sette altre isole prima di incontrare Patmos, oppure il trasbordo su un altro apparecchio della Olympic, gemello del primo, ma di dimensioni molto ridotte, e la traversata aerea fino a Samo o a Lesbo, in attesa che lo stesso postale giunga, nel suo lento tragitto, e ti raccolga per l’ultima parte del viaggio.
Fu questa la soluzione che scelsi, relativamente più comoda, e lo dico perché non voglio che sorgano equivoci. Non amo il disagio, non voglio giocare al Robinson Crusoe, non credo nei ritorni alla natura e detesto tanto i manager panciuti quanto gli intellettuali smilzi che, per una o due settimane all’anno, a Mani come a Moorea come a Ginostra, si divertono a imbastire un costosissimo gioco di società, così simile a quelli dei loro salotti, sentendosi tanto eroici e tanto veri perché privi di elettricità o di acqua corrente, ma ben collegati al mondo, in compenso, grazie al loro telefono satellitare, all’invisibile rete che li avvince e impedisce fughe e cadute, alla loro incapacità di uscire dall’orizzonte che hanno dentro di sé, con la loro mente che ingloba e appiattisce tutto ciò su cui si sofferma.
A Patmos cercavo quello che aveva cercato tanti anni prima di me Giovanni, imbattendosi nei fantasmi e nelle visioni del suo Apocalisse: isolamento, quiete, la discrezione degli uomini. Trovai tutto questo, che mi serviva per chiudere infine il libro al quale stavo lavorando da anni, e trovai altro ancora. Fu in virtù di questo altro che non terminai il mio libro e dubito di poterlo mai terminare. Di volerlo mai terminare. Perché, per usare proprio le parole di Giovanni, dopo aver visto l’abisso, come si può ritornare alla terra?
Arrivai in una calda, assolata domenica di fine settembre. Scendemmo in pochi sul molo squallido di Skala, arrancando a fatica con i bagagli e i sacchi postali sulla scaletta di servizio che il capitano del traghetto aveva disposto per il nostro attracco, ritenendo con ogni evidenza di non dover accostare per più di qualche minuto in quello scalo sgradito. Neppure i motori furono spenti e la nave ripartì in grande fretta, forse per l’inutilità di una sosta più prolungata o più probabilmente perché il mare agitato che avevamo incontrato quasi sempre durante la nostra traversata, battuto da un vento incessante, aveva causato un ritardo sulla tabella di marcia. Sapevo però che i tempi di viaggio, secondo il costume greco, avrebbero dovuto essere molto